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L’essere umano e la dimensione religiosa della vita

Mi sto facendo sempre più convinto, con gli anni, che l’uomo senza una qualche forma di sensibilità e di pratica religiosa non possa stare bene, non possa vivere bene.

In altre parole, che la dimensione religiosa è strutturale, congenita all’essere umano. Così come il respirare, l’aver bisogno di cibo, del dormire.

Il bisogno religioso è dunque un bisogno fondamentale come gli altri bisogni. Ancora più del sesso, che in realtà non è manco un vero bisogno, ma qualcosa al confine tra bisogno e desiderio.

Per cui, a mio avviso, si può vivere (e anche abbastanza bene) senza sesso, mentre non si può vivere, perlomeno non si vive bene, senza soddisfare il bisogno religioso che alberga in ognuno di noi.

A questo punto però sento la necessità di chiarire bene cosa intendo io per bisogno religioso, per dimensione religiosa della vita.

Chiarisco in premessa: nulla che abbia a che fare necessariamente con l’adesione ad una determinata fede e ad una religione storicamente date. Anche se queste possono essere intese come risposte (alcune delle risposte possibili) al bisogno religioso, che – come dicevo prima – è connaturato all’uomo, nasce con lui.

Allora quali sono le caratteristiche (in positivo) del bisogno religioso?

Io direi che la prima caratteristica è data dal bisogno che ha l’uomo di trascendersi, di andare oltre il puro dato materiale dell’esistenza.

L’animale, oltre al bisogno di procurarsi da bere, del cibo, una tana o un nido (soprattutto per i suoi cuccioli), di accoppiarsi per riprodurre la sua specie, di giocare di tanto in tanto, di riposare e dormire il tempo necessario riprendere le forze, non ha altre ragioni per vivere. In altre parole possiamo dire che l’animale vive per sopravvivere.

L’uomo no. Le ragioni puramente biologiche che bastano agli altri animali, a lui non bastano. Egli ha bisogno di trovare un senso, di dare un senso alla sua vita. Ha bisogno dunque di andare oltre la pura sussistenza, oltre la dimensione puramente materiale della vita, ha bisogno dunque di trascendere la sua natura animale.

E che cosa può dare un senso e un significato alla vita dell’uomo, capaci di farlo trascendere, andare oltre il puro dato biologico?

Una prima risposta può essere questa: il successo, la fama, la gloria, il riconoscimento sociale, il potere.

Una seconda risposta è la ricchezza, la “roba”, l’accumulo e il possesso di quanti più beni materiali è possibile.

Questi fattori (il successo, la fama, il potere, il prestigio sociale, la ricchezza…) possono essere considerati a tutti gli effetti dei “valori”, cioè realtà a cui gli uomini (almeno alcuni uomini) danno grande valore Quindi in grado di fondare una vera e propria religione; una religione del tutto laica ovviamente, ma pur sempre una religione.

Religione da questo punto di vista è un qualsiasi orientamento esistenziale che si unifica, concentra attorno a dei valori fondamentali, che in una ipotetica gerarchia hanno più peso degli altri.

La religione del successo sociale e della ricchezza è una religione che assume come suo carattere fondante quello della competizione, anche esasperata, tra gli esseri umani.

Il mio successo, infatti, dipende dal tuo insuccesso, dalla tua sconfitta. Così la mia maggiore ricchezza dipende dal tuo impoverimento. Si potrebbe anche dire che questa è la religione dell’ “homo homini lupus” e del “mors tua vita mea”.

Questa religione, però, a pensarci bene non è molto diversa da quella che indubbiamente ad altri livelli e in altre forme, praticano anche gli animali. Anche tra gli animali, infatti, c’è quello che tende a prevalere sugli altri, ad accaparrarsi le femmine migliori e le porzioni di cibo più abbondanti. Anche tra gli animali insomma vige la “legge del più forte”.

La religione del successo e della ricchezza si situa quindi ad un livello basso della scala evolutiva dell’homo sapiens. E’ propria dell’homo sapiens, che si è ben poco trasceso rispetto ai primi ominidi da cui deriva per via evolutiva e in fondo anche dalle altre specie animali.

L’uomo, però, nel corso dei secoli, anzi dei millenni (non si capisce bene perché, però è questo un dato di fatto da registrare) ha sentito il bisogno di trascendersi ulteriormente, di passare da una religione fondata sui valori della lotta e della competizione ad una fondata sui valori della pace, della solidarietà, della compassione verso il più debole, della fraternità non solo verso i consanguinei che è propria di ogni specie animale, ma verso l’uomo in quanto uomo, cioè della fraternità universale…

In nome della consapevolezza che ciascuno di noi è parte di un Tutto e che, quindi, le varie parti del Tutto non possono stare bene (raggiungere il benessere spirituale, ma a volte anche quello fisico) se il bene dell’una parte va a scapito dell’altra.

