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I partiti politici sono stupidi?

Nel libro/intervista “La speranza oggi” (Mimesis Minima 2019), a pag. 66, Sartre afferma: “… io ritengo che ogni partito sia necessariamente stupido.”.

Personalmente concordo parecchio e in buona sostanza con questa affermazione; e vorrei spiegare perché.

Perché un partito è un’organizzazione; e come tutte le organizzazioni prevede ed ha al suo interno delle gerarchie; più o meno rigide; i vecchi partiti comunisti avevano addirittura un’organizzazione di tipo quasi militare.

Ora dove ci sono gerarchie vengono fatalmente a costituirsi meccanismi di fidelizzazione e di burocratizzazione; e più le gerarchie sono rigide più questi meccanismi ovviamente sono fatali e automatici.

Ora tutti sappiamo che i fedelizzati e i burocrati sono per loro natura “persone” che tendono a sacrificare (nel migliore dei casi a depotenziare, nel peggiore a mettersi totalmente sotto i piedi) la loro intelligenza.

Per fare contenti i loro capi/dirigenti e ottenerne in cambio vantaggi personali, dei più vari.

Ecco spiegato perché concordo in buona sostanza (fatte salve lodevoli eccezioni, che però confermano la regola) con quanto affermato da Sartre sui partiti politici.

© Giovanni Lamagna

Paternità, maternità, Legge, desiderio e godimento.

Scrive Massimo Recalcati nel suo “La legge della parola” (2022 Einaudi; pag. 106): “… ogni padre rappresenta la Legge senza però mai coincidere con la Legge. E questa non coincidenza dipende anche dal fatto che ogni padre è anche un uomo di godimento. Occorre dunque che il padre insieme alla Legge testimoni il suo desiderio singolare nelle forme del proprio godimento.

Mi riconosco molto in queste affermazioni.

Tra l’altro quello che per Recalcati vale per un padre per me vale anche per una madre.

Nel testo da me citato Recalcati nomina il padre, ma, a mio avviso, solo perché sta parlando di Noè, cioè di un maschio.

Ma io ritengo che entrambi, sia un padre che una madre, (e credo che Recalcati sarebbe d’accordo con me) devono (o dovrebbero) essere testimoni del proprio desiderio nei confronti dei figli, entrambi devono (dovrebbero) rivendicare il loro (buon) diritto al godimento.

Anteporre, privilegiare, in presenza della prole, l’interesse per i figli alla cura del loro rapporto coniugale, sacrificare i propri desideri e il proprio godimento in nome dell’amore quasi esclusivo da dedicare ai figli, sono scelte che rappresentano una deformazione, anzi una vera e propria perversione, del ruolo di padre e di madre.

In questo modo i genitori testimonieranno ai figli solo il senso del dovere: la Legge sganciata dal desiderio, come dice Recalcati e come aveva detto, prima di lui, Lacan.

Mentre la vita non è fatta solo di doveri; è fatta indubbiamente di doveri ma anche di piaceri.

E come bisogna adempiere ai propri doveri, così è giusto rivendicare il proprio diritto al piacere, quando questo è compatibile coi doveri.

Il piacere, indubbiamente, deve trovare un limite nel senso del dovere; il “principio di piacere” deve trovare il suo limite nel “principio di realtà”, come sosteneva Freud.

Ma anche il senso del dovere deve riconoscere uno spazio al piacere.

Laddove, infatti, un malinteso “principio di realtà” soffoca – oltremodo e, soprattutto, senza sufficiente motivo – il “principio di piacere”, la persona si ammala.

Quelli in cui ci si concede al piacere sono momenti nei quali possiamo metaforicamente ricaricare le batterie e ritrovare le energie utilizzate per assolvere ai nostri doveri passati, le forze necessarie ad esercitare in maniera adeguata i nostri doveri futuri.

