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Desiderio amoroso e desiderio sessuale

Sartre, sulle orme già tracciate da Freud, distingue il “desiderio d’amore” dal “desiderio sessuale” (1).

Già Freud, infatti, ben prima di Sartre, aveva parlato di una “eterogeneità strutturale tra la dimensione della pulsione sessuale e quella della tenerezza amorosa.” (2)

Lacan aveva poi ripreso questa riflessione mostrando “l’inconciliabilità tra la dimensione del godimento che ruota attorno al carattere autistico della pulsione e quella dell’amore, che invece si nutre del segno di riconoscimento dell’Altro, della sua parola.” (3)

Io condivido la distinzione di cui parlano Freud, Sartre e Lacan, non condivido l’idea che essa equivalga a eterogeneità, anzi inconciliabilità assoluta; non condivido insomma l’idea che la distinzione di cui sopra sia un tratto strutturale e, quindi, insuperabile della “psicologia della vita amorosa”.

Concordo che la divisione tra desiderio amoroso e desiderio sessuale sia presente nella maggioranza, se non nella quasi totalità, dei rapporti amorosi, non concordo però che essa debba essere considerata un dato intrinseco e, quindi, ineliminabile dei rapporti amorosi.

Concordo che, con il trascorrere del tempo e con l’instaurarsi della ripetizione dello stesso e quindi della routine, all’interno dei rapporti amorosi venga il più delle volte ad instaurarsi la scissione di cui parlano sia Freud che Sartre e Lacan.

Concordo che la forte passione, che unisce l’attrazione sessuale alla tenerezza, in un impasto/intreccio in cui l’una tende a rafforzare l’altra e viceversa, caratterizza la maggior parte dei sentimenti amorosi solo nella fase iniziale dei rapporti, quella dell’innamoramento.

Mentre col tempo, nella maggior parte dei rapporti, essa tende a sfumare, a scemare, ad appassire come succede ai fiori, e a divaricare, in due direzioni separate e a volte del tutto opposte, le sue due correnti fondamentali: quella della tenerezza e quella della sensualità.

Ritengo, però, che questo destino di inaridimento e scissione del sentimento passionale iniziale non sia affatto ineluttabile e senza alternative, ma che possa essere affrontato, contrastato e vinto, se le due persone coinvolte nella relazione d’amore ne hanno una cura adeguata e fanno per questo un lavoro costante su se stesse.

A partire dalla consapevolezza necessaria che la divaricazione tra il “desiderio d’amore” e il “desiderio sessuale”, tra la “pulsione sessuale” e la “tenerezza amorosa”, tra la “dimensione del godimento” e la “dimensione dell’amore” ha una radice antica, trova origine nella dinamica edipica della nostra vita infantile.

Quando il “desiderio sessuale” provato dal figlio per la madre e simbolicamente castrato dal padre, che non può permettere al figlio di portargli via la compagna, (e, aggiungo io, dalla figlia nei confronti del padre e simbolicamente castrato dalla madre) si trasforma in “tenerezza amorosa” e viene momentaneamente rimosso, messo sullo sfondo della nostra vita relazionale, diventando latente.

Per riaffiorare poi nuovamente e prepotentemente con la pubertà, ma indirizzato su un nuovo oggetto sessuale, diverso dalla figura genitoriale che lo aveva suscitato per primo, e perciò spesso scisso dal sentimento della tenerezza, collegato indissolubilmente al rapporto con la madre, nel caso del figlio, o del padre, nel caso della figlia.

E’ questo il tempo in cui la vita amorosa dell’individuo può vivere e, in genere, vive, a volte molto intensamente e quindi nevroticamente, questa scissione, incapace di ricomporsi: da un lato la pura attrazione sessuale verso un determinato oggetto erotico, attrazione a suo tempo rimossa, a causa della castrazione simbolica del padre o della madre, dall’altro l’attrazione verso un secondo oggetto erotico, rappresentato da una figura quasi materna o paterna, in cui prevale il sentimento della tenerezza.

Il tempo, l’avanzare dell’età e le ripetute esperienze amorose e sessuali potranno portare però, almeno a mio avviso, (ovviamente e solo se ci sarà stato un lavoro di ricerca, di analisi e di ricomposizione interiore del soggetto coinvolto) al superamento, prima o poi, di questa scissione e alla risoluzione (quasi) definitiva della dinamica generalmente insorta nella fase edipica nel triangolo padre/madre/figlio/a.

