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Stagnazione melanconica del lutto versus elaborazione simbolica della perdita.

“Il dolore del lutto è sempre statico, esclude il movimento e la trasformazione proprio perché rifiuta di riconoscere pienamente la separazione dall’oggetto perduto.” (Massimo Recalcati; “La luce delle stelle morte”; 2022 Feltrinelli; pag. 46).

Aggiungo che quando il dolore del lutto si prolunga oltre un certo limite questo è il segno che è sopraggiunta una depressione; o, meglio, che il lutto ha “risvegliato” ed attivato una depressione che era già potenziale, latente.

Significa che il soggetto depresso è stato risucchiato in un gorgo mortifero, che è attratto più dalla presenza di chi e di ciò che è morto che da quella di chi e di ciò è ancora vivo; in altre parole è attirato più dalla morte che dalla vita.

Ma non è il prolungamento anomalo del lutto, la cronicizzazione del lutto, l’incapacità di elaborare simbolicamente la perdita della persona defunta, che attivano la melanconia, la depressione, quella che Recalcati definisce “la stagnazione melanconica del lutto” (ibidem; pag. 46).

E’ – a mio avviso – piuttosto il carattere (potenzialmente, latentemente o manifestamente) depresso del soggetto che vive un lutto a prolungare questo lutto oltre limiti anomali, a renderlo cronico, incapace di una sua elaborazione simbolica.

Nella persona sana il lutto, prima o poi, viene elaborato e superato; la persona sana prima o poi simbolizza la separazione e la supera; nella persona sana l’istinto di vita prevale prima o poi sull’istinto di morte.

La persona sana prima o poi riprende in mano la sua vita, ricomincia a guardare al futuro; la persona insana rimane, invece, bloccata sul passato, prigioniera della nostalgia, anzi del rimpianto, incapace di guardare in avanti, alle persone e alle cose che sono rimaste in vita.

A questo punto però mi chiedo: che vuol dire “simbolizzare una separazione”, “elaborare un lutto”?

A mio avviso, vuol dire fare un percorso interiore (Recalcati lo chiama un “lavoro”), tale che la persona perduta entri simbolicamente, cioè psicologicamente, (potrei dire anche spiritualmente, se non temessi il fraintendimento del termine) a far parte di noi.

Che non la viviamo più come separata, altro da noi (come in un certo senso – per certi aspetti addirittura paradossali – era quando stava con noi), ma l’abbiamo come interiorizzata, fatta diventare oramai una parte stabile di noi.

Quando la separazione e il lutto sono stati elaborati, il ricordo della persona perduta (e di tutto ciò che ad essa si riferisce) è dolce, ci fa teneramente compagnia, ci aiuta addirittura a vivere e a progettare il futuro, per certi aspetti ce la rende ancora più presente di quando stava fisicamente con noi.

Ricordo qui (quasi per inciso) una frase alquanto oscura di Gesù (riportata dal Vangelo di Giovanni 16,7-15), ma che, alla luce della riflessione che sto in questo momento svolgendo, può risultare meno oscura o addirittura trasparente: “E’ bene per voi che io me ne vada perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi”.

Il Paràclito è qui da intendersi come lo Spirito Santo, cioè Gesù stesso in forma spirituale, interiorizzata.

Ricordo che Gesù rivolge queste parole ai suoi discepoli, poco prima del suo arresto e della sua crocifissione, per consolarli ed aiutarli ad accettare la sua morte, la sua perdita, il suo allontanamento fisico (ma non certo spirituale; anzi!) dalle loro vite.

Secondo questa profezia e questo auspicio di Gesù la sua morte avrebbe addirittura giovato ai suoi discepoli, nel senso che li avrebbe costretti – in mancanza della sua presenza fisica – ad interiorizzare la sua realtà spirituale, a farla diventare carne della loro carne, fino a poter dire (come dirà effettivamente un giorno Paolo di Tarso): “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Lettera ai Galati; 2, 20).

In questo caso la morte è vissuta come separazione fisica, indubbiamente dolorosa, perfino lacerante, straziante, almeno inizialmente, ma infine, prima o poi, come ricongiungimento spirituale, resurrezione in qualche modo della persona morta, addirittura più presente spiritualmente di quando essa era ancora fisicamente viva, generatrice di linfa ed energia vitale in chi le è sopravvissuta.

