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Sesso, morale e potere.

A voler tenere conto sia della lezione freudiana che di quella marxiana, possiamo dire che la morale sessuale (o, per meglio dire, sessuofobica) è per le coscienze, per la psiche delle persone, ciò che la proprietà dei mezzi di produzione è per i rapporti economici all’interno delle società.

Sono entrambe strumenti di oppressione, sottomissione e, quindi, di potere.

Attraverso i sensi di colpa (legati al sesso) le gerarchie (di qualsiasi tipo, ma soprattutto quelle religiose) hanno da sempre nella storia affermato e rinsaldato il loro potere “spirituale”.

© Giovanni Lamagna

Io, tu e l’Altro da me.

Se dovessi rispondere alla domanda “cosa distingue una persona spiritualmente sana (e, quindi, psicologicamente sana; per me le due espressioni sono equivalenti) da una che sana non è?”, direi che la prima caratteristica di una persona spiritualmente sana è quella di avere un rapporto stabile e profondo con l’Altro da sé.

Senza questo rapporto una persona sana non è.

Credo, in altre parole, che questa mancanza di rapporto con l’Altro da sé costituisca la radice comune e più profonda di tutte le possibili e ipotetiche patologie spirituali (e, quindi, nevrotiche) dell’animo umano.

Ma cosa è l’Altro da sé?

Per me è l’insieme delle esperienze positive accumulate da una persona, dalle quali una persona ha imparato le cose che sono per lei più importanti, più significative, quelle nelle quali si riconosce pienamente e che assume a sua bussola, guida e orientamento, come se fosse la stratificazione dei vari insegnamenti ricevuti e, quindi, la personificazione stessa del suo Maestro interiore.

Credo che la persona sana, equilibrata, che non voglia sbandare continuamente, oscillare quale canna al vento, come purtroppo succede a molti, debba tenere il più possibile presente questo Maestro interiore, tenersi in relazione costante con lui e assumerlo come sua guida.

Per una persona sana, anzi, deve essere questa la sua relazione fondamentale.

Non solo quando è da sola, ma anche, anzi soprattutto, quando è assieme ad altre persone.

Per cui la relazione con le altre persone, la relazione Io-Tu deve (dovrebbe) sempre partire da questa relazione fondamentale ed essere quindi una sorta di relazione a tre: Io-Tu-Altro da me; o, meglio, Io-Altro da me-Tu.

L’Altro da me deve (dovrebbe) essere l’anello di congiunzione tra Me e Te, il filtro o, meglio, il tramite di tutto ciò che avviene tra Me e Te.

Senza questa relazione fondamentale, costituita dal rapporto tra me e l’Altro da me, ogni altra relazione diventa fatalmente squilibrata.

Diventa cioè (o tende a diventare) una relazione di potere sull’altro o una relazione di sottomissione all’altro.

E’, insomma, la relazione tutta interiore con l’Altro da me, col mio Maestro interiore, che mi aiuta a mantenere il giusto equilibrio, ad evitare i due estremi opposti e speculari della prevaricazione autoritaria (più o meno sadica) o della sottomissione dipendente (più o meno masochista), che entrambi sfociano fatalmente in relazioni più o meno disturbate, più o meno nevrotiche.

© Giovanni Lamagna

Due tipi di religione

Per Ernest Bloch esistono due tipi di religione.

Il primo tipo legittima il potere “divino” dei sovrani ed impone la sottomissione dei servi.

Il secondo tipo spinge alla ribellione e alla liberazione dalla schiavitù, da ogni schiavitù.

Per lui bisogna liberare la ribellione dal suo primo significato.

Ma stando attenti a non buttare l’acqua sporca del bagno con tutto il bambino, a rifiutare cioè anche il secondo modo di intendere e di vivere la religione.

E’ questo il succo della introduzione di Bloch al suo libro “Ateismo nel Cristianesimo”.

© Giovanni Lamagna

I gesti della preghiera

Ci sono certi gesti che in tutte le epoche hanno significato e in tutte le latitudini significano ancora una qualche forma di preghiera, se per preghiera intendiamo un atteggiamento universale, che accomuna (possiamo dirlo) tutti gli uomini (per certi aspetti anche i laici), di fronte al mistero e, in alcuni casi, al dramma della vita.