La scissione, pertanto, di cui parlano Freud, Sartre e Lacan, per me non è affatto strutturale e insuperabile, ma può essere, prima o poi, risolta, superata.

In altre parole, ad un certo punto della mia vita amorosa, io posso (non è detto che ci riesca, ma c’è questa possibilità) arrivare a provare verso la stessa persona sia un forte sentimento di tenerezza che un intenso desiderio sessuale, senza vivere più il conflitto, di cui parlano i tre autori dalle cui citazioni è partita questa mia riflessione.

E addirittura evitare che col tempo la passione iniziale che, nella fase iniziale del rapporto, intrecciava affetto, tenerezza e intenso desiderio sessuale, si logori, consumi, arrivando ad una nuova divaricazione delle due correnti amorose fondamentali, di cui abbiamo qui estesamente “ragionato”.

© Giovanni Lamagna

  • Massimo Recalcati; “Ritorno a Jean-Paul Sartre”; (2021; Einaudi); p.226
  • ibidem; p. 226-22
  • ibidem; p. 227

Mistica, eros e sessualità

E’ notorio che l’esperienza mistica, anche quella religiosa, soprattutto quella delle donne, ha mutuato spesso il linguaggio erotico.

Non a caso, alcune opere artistiche raffiguranti le estasi mistiche potrebbero essere confuse con quelle raffiguranti veri e propri orgasmi; una per tutte: la transverberazione di santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini in santa Maria della Vittoria a Roma.

Questo sta a dimostrare che tra mistica, erotismo e sessualità sussiste, è sempre esistito, un legame manco tanto sotterraneo, anzi in alcuni casi del tutto esplicito.

Anche se la teologia cattolica lo ha sempre visto – com’era ovvio – con sospetto.

Secondo Anselm Grun (teologo e monaco benedettino, autore di “Mistica”; 2011; Morcelliana) ci sono due strade per coniugare mistica ed eros (p. 149-154).

La prima è quella di prendere consapevolezza fino in fondo della propria energia sessuale e poi sublimarla, quasi trasfigurarla, al fine di vivere un amore totalitario ed esclusivo per Dio: è questa la strada di coloro che si votano al celibato.

Questa strada prevede un taglio, un sacrificio, una rinuncia alla sessualità carnale, materiale, corporea, per vivere una sessualità di natura tutta spirituale, nella consapevolezza che nessuna creatura umana potrà mai estinguere la propria sete d’amore (ogni amore umano è sempre limitato, finito) e che questa potrà essere soddisfatta solo dal rapporto con Dio, che è, al contrario di quello umano, amore infinito.

La spiritualità del mistico celibe si alimenta dunque paradossalmente del “bisogno umano di tenerezza e di amore”, succhia continuamente del sangue dalla ferita “di non essere sposato e di non avere rapporti sessuali”.

L’amore per Dio – aggiunge Grun – non deve sostituire nel mistico-celibe l’amore per l’uomo, ma si ferma alla soglia del rapporto esplicitamente sessuale, che viene sublimato quasi per aumentare ed affinare la potenza dell’amore rivolto a Dio.

L’altra strada, di cui parla Anselm Grun, per coniugare mistica ed eros, è quella, più comune, di coloro che non rinunciano concretamente alla sessualità, ma la vivono nella consapevolezza che, se il loro amore (quindi anche l’amore sessuale) perde “il rapporto con l’ignoto, con il mistero dell’altro”, esso “è condannato all’insuccesso”.

“Perché l’amore umano possa riuscire, c’è bisogno del mistero che va oltre entrambi, c’è bisogno di questa diversità, di questo buio in mezzo alla luce” (p.151), come dice Dorothee Solle.

“Qui l’amore mistico per Dio non è in contrasto con l’amore tra uomo e donna, ma, anzi, è ciò che rende possibile l’amore autentico…

… Hans Jellouschek, un importante terapeuta della coppia, lo spiega affermando che nell’amore c’è un potenziale di trascendenza: l’amore tra due persone ha in sé sempre qualcosa che va oltre entrambe e rimanda all’amore infinito di Dio. L’amore tra uomo e donna riesce soltanto se essi diventano consapevoli del potenziale racchiuso nella loro sessualità. Allora l’uomo e la donna, nella unione sessuale, fanno al contempo l’esperienza di un andare oltre se stessi, entrando nell’amore infinito di Dio.