I genitori, dunque, che (per fare un esempio tipico e molto calzante con il discorso che stiamo facendo) mortificano la loro vita sessuale (nel senso che la ridimensionano in maniera importante o addirittura vi rinunciano, come succede in alcuni casi) per dedicarsi anima e corpo alla cura e all’allevamento dei figli, tradiscono in questo modo (per venire al discorso da cui siamo partiti all’inizio) il loro desiderio in nome della Legge.

Una legge scritta da nessuna parte, ma che evidentemente è ben incisa nel loro Super-io.

Una legge legata a sensi di colpa oscuri, malsani, che nulla hanno a che fare col “principio di realtà” di cui parlava Freud.

E, in questo modo, trasmettono ai loro figli una versione sbagliata, deforme, unilaterale, sacrificale, masochista, della Legge.

Iniettando in loro veleno (sia pure senza volerlo e senza esserne consapevoli), trasmettendo loro i germi di future nevrosi e, nei casi più gravi, addirittura di psicosi.

© Giovanni Lamagna

Contenuto e forma della morale.

Nelle affermazioni di Sartre sulla morale c’è una contraddizione fondamentale, che egli stesso sembra riconoscere a pag. 105 del suo libro “L’esistenzialismo è un umanismo” (Armando Editore; 2014).

Infatti, da una parte afferma che il contenuto della morale è variabile (in quanto l’uomo è totalmente libero, è simile all’artista, è il creatore dei suoi valori…), dall’altra afferma che una certa forma della morale è universale (concorda quindi con Kant che “la libertà vuole se stessa e la libertà degli altri”).

Ora delle due l’una: o la forma della morale è universale o non lo è.

Per me, come per Kant (e come sembra ad un certo punto anche per Sartre), la forma della morale è universale.

Ma, se è universale, allora anche i suoi contenuti non possono essere variabili oltre un certo limite, non possono essere creati ad libitum, come sembra invece dire Sartre, contraddicendo la sua affermazione sulla forma universale della morale.

Concordo, invece, con Sartre che la morale non può che definire valori generali, universali, quindi astratti, e che l’uomo, quando si trova a fare scelte concrete, deve assumersi fino in fondo la responsabilità della propria decisione, che non trova prescritta su nessuna tavola della Legge.

La norma morale arriva a dirci che bisogna amare gli altri come se stessi; o che bisogna fare agli altri ciò che vorremmo gli altri facessero a noi e che non bisogna fare agli altri ciò che non vorremmo gli altri facessero a noi.

Ma non ci dice cosa vuol dire concretamente amare gli altri e se stessi o cosa bisogna fare o non fare nella singola situazione.

Ci sono, infatti, situazioni esistenziali nelle quali l’uomo è chiamato a decidere tra due (o, addirittura, più) scelte ragionevoli e, quindi, tutte legittime.

In questo caso, allora, (e qui Sartre ha per me ragione) egli è pienamente creatore (possiamo dire) del valore della sua scelta, che non trova da nessuna parte un fondamento universale ed assoluto.

Prendiamo il caso (per fare un solo esempio, che ho tra l’altro vissuto sulla mia pelle) di un uomo che si innamora di un’altra donna essendo sposato e con figli.

Che fa, che deve fare un uomo che si trova in una tale situazione?

Sacrificare l’amore nuovo per la donna di cui si è innamorato in nome dell’amore precedente per i figli?

O sacrificare l’amore primo per i figli in nome dell’amore sopravvenuto per la donna di cui si è innamorato?

In questa scelta l’uomo coinvolto è pienamente autore, creatore del valore della sua decisione.

Non esiste una norma universale ed assoluta che in qualche modo gliela imponga.

Entrambe le scelte sono legittime, in quanto hanno un loro fondamento razionale.

Entrambe comportano dei costi, delle sofferenze, sue e di altri.

Facendone una, l’uomo si assume pienamente la responsabilità della sua scelta, non la delega, non può delegarla ad altri.

Meno che mai la trova già bella e scritta da qualche parte.