Ne indicherò alcuni (quelli che a me sembrano i principali, perché i più ricorrenti) e cercherò poi di decodificarne sinteticamente il significato, cioè il senso che essi possono avere nel linguaggio del corpo che è loro proprio, anche dal punto di vista di chi non crede in un’entità ultraterrena, ma ne coglie comunque il valore in qualche modo universale:

  1. congiungere le mani;
  2. piegare il capo;
  3. socchiudere gli occhi;
  4. elevare gli occhi al cielo;
  5. allargare le braccia;
  6. inginocchiarsi;
  7. piegare il busto in avanti all’altezza del bacino dopo essersi inginocchiati;
  8. stendersi a terra con tutto il corpo supino in avanti;
  9. camminare.

1.Il congiungere le mani ha per me il significato simbolico di congiungere, ricomporre in unità le diverse parti di sé; esprime fisicamente un bisogno di concentrazione, di unificazione interiore, spirituale. Che ha un valore e un significato anche per chi non si rivolge a nessuna divinità.

2. Piegare il capo è un gesto di umiltà, di predisposizione all’ascolto, specie della propria verità e del proprio daimon interiore, di accettazione e, in certi casi perfino di sottomissione, al proprio destino.

3. Socchiudere gli occhi esprime il bisogno di allontanarsi, almeno momentaneamente, dal mondo visibile che ci circonda per entrare meglio in contatto col mondo invisibile che è dentro di noi. Lo può fare e talvolta lo fa anche un laico, quando vuole concentrarsi e non essere oggetto di distrazioni.

4. Elevare gli occhi al cielo sta ad indicare il bisogno di guardare a un mondo e a un destino che ci sovrasta e di cui dobbiamo tener conto nel nostro sentire, pensare e agire; può esprimere anche la semplice tensione, connaturata a tutti gli umani, non necessariamente religiosi, a trascendersi, a superare se stessi.

5. Allargare le braccia esprime il desiderio di accogliere dentro di sé l’universo mondo e allo stesso tempo il desiderio di farsi accogliere, quasi abbracciare, dallo stesso; in altre parole un desiderio di unità e di comunione.

6. L’inginocchiarsi è un gesto ancora più potente dell’inchinare il capo. E’ il segno dell’affidamento profondo al mistero che ci sovrasta e che tutti ci contiene.

7. Il piegare il busto in avanti all’altezza del bacino, dopo essersi inginocchiati, esprime con ancora maggiore forza il senso di sottomissione che già denotava l’inginocchiamento.

8. Lo stendersi a terra con tutto il corpo supino in avanti è il gesto che esprime al massimo il sentimento dell’umiltà, termine che non a caso deriva dal latino  “humus”, cioè “terra”.

Sta a significare: io non sono altra cosa dalla terra su cui sono poggiato, anzi steso: mi affido e abbandono totalmente alla volontà del Dio o del destino che mi sovrasta.

9. Anche il camminare può essere un momento e un atteggiamento di preghiera: i monaci che si recano in processione in chiesa, col loro camminare solenne, lento e consapevole già stanno pregando, ancora prima di iniziare la loro preghiera formale.

Una volta nei nostri quartieri si svolgevano ed ancora oggi in alcuni paesi si svolgono delle processioni, soprattutto nel corso di alcune festività religiose, che erano e sono a pieno titolo una forma di preghiera, un modo di manifestare anche con il corpo la propria devozione o adorazione del mistero che viene celebrato nell’occasione specifica.

Il camminare lento, consapevole, meditativo, a volte addirittura contemplativo, magari in mezzo ad un bel paesaggio e a contatto con la natura, anche per un laico è la metafora fisica di una consapevolezza tutta spirituale: siamo di passaggio su questa terra e abbiamo un compito da realizzare, quello di mettere in atto le nostre potenzialità, di evolvere, di essere sempre in cammino, appunto.

© Giovanni Lamagna

Sia fatta la tua volontà!

“Sia fatta la tua volontà”: è un’invocazione che può fare solo chi è passato per una profonda conversione. Non la può nemmeno concepire chi non ha fatto una tale esperienza.

Prima della conversione, nessuno potrà dire e dirà mai “Sia fatta la tua volontà!”.

Ogni uomo, infatti, che non si sia ancora convertito, ci tiene bene a dire: “Io faccio esclusivamente la mia volontà; non mi abbasso a fare la volontà di nessun altro; nessuno mi è padrone!”.

E’ solo dopo una “conversione”, una metanoia, che un uomo potrà dire “Sia fatta la tua volontà”.

Potrebbe pensarsi, a questo punto, che io stia qui parlando di una conversione religiosa. E che per “la tua volontà” stia intendendo quella di un Dio Signore, che ci domina e ci sovrasta.