La mistica, perciò, non è fuori dal mondo, né qualcosa che allontana dal partner o dalla partner, bensì l’elemento di mistero che tiene vivo il nostro amore umano. La consapevolezza dell’esistenza del mistero di Dio tiene desto anche il mistero della persona amata. Quest’ultima resta la lontana-vicina, che siamo sempre capaci di amare perché continua a sottrarsi e, allo stesso temo, ci attrae. L’amore tra due persone, per riuscire, deve <costruire una sorta di reciprocità, nella quale si mantenga l’aspetto ignoto di quanto ci è noto, la diversità dell’altro. Soltanto così potrebbe far partecipare a un sacred power, a un potere condiviso dell’altro> (Dorothee Solle). In un mondo che non ha il senso del mistero di Dio muore anche il mistero dell’altro e, alla fine, anche l’amore muore e, come dice Dorothee Solle, si riduce ad un funzionalismo spietato.” (p.152-153)

In ogni caso, sia che si scelga la prima strada (quella della castità) sia che si scelga la seconda (quella della pratica fisica della sessualità), la via mistica non può essere surrogatoria della “incapacità di creare relazioni”. La via mistica non deve essere un rifugio per coloro che sono incapaci di risolvere “i loro problemi relazionali” (p.153).

Quali riflessioni mi ispirano le parole, che ho appena riportate, di Anselm Grun, Dorothee Solle e Hans Jellouschek?

La prima è che anche io, da mistico laico quale mi considero o, meglio, vorrei essere, vedo una profonda analogia, direi “simpatia”, vicinanza-assonanza tra mistica ed erotismo, tra mistica e sessualità. Entrambe le esperienze si alimentano e vivono dello stesso afflato, della stessa tensione, della stessa energia fisico-spirituale.

Se questo intreccio è vero per la mistica religiosa, lo è naturalmente in modo ancora più evidente e consapevole per la cosiddetta mistica laica, come la intendo io.

Naturalmente, da mistico laico, escludo la prima strada indicata da Anselm Grun: quella del celibato.

Non solo perché non la vedo necessaria e neanche funzionale ad una maggiore e più efficace elevazione spirituale di chi la sceglie e la pratica. Ma perché la vedo addirittura controproducente rispetto allo scopo che si propone.

Questa strada, infatti, si giustifica sulla base dell’antica dicotomia tra spirito e corpo, che è stata del tutto superata dalla scienza e dalla filosofia moderna.

Per le quali l’uomo non è un corpo + un’anima, realtà separate: la prima di natura inferiore, la seconda di natura superiore. Ma è un’unità psicofisica, nella quale il corpo influenza l’anima e l’anima il corpo.

Se cresce e sta bene l’anima cresce e sta bene anche il corpo, se all’incontrario si ammala il corpo si ammala anche l’anima e viceversa.

La sessualità, come tutte le manifestazioni della complessità umana, è una realtà psicofisica e come tale non solo non può e non deve essere esclusa da un percorso mistico-spirituale, ma ne deve far parte, lo deve accompagnare, anzi ne deve essere componente primaria ed essenziale.

La sessualità, in altre parole, non è una dimensione inferiore della natura umana, che come tale deve essere riscattata e sublimata, meglio ancora esclusa, per una migliore dedizione a Dio e, quindi, alla vita spirituale.

Ma, essendo una dimensione pienamente umana (così l’ha voluta tra l’altro il Creatore, per chi ci crede), non si capisce perché dovrebbe essere sacrificata, fosse anche in nome di un amore totalitario per Dio.

Vedo nella sessualità del mistico celibe, che sublima totalmente la sua energia sessuale, un che di masochistico, di sacrificio inutile, non richiesto, di natura patibolare.

Meglio – a mio avviso – vivere concretamente la sessualità, sia pure senza fermarsi alla sua dimensione puramente fisico-istintuale, ma riconoscendola come via (non unica, ma importantissima!) per penetrare nel mistero infinito della vita.

Condivido, quindi, molto di più la seconda strada di cui parla Grun: quella che riesce a conciliare pienamente mistica e sessualità.

Condivido persino molti dei concetti e financo il modo di esprimerli a cui fa ricorso Grun per parlarne.

Ad esempio: “Perché l’amore umano possa riuscire, c’è bisogno del mistero che va oltre entrambi, c’è bisogno di questa diversità, di questo buio in mezzo alla luce”.

“… nell’amore c’è un potenziale di trascendenza: l’amore tra due persone ha in sé sempre qualcosa che va oltre entrambe… L’amore tra uomo e donna riesce soltanto se essi diventano consapevoli del potenziale racchiuso nella loro sessualità. Allora l’uomo e la donna, nella unione sessuale, fanno al contempo l’esperienza di un andare oltre se stessi.”