Al contrario nella “stagnazione melanconica del lutto” il morto prende il posto dei vivi, li sopravanza e quasi li oscura con la sua presenza fantasmatica, quasi li caccia fuori dalla scena dell’esistenza, il passato si sostituisce al presente e nientifica ogni prospettiva di futuro, la nostalgia e il rimpianto impediscono il godimento di chi (e anche di ciò che) è rimasto vivo.

Nella “stagnazione melanconica del lutto” il ricordo della persona perduta è ossessivo, amaro, persecutorio, colpevolizzante, onnipresente.

Lungi dall’aiutare la persona sopravvissuta (come nella profezia e nell’auspicio evangelici) a vivere, a continuare a vivere, anzi (in quel caso) a nascere addirittura a nuova vita, le rovina e intossica l’esistenza.

La morte – quando il lutto ristagna melanconicamente – attrae e risucchia nel suo gorgo depressivo e distruttivo la vita, il freudiano istinto di morte prevale sull’istinto di vita, la necrofilia (cito qui Erich Fromm) vince sulla biofilia.

© Giovanni Lamagna

I due movimenti fondamentali della vita spirituale.

Gli “esercizi spirituali”, di cui parla Pierre Hadot (“Esercizi spirituali e filosofia antica” 2005; Piccola Biblioteca Einaudi), sono fondamentalmente due:

1) quello di allenarsi a vivere costantemente nell’attimo presente, vincendo la tentazione di rifugiarsi nel ricordo nostalgico del passato o di alienarsi in progetti avveniristici per il futuro;

2) quello di viversi come una piccola, piccolissima parte del Tutto dell’Universo e, quindi, del Tutto costituito dalla comunità umana, senza farsi travolgere dall’angoscia che ciò potrebbe comportare, ma anzi godendo del “sentimento oceanico” che a questa esperienza può essere collegato.

Come ebbe a sperimentare felicemente Giacomo Leopardi quando scrisse una delle sue poesie più belle, “L’infinito”, che si conclude con queste parole meravigliose: “Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.”.

Ora è interessante notare (e qui voglio evidenziarlo, chiosando le affermazioni di Hadot) come questi due esercizi prevedano due movimenti non solo diversi, ma addirittura contrapposti; eppure, allo stesso tempo, (misteriosamente) convergenti.

Il primo richiede, infatti, un movimento di concentrazione in sé stessi, di raccoglimento tutto interiore; come se la coscienza fosse chiamata a fermarsi e stabilizzarsi in un punto molto piccolo e ristretto, quello dell’attimo presente, dimenticando il passato e disinteressandosi al futuro.

Il secondo, invece, prevede il movimento opposto: una dilatazione, al massimo possibile, della coscienza fino ai confini estremi dell’Universo e della comunità umana.

Per chi ha vissuto un’esperienza mistico-contemplativa è del tutto chiaro, perché sperimentato e quindi verificato empiricamente, che questi due movimenti solo apparentemente sono opposti, mentre in realtà coincidono, fanno parte della stessa disposizione spirituale.

Sono i due movimenti/atteggiamenti che contraddistinguono l’homo religiosus.

Laddove con il termine “religiosus” non si intende solo (e neanche necessariamente) l’uomo di fede (in un’entità o in una dimensione trascendente).

Quanto piuttosto l’uomo che ha realizzato dentro di sé l’unione (il “religare”, appunto) delle diverse parti di cui si compone la sua psiche.

Parti, che, in una prima fase della sua vita (quella prespirituale) ogni uomo tende a vivere (in una maniera più o meno acuta) come separate, scisse, frammentate, a volte addirittura schizzate, cioè in conflitto l’una con le altre.

E che solo grazie alla vita spirituale, tramite appunto quelli che Hadot definisce “esercizi spirituali”, possono essere ricomposte in unità, per quanto relativa, per quanto precaria, provvisoria e, in ogni caso, sempre perfettibile.

Altrimenti sono destinate a rimanere fatalmente separate, scomposte, malate di una scissione che, col tempo, potrebbe addirittura cronicizzarsi e persino aggravarsi, accentuarsi.

© Giovanni Lamagna

L’atteggiamento contemplativo.

Quando qualcuno col dito ci indica la luna, alcuni di noi guardano il dito, alcuni altri la luna.

Ma c’è anche una terza possibilità: quella di guardare contemporaneamente il dito e la luna.

E’ questo l’atteggiamento contemplativo, che ci consente di guardare contemporaneamente il vicino e il lontano, l’insieme e i suoi particolari.

Di concentrarci sul presente, conservando il ricordo del passato e proiettando lo sguardo verso il futuro.

© Giovanni Lamagna