E, invece, no: io non sto parlando affatto di una conversione per forza di cose religiosa; né sto riconoscendo implicitamente l’autorità di un Dio Signore a cui sottomettersi.

Sto parlando di una conversione che non necessariamente deve avere i caratteri della scelta religiosa. Ma di una conversione che può sperimentare qualsiasi uomo che ad un certo punto modifica radicalmente il suo modo di pensare e di vivere.

Che passa, cioè, da una visione e da un modo di vivere egolatrico, egocentrico, narcisista (che è il modo di pensare e di essere naturale del bambino o dell’uomo primitivo e selvaggio), ad una visione e ad un modo di vivere in cui non mi sento più io il centro del mondo e nella mia vita ci sono anche gli altri, che pesano almeno quanto me.

L’uomo nuovo, “convertito” (nel senso laico e non necessariamente religioso che ho sopra chiarito) decide, per questo, di fare non più la propria volontà, ma la volontà dell’Altro che abita in lui, la volontà del suo Maestro interiore.

E non per stupida sottomissione o masochismo. E neppure per esclusivo e idealistico altruismo.

Ma perché ha ricevuto una “illuminazione” che lo ha “convertito” ed ha compreso che la “sua” volontà lo conduceva in un vicolo cieco, verso il ripiegamento su se stesso e, quindi, verso l’autodistruzione psicologica.

La volontà dell’Altro da me è, invece, apertura al prossimo, alle relazioni, alla socializzazione e, per questo, all’espansione del Sé.

Che è la salvezza in termini psicologici (quindi, non necessariamente religiosi), la cura, la terapia contro il male oscuro, vera e propria peste incombente, da cui corre il rischio di essere contagiato l’animo dell’uomo.

Giovanni Lamagna

Celibato, sessualità e potere

La recentissima vicenda del libro scritto a quattro mani dal papa emerito Benedetto XVI e dal cardinale Robert Sarah ha, ancora una volta, posto al centro del dibattito nella Chiesa cattolica (e non solo) il tema del celibato dei preti.

Perché è così importante questo tema, per molti nella Chiesa addirittura decisivo, tanto è vero che, se venisse meno il celibato dei preti, alcuni, come il cardinale Sarah, temono e prevedono una vera e propria “catastrofe pastorale”?

Io credo che la risposta a questa domanda sia semplice, anche se per nulla semplicistica. Provo a darla, dal mio punto di vista di uomo laico, quindi estraneo alle vicende della Chiesa e al suo dibattito interno, ma comunque molto attento interessato ad entrambi.

Come è a tutti evidente il tema del celibato attiene a quello più vasto della sessualità. Come è altrettanto noto che per secoli la sessualità ha occupato ampio spazio nel dibattito sulla morale, in modo particolare in quello della Chiesa.

Non a caso e non a torto molti ricordano ironicamente che per secoli il sesto comandamento è stato considerato quello più importante; non solo – a dire il vero – dalla Chiesa cattolica, ma in modo particolare da questa.

Per cui viene da chiedersi: perché tanta importanza attribuita ai temi della sessualità nella condotta morale degli uomini?

La mia risposta è: perché la “morale” sessuale è uno dei modi, forse il più semplice e, quindi, anche il più diretto, forte e decisivo, per instaurare un controllo sulle coscienze degli uomini, attraverso l’introiezione della sequenza “peccato/senso di colpa/esclusione dalla comunione ecclesiale/pentimento/confessione/riammissione alla comunione ecclesiale”.

Far sentire in colpa i membri della propria comunità per le loro condotte sessuali è stato per secoli uno strumento formidabile in mano al/i potere/i per intimorirli e tenerli psicologicamente sottomessi, sudditi, “fedeli” all’autorità, alla gerarchia (a voler usare un termine blando, quasi eufemistico, che ben si addice – nel caso specifico – ai credenti, agli uomini iscritti ad una Chiesa).

Lo dimostra molto bene il fatto che la Chiesa cattolica mentre è molto rigida sui principi morali che riguardano la sessualità lo è poi molto meno nella prassi pastorale.

Come a dire: miei cari figlioli, a me non interessa tanto che voi siate realmente casti, a me interessa che vi sentiate soprattutto in colpa, dopo aver “peccato”; perciò io sarò sempre disposta ad assolvere i vostri peccati, se voi verrete, dopo esservene più o meno immediatamente “pentiti”, a confessarli ai miei ministri, dimostrandovi, in questo modo, buoni e docili fedeli di Santa Madre Ecclesia.