“La mistica, perciò, non è fuori dal mondo, né qualcosa che allontana dal partner o dalla partner, bensì l’elemento di mistero che tiene vivo il nostro amore umano. La consapevolezza dell’esistenza del mistero… tiene desto anche il mistero della persona amata. Quest’ultima resta la lontana-vicina, che siamo sempre capaci di amare perché continua a sottrarsi e, allo stesso temo, ci attrae. L’amore tra due persone, per riuscire, deve <costruire una sorta di reciprocità, nella quale si mantenga l’aspetto ignoto di quanto ci è noto, la diversità dell’altro. Soltanto così potrebbe far partecipare a un sacred power, a un potere condiviso dell’altro> (Dorothee Solle). In un mondo che non ha il senso del mistero… muore anche il mistero dell’altro e, alla fine, anche l’amore muore e, come dice Dorothee Solle, si riduce ad un funzionalismo spietato.”

Ho solo cancellato il riferimento a Dio e al mistero da Lui rappresentato. Perché per me il mistero sussiste anche senza Dio e per quanto mi riguarda questo tipo di mistero (che mi verrebbe di definire tutto terreno, quindi laico) basta e avanza per vivere delle esperienze mistiche, anzi una vita mistica.

Mistico è, infatti, tutto ciò che ha a che fare col mistero, con ciò che è ancora ignoto, non è ancora noto. E mistica è ogni esperienza umana che si sforza di disvelare il mistero, l’ignoto, il non ancora conosciuto.

E di questa ricerca fa parte a pieno titolo la sessualità. Se la sessualità non si riduce alla ripetizione monotona e stanca di gesti più o meno sempre uguali a se stessi. Se la sessualità diventa il luogo di una ricerca senza limiti e confini, espressione della creatività e della fantasia che (volendo) possono essere pozzi senza fondo.

Da questo punto di vista mistica e sessualità non solo non sono due esperienze contraddittorie o addirittura agli antipodi, ma possono essere due esperienze che si integrano e rafforzano, potenziano a vicenda.

© Giovanni Lamagna

L’unione sessuale come conoscenza

Nel linguaggio biblico le espressioni “unione sessuale” o “rapporto sessuale” vengono rese col termine “conoscenza”.

“Adamo conobbe Eva sua moglie…” (Genesi; 4; 1-2)

“Conoscere” è, infatti, la traduzione più corretta del termine semitico “jadac”.

Che, nel linguaggio biblico, non significa soltanto una conoscenza meramente intellettuale, ma anche un’esperienza concreta.

Nel caso dell’atto sessuale un’esperienza corporea.

Tutta una serie di successivi testi biblici parlano con la stessa terminologia. E ciò fino alle parole pronunziate da Maria di Nazaret nell’annunciazione: “Come è possibile? Non conosco uomo” (Luca; 1,34).

Qualcuno attribuisce questa identificazione dell’espressione “unione sessuale” col termine “conoscenza” alla povertà della lingua arcaica, che spesso utilizzava le stesse parole o espressioni per definire cose o fatti differenti.

E, tuttavia, quand’anche questa identificazione fosse figlia di una povertà lessicale, essa paradossalmente esprime una grande profondità di significati.

Sta a significare, a mio avviso, almeno sei cose:

1. l’atto sessuale non è una pura e semplice congiunzione di corpi;

2 l’unione sessuale non obbedisce soltanto alla pura pulsione istintuale;

3. attraverso l’unione sessuale avviene una vera (e non soltanto metaforica) conoscenza tra le due persone che si uniscono;

4. questa conoscenza ha una sua specificità, perché va oltre la pura fisicità, oltre la pura emozionalità/sentimentalità e va oltre anche la pura intellettualità. Nell’atto sessuale, infatti, si realizza (o. meglio, può realizzarsi) una conoscenza che in qualche modo fonde le tre dimensioni fondamentali dell’essere umano: quella corporea, quella emozionale/affettiva e quella intellettuale;

5. In questo senso, la “conoscenza”, di cui parla la Bibbia per indicare “l’unione sessuale”, diventa una vera e propria conoscenza spirituale, che è affine (o può essere affine) all’esperienza mistica. Non a caso il tantrismo fonda sulla sessualità la sua spiritualità e il suo misticismo di vera e propria religione laica.

