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Bisogna mettere in conto gli imprevisti!
Per quanto uno di noi possa tendere (per temperamento innato o per formazione acquisita) a prevedere tutto, a immaginare le cose il più possibile preventivamente, a progettare anche i minimi particolari di una situazione (ad esempio, di una scelta), ci sarà sempre qualcosa che sfuggirà ai nostri calcoli, che ci troverà impreparati e, alcune volte, senza immediate soluzioni a portata di mano per i problemi che ci si presentano innanzi.
Questa (anche questo) è la vita: l’imprevedibilità!
© Giovanni Lamagna
Semplicità e semplicismo
Credo che occorra essere molto rigorosi e netti nel fare questa distinzione: una cosa è la semplicità, altra cosa è il semplicismo.
E che occorra perseguire (con costanza, con metodo, con tenacia) la semplicità come stile di vita.
Ma che sia necessario allo stesso tempo fuggire (con uguale costanza, tenacia e metodo) il semplicismo.
La semplicità, infatti, non si propone e, meno che mai, si sogna di negare la complessità, la difficoltà dei problemi, anzi della vita stessa.
Il semplicismo invece è proprio questo: la negazione, la rimozione della complessità, in nome dell’approssimazione, della faciloneria, del ricorso alle soluzioni (o, meglio, pseudosoluzioni) che a volte quasi sembrano voler negare l’esistenza stessa dei problemi.
La semplicità non nega la complessità e non parte dal presupposto che già sia tutto chiaro, anzi semplice, in partenza.
La semplicità ha come suo primo obiettivo quello di rendere chiaro il problema, che all’inizio, in molti casi, non lo è affatto.
E, per raggiungerlo, non si limita solamente a semplificare il linguaggio; cosa che, almeno in certi casi, è del tutto impossibile.
Cerca solo – almeno ci prova – di rendere il linguaggio quanto più accessibile al maggior numero di persone possibile.
Senza però mai farlo scadere al livello della superficialità, dell’approssimazione, se non della vera e propria banalità.
La semplicità, inoltre, non nega, né rimuove le contraddizioni (logiche, filosofiche, teoriche, materiali, economiche, sociali, culturali, politiche…) ed i conflitti che da esse derivano.
Prova solo ad individuare i percorsi, i metodi più adatti ed efficaci per affrontarle e possibilmente risolverle.
Nel suo procedere non fa mai credere, anzi non dà mai neanche lontanamente a intendere, che il suo cammino sia tutto rose e fiori, solo avanzamenti e successi, applausi e premi.
Ammette e riconosce i fallimenti, i punti di crisi, le sbandate, gli arretramenti, così come evidenzia gli avanzamenti e i risultati ottenuti.
Per concludere, la semplicità non è una dote di natura, quasi fosse costitutiva del codice genetico di una persona.
Ma è il frutto di una vera e propria ascesi, di un lavoro faticoso, a volte duro, innanzitutto su stessi.
La semplicità, in altre parole, è il punto di arrivo di un percorso intellettuale, etico e, perciò, spirituale, che tende ad affinarsi ed elevarsi sempre più nel corso del cammino; non è mai il punto di partenza di una vita.
Può e deve essere considerata, dunque, una virtù e non una qualità innata, come lo sono (per fare degli esempi) la bellezza fisica o il quoziente intellettuale.
Si diventa semplici, così come si diventa colti, saggi, educati, buoni…
Si nasce infantili e si corre il rischio di rimanere tali o di diventare dei sempliciotti, se non si fa un lavoro serio e, in molti momenti, duro su se stessi.
Non si nasce semplici, come qualcuno crede, confondendo (semplicisticamente, appunto!) la semplicità con la semplicioneria.
© Giovanni Lamagna
Due modi di guardare alla Storia
Ci sono due modi di guardare alla storia.
Il primo è quello di guardare agli avvenimenti storici con l’occhio dell’osservatore neutrale, che cerca di fotografarli o di descriverli il più fedelmente possibile, astenendosi da ogni giudizio di valore, meno che mai di natura etico/morale.
E’ questo l’atteggiamento di chi guarda ai fatti storici come ciò che, se è accaduto, non poteva che accadere e non poteva che accadere così; come se il prima e il dopo dei fatti storici fossero legati tra di loro anche da un rapporto di causa ed effetto.
E la storia lasciasse ben poco spazio, anzi nessuno spazio, al caso, all’imponderabile, a ciò che, almeno in teoria, poteva essere, ma non è stato poi nella realtà.
Da questo punto di vista acquista un senso particolare ai miei occhi la famosa affermazione hegeliana “Ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale”.
Laddove qui la categoria del “razionale” non ha evidentemente niente a che fare con il “buono” e con il “giusto” e, meno che mai, con ciò che per noi sarebbe stato “auspicabile”.
Cioè con categorie etiche che potremmo definire universali e atemporali, che dovrebbero valere sempre e ovunque, non solo post, ma anche ante quam, a prescindere dunque dal contesto di tempo e di luogo, nel quale si svolgono gli avvenimenti storici.
Ma è una categoria logica, gnoseologica, interpretativa, da utilizzare solo post quam, come pura presa d’atto della realtà storica, che, se si è realizzata in un modo, non poteva realizzarsi altrimenti; e, quindi, ha per forza di cose una sua logica, anzi la sua razionalità.
Chi fa lo storico per mestiere, a mio avviso, non può che guardare alla storia con questo occhio.
Lo studioso della Storia non deve (o non dovrebbe) dunque emettere giudizi sui fatti storici, ma deve (dovrebbe) limitarsi a ricostruirli il più possibile in maniera fedele e integrale, senza ometterne e senza falsarne alcuno; il suo deve (dovrebbe) essere quindi quasi l’occhio di un fotografo.
C’è, però, anche un secondo modo di guardare alla Storia.
Che non è quello dello storico professionista, ma è lo sguardo di chi utilizza in qualche modo la Storia per fare altre professioni o attività: quelle del filosofo, del sociologo, del politico, perfino dello psicologo.
Anche questo sguardo sulla Storia legge i fatti accaduti nel passato non certo e neanche tanto per emettere giudizi su quanto accaduto.
A cosa servirebbe? Il passato è oramai passato!
Quanto per trarne delle lezioni, degli insegnamenti rispetto alla propria azione nel presente, tesa a costruire il futuro.
Il futuro proprio, innanzitutto: di singolo individuo, di singola persona.
Ma anche quello delle collettività in cui il filosofo, il sociologo, il politico, lo psicologo si trovano a svolgere la loro professione o attività.
Valutare gli insuccessi, i fallimenti di molte imprese e personaggi storici può aiutare ciascuno di noi, ma in modo particolare coloro che svolgono le professioni che ho nominato sopra, a fare scelte, ad adottare comportamenti diversi, a trovare soluzioni alternative a quelle, che, in situazioni storiche simili o affini a quelle in cui ci troviamo ad operare nel presente, furono adottati nel passato.
Nella speranza (ahimè, quante volte, però, disattesa!) che la Storia si dimostri (non dico sempre, ma almeno qualche volta) “magistra vitae”.
© Giovanni Lamagna