Sulla base di queste considerazioni, io arrivo a dire (tenendo conto sia della lezione freudiana che di quella marxiana) che la morale sessuale (o, meglio, sessuofobica) è per le coscienze, per la psiche delle persone, ciò che la proprietà dei mezzi di produzione è per i rapporti di classe all’interno delle società: sono entrambe strumenti di sottomissione e, quindi, di potere, di tenuta delle gerarchie.

Ora, se questa premessa teorica è vera, è facile dedurne che mettere in discussione la morale sessuale tradizionale o anche solo mettere in discussione alcuni canoni teologici che hanno a che fare con la sessualità, come il celibato dei preti (ma la stessa cosa la potremmo dire per il sacerdozio delle donne o per l’Eucarestia ai divorziati) mette in discussione, anzi sconvolge, logiche e assetti di potere, su cui si è retto l’autorità per secoli, anzi per millenni.

Nel caso specifico da cui trae spunto questa mia riflessione, l’autorità delle gerarchie ecclesiastiche, ma la stessa cosa si potrebbe dire anche di altre autorità.

Ecco spiegato, a mio avviso, perché una questione in sé molto limitata e, in fondo, persino un po’ banale, come quella del celibato dei preti, diviene agli occhi di alcuni cattolici tradizionalisti, specie delle gerarchie ecclesiastiche che rientrano in questa categoria, una questione di vita o di morte.

Perché, se si “aprisse” su tale questione, si aprirebbe un varco, una vera e propria voragine, crollerebbe tutto un sistema di pensiero teologico, su cui si reggono strutture di potere plurisecolari.

E’ per questi motivi, dunque, che anche per i laici (cioè per coloro che sono esterni alla Chiesa) non è e non deve essere indifferente l’esito di questo dibattito, anzi di questa vera e propria battaglia culturale che da qualche tempo si è aperta e che infuria ancora all’interno della Chiesa.

Perché da questo esito dipenderà anche lo sviluppo in senso progressivo o, all’opposto, la regressione in senso conservativo-reazionario della coscienza morale di una parte non piccola né tanto meno poco significativa della Umanità di cui siamo tutti parte, gente di Chiesa e non.

Giovanni Lamagna

La funzione delle fantasie sessuali.

Secondo Michale Bader, autore di “Eccitazione” (Raffaello Cortina Editore, 2018), le fantasie sessuali (il vero argomento centrale del libro) avrebbero la funzione di “guarire” le credenze patogene (più o meno gravi) che gli esseri umani sviluppano nel corso della loro crescita psicologica, soprattutto come conseguenza del rapporto (più o meno sano) che hanno avuto coi loro genitori.

Questa tesi, a mio avviso, è vera solo in parte.

E’ vera nella misura in cui alcune fantasie sviluppate da adulti ci aiutano ad affrontare inibizioni e tabù sessuali, con i quali siamo cresciuti e che ci sono stati trasmessi dai nostri genitori, e a liberarcene.

Ad esempio, se io sono cresciuto con una madre sessuofobica, posso sviluppare la fantasia che la mia compagna, nel fare sesso con me, assuma modi, abbigliamento, comportamenti, che sono tipici di una prostituta.

La prostituta, nel mio immaginario, assurge in questo caso, a simbolo della massima disinibizione sessuale e, quindi, la fantasia di vivere accanto ad una “prostituta” e non più accanto ad una donna depressa e sessuofobica, come era mia madre, mi aiuterà effettivamente a superare le inibizioni e le paure sessuali con le quali sono stato allevato e sono cresciuto.

La tesi di Bader non è vera, invece, nel caso in cui le fantasie sessuali (come succede altrettanto spesso che nel primo) non solo non aiutano affatto a sciogliere le nostre paure ed inibizioni infantili, ma anzi le confermano e, in certi casi, addirittura le rafforzano.

Se io donna, ad esempio, sono cresciuta con una madre e un padre che mi hanno fatto vivere il sesso come cosa vergognosa, alla quale quindi ho collegato un indissolubile sentimento di vergogna, potrei sviluppare la fantasia di essere stuprata, quando faccio sesso, e con questa (e solo con questa) eccitarmi e riuscire a godere.

In questo caso l’eccitazione e il godimento saranno legati indissolubilmente al sentimento di irresponsabilità mia nell’atto sessuale, quindi di mia non piena corrispondenza e volontà, ma anzi di sopruso e violenza subita.