6. Questo tipo di conoscenza, infine, è (o, meglio, può essere, non è scontato che sia) senza limiti, senza confini. Nel senso che può rinnovarsi, accrescersi e approfondirsi ogni volta di più, attraverso la replica dell’atto, proprio quando questo è espressione di un vero desiderio di conoscenza; e non la pura e meccanica ripetizione dello “stesso”.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Paterson” di Jim Jarmusch.

Ieri sera ho visto al cineforum il film “Paterson” (2016) del regista statunitense Jim Jarmusch.

E’ la storia di un giovane uomo e allo stesso tempo di una piccola cittadina americana del New Jersey, che hanno (coincidenza?) lo stesso nome: Paterson. Come a voler dire che entrambi sono i protagonisti del film: il giovane uomo e la piccola città di provincia.

Paterson di mestiere fa l’autista di autobus. Ogni giorno si alza alle sei e mezzo per recarsi al lavoro.

Ogni giorno fa gli stessi gesti: appena sveglio bacia con tenerezza da innamorato la giovane (e bella) moglie, che resta ancora a dormire nel letto e che si sveglia per un solo attimo a salutarlo e a raccontargli qualche sogno appena fatto o in corso.

Poi fa colazione col solito latte e i soliti biscotti.

Quindi esce di casa (una povera casa monofamiliare con un po’ di giardino) e si reca a piedi al vicino deposito degli autobus dove inizia la sua giornata di lavoro.

Sull’autobus, mentre guida, vede ed osserva dallo specchietto retrovisore le persone più diverse (bambini, giovani, adulti, anziani…), ne ascolta attento e incuriosito i discorsi: questo gli rende varia la giornata pur nella sua (apparente) monotonia e ripetitività.

Quando torna a casa, lo trova ad attendere la moglie che è sempre piena di coccole e di attenzioni e che ha occupato il tempo in cui Paterson era fuori a riverniciare le porte e gli infissi, a cucire e sistemare le tende alle finestre, a preparare torte per il marito e dolcini che andrà poi a vendere al mercatino del sabato, a dipingere quadri, a suonare la chitarra.

Dopo cena, Paterson (sempre più o meno alla solita ora) esce di nuovo per accompagnare il cane a fare i bisogni e per passare qualche momento al bar, dove beve una birra (sempre la stessa, solita birra) e dove si ferma a scambiare poche parole con gli altri avventori (anche qui varia umanità) e soprattutto con l’anziano barista nero.

Con tutti Paterson è gentile, garbato, affettuoso, (quasi) quanto lo è con la moglie.

La sua sembra, dunque, una vita banale e insipida. E in effetti, esteriormente almeno, lo è.

Senonché c’è un quid che la rende, invece, meno banale di quello che appare, anzi la rende una vita, pur nella sua assoluta normalità, del tutto straordinaria: Paterson ama i libri di poesie (William Carlos Williams, Allen Gisberg, Dante Alighieri, Petrarca…), ne legge molta, ma soprattutto ne scrive.

Egli cammina sempre con un piccolo taccuino appresso e appena può annota versi. Soprattutto al mattino, sull’autobus, prima di metterlo in moto ed iniziare la sua giornata di lavoro.

I pochi versi che riesce a tracciare sul foglio bianco hanno qualcosa in comune con la chiavetta che mette in moto il mezzo su cui lavora: gli danno l’energia giusta per incominciare bene la giornata e il “carburante” necessario per proseguirla sereno.

Nelle sue poesie coglie gli aspetti quotidiani del vivere (una di esse, ad esempio, descrive una semplice, apparentemente banale, scatola di fiammiferi) ma anche l’amore, soprattutto quello per la giovane donna con cui vive e senza la quale – confessa – il suo cuore si spezzerebbe.

In questa sua passione trova complice la moglie, che ne apprezza l’estro, l’ispirazione, lo incoraggia a coltivarla e lo stimola a pubblicare le sue opere.

Una sera, però, (è sabato e i due giovani sposi si sono concessi una pizza e un film) tornati a casa trovano che il cane ha completamente sbriciolato con i denti il taccuino dove Paterson annotava le sue poesie.

Per i due giovani è un trauma enorme. Una parte di loro è andata perduta assieme a quel taccuino. Paterson non riesce a dormire tutta la notte. La mattina esce per distrarsi un po’. Si ferma seduto su una panchina dinanzi alla vista del ponte sulla cascata.

Quando viene raggiunto da un uomo sulla quarantina, un giapponese, che chiede il permesso di sedersi accanto a lui. Paterson, come al solito, è gentile, aperto e disponibile, pur senza smancerie.