In qualche modo deve “creare” la norma che poi applicherà nella situazione concreta in cui è chiamato ad agire, a fare la sua scelta.

© Giovanni Lamagna

Sui concetti di “individuo”, “massa”, “società”, “persona” e “comunità”

Una delle differenze principali tra la coppia di concetti/categorie di “individuo” e di “massa” e quella di “persona” e “comunità” sta nel fatto che all’interno della prima (individuo/massa) esiste un contrasto netto, una conflittualità strutturale, mentre all’interno della seconda (persona/comunità) le due componenti convivono (o possono convivere) in (relativa) pace ed armonia.

Tra la massa e l’individuo sussiste una conflittualità strutturale, più o meno latente e implicita, più o meno manifesta ed esplicita: la massa tende a prevalere sull’individuo, ad assorbirlo, a soffocarlo; per converso l’individuo deve odiare la massa o, quantomeno, disprezzarla ed opporsi ad essa, se non vuole esserne annullato.

Laddove prevale la dimensione di massa l’individuo viene penalizzato, sacrificato, se non oscurato del tutto: nella massa l’individuo diventa un numero, un frammento, il cui valore è (quasi) del tutto insignificante.

Laddove, invece, prevale (o dovesse prevalere) la componente “individuo” (il cosiddetto individualismo) le aggregazioni sociali risultano essere estremamente frammentate, atomizzate, instabili, erose, lacerate dai conflitti.

Ma – a dire il vero – questo fenomeno (la prevalenza degli individui sulla massa) a me pare si verifichi molto di rado, per non dire mai: è molto più frequente che gruppi (per quanto ristretti) di individui (élites, lobbies, multinazionali…) si impongano sulla massa.

L’affermazione famosa dell’ex primo ministro inglese Margaret Thatcher, “non esiste la società, esistono solo gli individui”, si riferiva ad una realtà sociale (come quella inglese agli inizi degli anni ’80) in cui determinati gruppi si erano affermati su altri (come è del resto sempre avvenuto nella storia) piuttosto che una reale e piena affermazione dell’individuo (degli individui) sulla massa, sul resto della società.

Il fatto che i gruppi sociali vincenti fossero anche fortemente conflittuali e competitivi al loro interno non cancella né oscura il fattore di patto e alleanza (se non altro impliciti) che ne aveva favorito (se non determinato) la vittoria contro i gruppi sociali perdenti.

Nel rapporto tra la persona e la comunità non esiste, invece, nessuna conflittualità strutturale, neanche latente, ma sussiste una stretta connessione, interdipendenza.

La persona si realizza pienamente solo nella comunità. E la comunità per realizzarsi ha bisogno che ogni singola persona che la compone si realizzi nella sua singolarità.

Mai una comunità potrebbe chiedere ad un suo singolo membro di sacrificare se stesso in nome del vantaggio collettivo e “superiore” della comunità.

Semmai potrà essere il singolo membro della comunità a decidere autonomamente, liberamente e solo in casi estremi, di sacrificare se stesso, per il bene superiore della comunità.

Nella massa il singolo individuo rinuncia alla sua identità personale, si spersonalizza, appunto.

Nella massa è l’insieme, anzi l’insieme indistinto, ciò che conta. Nella massa l’individuo scompare, conta poco o nulla.

Nella comunità, invece, l’identità di ciascuna persona non solo non viene annullata, ma viene esaltata.

La comunità abbisogna dell’apporto attivo, protagonista, di ciascuna persona che la compone: la comunità non è fatta di comparse e manco di comprimari.

In una comunità ci possono essere dei leader o un leader, ma tutti hanno un loro ruolo e svolgono una loro funzione importante.

Alla massa si appartiene in modo irriflesso, alla comunità, invece, si decide di partecipare. E sempre in maniera attiva, libera, con una scelta pienamente consapevole, da rinnovare anzi ogni momento.

© Giovanni Lamagna