In questo caso, dunque, la fantasia sessuale (che pure mi avrà aiutato ad eccitarmi e a godere) non mi aiuterà affatto a guarire dalla credenza patogena, con cui sono cresciuta e cioè che il sesso è sporco e quindi vergognoso. Anzi me la confermerà, se non, addirittura, rafforzerà.

Mi impedirà, quindi, non solo di vivere il sesso con piena consapevolezza e autonomia, ma mi costringerà a viverlo come atto di sottomissione e violenza, unica condizione (non mi pare proprio del tutta sana e felice) per poterne godere o, quantomeno, trarne una qualche soddisfazione.

La tesi centrale del libro di Bader (le fantasie sessuali ci aiutano a guarire dalle nostre “credenze patogene” relative al sesso) mi sembra, inoltre, infondata anche per un altro motivo, a cui lui stesso si avvicina verso la fine del libro (senza riuscire però a individuarlo), quando si pone la domanda: ma, se vivessimo in un mondo così sano, allevati da genitori così perfettamente equilibrati e consapevoli della funzione naturale e positiva del sesso, tale che nessuno di noi avrebbe più modo di sviluppare credenze patogene relativamente al sesso, ci sarebbero ancora fantasie sessuali? Queste continuerebbero ancora a svolgere un ruolo nella nostra vita sessuale, divenuta così perfettamente sana ed equilibrata?

La risposta di Bader è: sì, continuerebbero ad esistere le fantasie sessuali.

Risposta che io condivido. Ma non solo per la motivazione che ne dà Bader. Che io condivido (anche qui) solo in parte.

Bader, infatti, sostiene che anche nel migliore dei mondi possibili, un qualche elemento traumatico nel rapporto tra genitori e figli, anche (anzi soprattutto) nel campo della sessualità, esisterà sempre. Generando dunque “credenze patogene”, magari meno gravi di quelle attuali, ma comunque patogene. Ciò che richiederà lo sviluppo di “fantasie sessuali”, in grado di elaborare e superare le credenze patogene maturate da bambini.

Ora io concordo con Bader sul fatto che, anche nel migliore dei mondi possibili, esisteranno sempre dei tabù e delle paure che in qualche modo affliggeranno (anche se in maniera meno grave degli anni trascorsi e di oggi) le nostre vite sessuali.

Non sono d’accordo sul fatto che siano queste paure e questi tabù ad essere la causa prima delle nostre “fantasie sessuali”.

Io credo, infatti, che la causa prima delle fantasie sessuali sia da far risalire al fatto che l’uomo è un animale essenzialmente e strutturalmente immaginativo e non ripetitivo, un animale creativo e non solo attivo.

Al contrario degli altri animali, l’uomo è soggetto al rischio (anche questo patogeno) della noia. La noia, come tutti sappiamo, è il sentimento che ci prende quando la nostra vita si svolge piatta, seguendo un itinerario uniforme, sempre uguale, rassicurante e confortevole magari, ma senza l’adrenalina del rischio legato a nuove avventure.

L’unica possibilità che l’uomo ha di sfuggirvi è quello di immaginare sempre nuovi scenari e di praticare sempre nuovi territori. Questo anche (e, forse, soprattutto) nel campo della sessualità.

Le fantasie sessuali, quindi, per me hanno soprattutto questa funzione: di evitarci il rischio della routine e, quindi, della noia. Che, quando subentra, prima o poi può fare appassire ed uccidere anche la più esaltante delle attrazioni sessuali iniziali, anche il più forte ed appassionato dei sentimenti amorosi.

Indirettamente, le fantasie sessuali e, soprattutto, la loro pratica (quando sono condivise dal/la nostro/a partner e quando non gli fanno violenza, neanche quella subdola e perversa che può riuscire a strappargli un consenso non convinto) svolgono anche un ruolo terapeutico rispetto alle nostre credenze e ai nostri comportamenti patogeni relativamente al sesso. Come sostiene Bader nel suo libro.

Ma la loro funzione primaria è, a mio avviso, quella di vivacizzare e rivitalizzare in continuazione la vita sessuale degli uomini, che, diversamente da quella degli altri animali, non obbedisce solo ad un istinto biologico, ma coinvolge anche la mente e, quindi, l’immaginazione.

Non è puro istinto pro-creativo (e, perciò, meccanico, ripetitivo), ma è anche (se non soprattutto) atto creativo (e perciò sempre nuovo e, dunque, fantasioso).

Giovanni Lamagna