Il giapponese gli racconta di sé: è un poeta venuto in città per approfondire la conoscenza del poeta locale William Carlos Williams.

Chiede a Paterson se anche lui è un poeta: evidentemente ha avvertito in lui una certa consonanza. Ma Paterson, intimidito, risponde che no, lui fa l’autista di autobus. E, però, il poeta giapponese, quando dopo un po’ lo saluta per andare via, gli lascia lo stesso in dono un quaderno bianco. Come a dirgli: sì, tu farai pure l’autista di bus, ma io so che tu sei un poeta.

Il film ha un andamento lento, molto lento, monotono, a tratti quasi noioso. Andamento chiaramente voluto, ricercato dall’autore, il quale voleva evidentemente rendere al massimo i ritmi della vita di una piccola città di provincia statunitense.

Ma questo è solo lo sfondo superficiale su cui si svolge la vicenda, che è incentrata sulla figura di Paterson e sui suoi rapporti con Laura (la moglie), con i colleghi di lavoro, con gli avventori del bar, con il poeta giapponese.

E in questa vicenda tre cose colpiscono molto, quasi brillano, luccicano, come stelle nel buio della notte.

La prima è la profonda serietà, concentrazione, quasi solennità con cui Paterson compie i suoi gesti quotidiani e ripetitivi, sempre gli stessi, ma ogni volta come se fossero nuovi.

La seconda è il profondo rispetto, la simpatia umana, in certi momenti perfino la compassione e la solidarietà con cui Paterson si approccia al prossimo che lo circonda, che lo avvicina o che gli parla: in primo luogo, ovviamente, la moglie Laura, ma anche il proprietario e gli avventori del bar che lui frequenta la sera (quasi fosse un tempio laico), le persone che ogni giorno trasporta col bus, la bambina che si ferma a parlare con lui (guarda caso!) di poesia, il collega che lo saluta ogni mattina prima che inizi il lavoro e con il quale scambia brevi ma significative parole, le persone che aiuta a scendere dal pullman costretto a fermarsi per un guasto all’impianto elettrico…

C’è qualcosa di religioso in questo contrasto ripetizione/sacralità dei gesti, anonimato/empatia, che ricorda in modo particolare l’Oriente. E non è un caso, a mio avviso, che la scena finale del film veda la presenza di un giapponese.

Cosa ci faceva un giapponese in una sperduta città di provincia americana? Con questa citazione, forse, il regista vuole dirci che anche a così grandi distanze culture così diverse possono incontrarsi e parlarsi, parlare lo stesso “linguaggio”.

La terza cosa, che in fondo in parte è compresa nelle prime due e in parte le spiega, è l’importanza della poesia. Che sublima la vita povera e perfino banale di Paterson, però anche la esprime.

E’ vero, infatti, che la vita di Paterson resterebbe povera e banale senza la poesia, ma è anche vero che da Paterson non potrebbe sprigionarsi poesia se la sua vita non fosse già poesia, quindi niente affatto povera e banale.

E anche qui non è un caso, a mio avviso, che i suoi componimenti poetici, al di là dello stile e della forma, evochino gli “haiku” giapponesi. Sono, infatti, componimenti che descrivono oggetti semplici, aspetti della natura e, soprattutto, accadimenti umani ordinari, quotidiani.

La scena finale dell’incontro col poeta giapponese, che pare riconoscere in Paterson un suo pari, un suo omologo, sembra dare conferma a questa mia lettura del film e del modo di essere e di vivere del suo protagonista.

Un bel film! A saperne cogliere la delicata e profonda poesia.

Giovanni Lamagna

Routine o trasgressione?

6 luglio 2016

Routine o trasgressione?

L’alternativa che si presenta puntuale ogni giorno davanti a noi è sempre la stessa:

– optare per la stasi, la ripetizione, la routine: restare, insomma, quelli del giorno prima;

– oppure scegliere il movimento, il cambiamento, la trasgressione: decidere di diventare, almeno un poco, diversi da quelli del giorno prima.

E questa alternativa riguarda ogni aspetto della nostra vita: il lavoro, le relazioni, la cura del corpo, l’attività intellettuale, le scelte religiose, l’eventuale impegno politico o sociale…

Ma in primis riguarda l’eros, il nostro modo di vivere la sessualità.

A seconda se sceglieremo la prima o la seconda delle alternative possibili, saremo una persona o un’altra.

Prudente e timorosa nel primo caso. Audace e ardente nel secondo caso.

Ad ognuno di noi la scelta!

Giovanni Lamagna