In nome della consapevolezza, insomma, che la mia vita non solo non si oppone quella degli altri, ma anzi è profondamente connessa con la loro. Altro che “mors tua vita mea”! Secondo questa visione religiosa del mondo, dunque, “mors tua etiam mors mea”, mentre “vita tua etiam vita mea”.

Sono questi i valori (chi più e chi meno, coniugati in forme e modi diversi) che, non a caso, caratterizzano la maggior parte delle religioni che si sono affacciate nei vari punti del pianeta nel corso della Storia.

Ma sono ancora questi i valori che hanno caratterizzato le varie forme di religiosità laica che hanno caratterizzato alcune culture che abbiamo conosciuto, soprattutto in questi ultimi cinque/sei secoli: in modo particolare, l’Umanesimo, l’Illuminismo e il Socialismo.

Per coltivare tali valori, gli uomini hanno dovuto sviluppare quella che di solito si definisce “la vita interiore”. Che non è una vita altra e alternativa rispetto a quella bio-fisiologica, ma è una vita distinta, che non si riduce alla prima.

La vita interiore, che altro non è che la vita dello spirito, ha, infatti, bisogno, per essere coltivata, di alcune condizioni, potremmo dire anche pratiche o abitudini, così come la vita del corpo ha bisogno degli alimenti, del riparo dalle intemperie, del riposo e del sonno giornaliero e, quando si ammala, delle giuste medicine.

Quali sono le pratiche di cui ha bisogno la vita interiore? Ne elenco alcune e so di dimenticarne altre. Indico quelle che a me sembrano le più importanti. La vita interiore o spirituale che dir si voglia ha bisogno di:

-silenzio e raccoglimento, laddove l’uomo, che vota la sua vita al successo e all’accumulo di beni, preferisce il chiasso e lo stordimento del mondo esteriore;

– di letture, riflessioni, meditazione, perché la pratica di certi valori non è spontanea, ma abbisogna di un esercizio continuo che in qualche modo va contro gli impulsi spontanei e gli istinti;

– di riti individuali ma anche collettivi, che rafforzino il sentire comune e condiviso dei valori scelti a livello individuale.

Non a caso queste tre pratiche spirituali sono presenti in tutte le forme di religiosità che l’uomo ha finora conosciuto nella sua storia, perfino in quelle che non si riconoscono esplicitamente come espressione di religiosità, ma che per me in qualche modo comunque lo sono, anche se sono forme di religiosità del tutto laiche.

Per concludere e riepilogare, sono convinto che:

1) l’uomo non possa prescindere dal formarsi una sua visione del mondo, una sua weltanshaung, quindi una sua visione religiosa del mondo;

2) questa visione del mondo può essere fondamentalmente di due tipi: o competitiva o solidaristica;

3) la prima assicura (talvolta) un benessere immediato ed effimero, ma allo stesso modo (e più spesso) procura ansie e perfino angosce nel lungo periodo;

4) la seconda, invece, non garantisce il benessere immediato e materiale, ma assicura un benessere interiore di lungo respiro e molto superiore alla prima;

5) per operare secondo i principi di questa seconda visione del mondo, l’uomo ha bisogno di silenzio interiore, raccoglimento, meditazione, di riti individuali e, soprattutto, collettivi.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “The place”.

Ho appena visto al cineforum un bel film, un film che mi è piaciuto molto E’ “The place”, uscito a novembre 2017, girato dal regista romano Paolo Genovese (anni 52, autore di altri lungometraggi, tra i quali quello che ricordo meglio e con più piacere è “Perfetti sconosciuti”).

Paolo Genovese è un regista fondamentalmente brillante, autore di commedie, che però non evita nei suoi film passaggi drammatici, che in alcuni casi sfociano in vera e propria tragedia. E’, insomma, un regista che vuole far divertire, i cui toni sono apparentemente leggeri, ma che allo stesso tempo intende far riflettere. E, a mio avviso, ci riesce molto bene.

Il cast di questo film annovera tra i migliori attori italiani di questi anni. In primis Valerio Mastandrea, l’assoluto, intenso, superbo, protagonista. E poi, a seguire, uno più bravo/a dell’altro/a: Marco Giallini, Alba Rohrwacher, Vittoria Puccini, Rocco Papaleo, Silvio Muccino, Silvia D’Amico, Vinicio Marchioni, Alessandro Borghi, Sabrina Ferilli e Giulia Lazzarini.

