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Recensione del film “The place”.
Ho appena visto al cineforum un bel film, un film che mi è piaciuto molto E’ “The place”, uscito a novembre 2017, girato dal regista romano Paolo Genovese (anni 52, autore di altri lungometraggi, tra i quali quello che ricordo meglio e con più piacere è “Perfetti sconosciuti”).
Paolo Genovese è un regista fondamentalmente brillante, autore di commedie, che però non evita nei suoi film passaggi drammatici, che in alcuni casi sfociano in vera e propria tragedia. E’, insomma, un regista che vuole far divertire, i cui toni sono apparentemente leggeri, ma che allo stesso tempo intende far riflettere. E, a mio avviso, ci riesce molto bene.
Il cast di questo film annovera tra i migliori attori italiani di questi anni. In primis Valerio Mastandrea, l’assoluto, intenso, superbo, protagonista. E poi, a seguire, uno più bravo/a dell’altro/a: Marco Giallini, Alba Rohrwacher, Vittoria Puccini, Rocco Papaleo, Silvio Muccino, Silvia D’Amico, Vinicio Marchioni, Alessandro Borghi, Sabrina Ferilli e Giulia Lazzarini.
Il film è tutto girato in un ristorante romano: “The place”, appunto. E’ un’opera, quindi molto statica, la cui “azione” (per modo di dire!) si svolge in un solo posto (l’allusione al nome del ristorante è evidente) e perciò ha bisogno di una sola scena, assomiglia per questo più ad un lavoro teatrale che cinematografico.
In cosa consiste la trama? Il film non ha una vera e propria trama. Descrive la giornata di un uomo di mezza età, piacente ma piuttosto malinconico, in buona salute ma allo stesso tempo stanco, come uno che si porta appresso un peso misterioso, piuttosto chiuso e poco comunicativo.
L’uomo in questione trascorre gran parte della sua giornata seduto ad un tavolo del ristorante (sempre lo stesso): ogni tanto sorseggia un caffè (si scola molti caffè al giorno), beve una bibita, mangia qualcosa. Ma soprattutto riceve persone (una alla volta, tranne nel caso di una coppia), che vanno da lui per manifestargli un desiderio e per riceverne un compito: se realizzeranno il compito, si realizzerà anche il loro desiderio.
E così il film ci racconta la girandola delle persone che vengono ricevute dall’uomo seduto al tavolo: uno va via ed un altro gli subentra, in una sequela interminabile, quasi parossistica, a tratti spassosa e divertente, a tratti dura e conflittuale.
Perché l’uomo (tra il santone, il mago e un confessore laico) ascolta impassibile, prende appunti su una vecchia e corposa agenda e, seguendo una specie di logica algoritmica, infine, lapidario, impartisce compiti e talvolta consigli.
Ma i clienti non sempre sono soddisfatti del compito ricevuto, che in genere è cinico e spietato (del tipo: fare una rapina, uccidere una bambina, violentare una donna, insabbiare una denuncia, mettere una bomba in un locale, perdere la propria verginità, tradire il marito…).
Come se il messaggio di fondo che l’uomo misterioso volesse passare ai suoi interlocutori fosse: “ mors tua, vita mea”; ovverossia: per realizzare un tuo desiderio occorre che paghi dei costi oppure bisogna farlo pagare a qualcun altro, fosse anche un estraneo.
Come se il mondo vivesse in un precario equilibrio omeostatico: per realizzare una situazione di benessere e di piacere in un posto e per qualcuno occorre sottrarlo o toglierlo da qualche altro posto o a qualcun altro: per far guarire tuo figlio da un cancro devi uccidere un’altra bambina, per far guarire tuo marito dall’alzheimer devi mettere una bomba e far morire decine di persone…
Una visione cinica del mondo che può apparire (ed è) perversa, ma che, se ci pensiamo bene, non è molto distante da quella che guida le azioni di molti uomini, se non della maggioranza di essi, compresi (forse) noi stessi.
La prima cosa che sorprende è che l’uomo viene preso sul serio, tremendamente sul serio da coloro che si rivolgono a lui, nonostante le resistenze e le ribellioni iniziali. A cosa può spingere la disperazione!
La seconda cosa sorprendente è che, come quando si ricostruisce un puzzle, le vicende di coloro che si rivolgono all’uomo seduto al tavolo un poco alla volta vengono a intrecciarsi, a ricomporsi, in certi casi pacificamente e armoniosamente, in altri attraverso conflitti irresolubili. Come appunto succede spesso nella vita.
La terza cosa che il film sembra suggerirci è che per conoscere il mondo in fondo non occorre poi viaggiare tanto. Basta stare fermi in un posto e rimanere aperti ad ascoltare gli uomini che ti girano attorno: il mondo viene lui da te.
E, infatti, alla fine il protagonista (Valerio Mastandrea) sembra stanco, molto stanco, come se venisse da un lungo viaggio, come se il suo “lavoro” fosse non quello di uno che sta sempre fermo allo stesso posto, ma quello di un commesso viaggiatore.
Allora, finalmente, cede alle lusinghe e alla corte gentile e amorevole della cameriera del ristorante (una brava Sabrina Ferilli), che da tempo gli gira attorno, un po’incuriosita dal suo mistero e un po’ innamorata.
L’uomo misterioso, infine, sembra scendere dal treno sul quale ha lungamente (e metaforicamente) viaggiato e si accasa. Finalmente si lascia andare ad un sorriso e sembra abbandonare il suo cinismo e il suo disincanto per sposare un po’ di amore.
Giovanni Lamagna