Il film è tutto girato in un ristorante romano: “The place”, appunto. E’ un’opera, quindi molto statica, la cui “azione” (per modo di dire!) si svolge in un solo posto (l’allusione al nome del ristorante è evidente) e perciò ha bisogno di una sola scena, assomiglia per questo più ad un lavoro teatrale che cinematografico.

In cosa consiste la trama? Il film non ha una vera e propria trama. Descrive la giornata di un uomo di mezza età, piacente ma piuttosto malinconico, in buona salute ma allo stesso tempo stanco, come uno che si porta appresso un peso misterioso, piuttosto chiuso e poco comunicativo.

L’uomo in questione trascorre gran parte della sua giornata seduto ad un tavolo del ristorante (sempre lo stesso): ogni tanto sorseggia un caffè (si scola molti caffè al giorno), beve una bibita, mangia qualcosa. Ma soprattutto riceve persone (una alla volta, tranne nel caso di una coppia), che vanno da lui per manifestargli un desiderio e per riceverne un compito: se realizzeranno il compito, si realizzerà anche il loro desiderio.

E così il film ci racconta la girandola delle persone che vengono ricevute dall’uomo seduto al tavolo: uno va via ed un altro gli subentra, in una sequela interminabile, quasi parossistica, a tratti spassosa e divertente, a tratti dura e conflittuale.

Perché l’uomo (tra il santone, il mago e un confessore laico) ascolta impassibile, prende appunti su una vecchia e corposa agenda e, seguendo una specie di logica algoritmica, infine, lapidario, impartisce compiti e talvolta consigli.

Ma i clienti non sempre sono soddisfatti del compito ricevuto, che in genere è cinico e spietato (del tipo: fare una rapina, uccidere una bambina, violentare una donna, insabbiare una denuncia, mettere una bomba in un locale, perdere la propria verginità, tradire il marito…).

Come se il messaggio di fondo che l’uomo misterioso volesse passare ai suoi interlocutori fosse: “ mors tua, vita mea”; ovverossia: per realizzare un tuo desiderio occorre che paghi dei costi oppure bisogna farlo pagare a qualcun altro, fosse anche un estraneo.

Come se il mondo vivesse in un precario equilibrio omeostatico: per realizzare una situazione di benessere e di piacere in un posto e per qualcuno occorre sottrarlo o toglierlo da qualche altro posto o a qualcun altro: per far guarire tuo figlio da un cancro devi uccidere un’altra bambina, per far guarire tuo marito dall’alzheimer devi mettere una bomba e far morire decine di persone…

Una visione cinica del mondo che può apparire (ed è) perversa, ma che, se ci pensiamo bene, non è molto distante da quella che guida le azioni di molti uomini, se non della maggioranza di essi, compresi (forse) noi stessi.

La prima cosa che sorprende è che l’uomo viene preso sul serio, tremendamente sul serio da coloro che si rivolgono a lui, nonostante le resistenze e le ribellioni iniziali. A cosa può spingere la disperazione!

La seconda cosa sorprendente è che, come quando si ricostruisce un puzzle, le vicende di coloro che si rivolgono all’uomo seduto al tavolo un poco alla volta vengono a intrecciarsi, a ricomporsi, in certi casi pacificamente e armoniosamente, in altri attraverso conflitti irresolubili. Come appunto succede spesso nella vita.

La terza cosa che il film sembra suggerirci è che per conoscere il mondo in fondo non occorre poi viaggiare tanto. Basta stare fermi in un posto e rimanere aperti ad ascoltare gli uomini che ti girano attorno: il mondo viene lui da te.

E, infatti, alla fine il protagonista (Valerio Mastandrea) sembra stanco, molto stanco, come se venisse da un lungo viaggio, come se il suo “lavoro” fosse non quello di uno che sta sempre fermo allo stesso posto, ma quello di un commesso viaggiatore.

Allora, finalmente, cede alle lusinghe e alla corte gentile e amorevole della cameriera del ristorante (una brava Sabrina Ferilli), che da tempo gli gira attorno, un po’incuriosita dal suo mistero e un po’ innamorata.

L’uomo misterioso, infine, sembra scendere dal treno sul quale ha lungamente (e metaforicamente) viaggiato e si accasa. Finalmente si lascia andare ad un sorriso e sembra abbandonare il suo cinismo e il suo disincanto per sposare un po’ di amore.

Giovanni Lamagna