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Le motivazioni e le dinamiche dell’esperienza mistica.
Freud nel famoso epistolario con il suo amico francese, il letterato vincitore di un premio Nobel Romain Rolland, spiega l’esperienza mistica (il “sentimento oceanico” di fusione con il Tutto, di cui gli aveva scritto Rolland) con il bisogno/desiderio regressivo di ritornare nell’utero materno, laddove l’uomo ha sperimentato – è dato supporre – le massime sensazioni di benessere e di felicità.
A me pare (come del resto a molti altri, di cui ho letto; per primo a Rolland, ovviamente, e poi a Jung, già ai tempi di Freud e in polemica con lui, e poi a Elvio Facchinelli e poi a Romano Madera, per venire a tempi più recenti) che con questa sua lettura/interpretazione il grande genio austriaco, fondatore della psicoanalisi, abbia preso una grande toppata.
Ci sono, infatti, persone che vivono cronicamente desiderose di tornare nell’utero materno, la fantasia nevrotica di uscire dal mondo esterno – nel quale le ha proiettate la nascita e nel quale sono incapaci di sperimentare il minimo benessere – per ritornare all’indietro nel guscio protettivo, nel quale, invece, hanno vissuto una condizione di (oramai perduta) felicità.
Sono però le persone nevrotiche di cui Freud si sarà occupato cento volte nel corso della sua esperienza di psicoterapeuta; persone proiettate all’indietro, con lo sguardo rivolto al passato, incapaci di guardare al futuro, anzi terrorizzate da quello che prospetta loro la vita che hanno davanti, in un movimento, in una postura che non hanno nulla a che fare con quelli del mistico.
Il mistico, infatti, fa il movimento esattamente contrario: ha maturato la consapevolezza che ogni idea/desiderio di ritorno all’indietro (simbolicamente nell’utero materno, appunto!) è del tutto impossibile, una pura fantasia nevrotica e autodistruttiva, e perciò si proietta in avanti.
Certo alla ricerca di una felicità che in qualche modo possa assomigliare a quella sperimentata nell’utero della madre, che, come dice Jung, “fu per noi il primo oggetto, con la quale un tempo noi fummo veramente una cosa sola” (“Simboli della trasformazione”; Bollati Boringhieri 1970; p. 318).
Ma in una direzione esattamente opposta a quella della persona nevrotica; lo fa guardando in avanti e non all’indietro, aprendosi al mondo nel quale lo ha proiettato la nascita e non rifuggendone, cercando l’unione col Tutto e, quindi, con tutti i suoi simili nelle loro variegate diversità e non (come fa invece il nevrotico) con l’Unico e sempre Uguale, rappresentato dalla figura materna e simbolicamente dal suo utero.
La felicità che cerca il mistico è dunque una condizione da conquistare faticosamente e non un’eredità di cui godere gratuitamente, il frutto di un’ascesa e non di una discesa, di una crescita spirituale e non di una regressione psichica, di una espansione e non di una contrazione o chiusura.
Chi è il mistico, quali caratteristiche deve avere, a quale chiamata risponde, lo descrive in maniera esemplare, come meglio, a mio avviso, non si potrebbe, il passo del Vangelo di Luca (14; 25-33), che qui riporto integralmente:
“25Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: 26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro».
31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.” (Testo CEI 2008).
Ora, se noi spogliamo questo testo di tutti gli orpelli legati strettamente alla biografia del Cristo e ne traduciamo in termini del tutto laici e perfino mondani il linguaggio, siamo in grado di comprendere con estrema chiarezza chi è il mistico.
Ovverossia una persona tutt’altro che attaccata al passato, meno che mai ai legami familiari, in primis a quelli di sangue.
Una persona adulta, matura, saggia, capace invece di fare progetti e dotata di un acuto senso della realtà, come non lo è invece la persona bloccata psicologicamente.
Una persona che si priva di tutti i suoi averi, compresi quelli a cui si era appigliato quando era bambino, per seguire la propria vocazione; per seguire – avrebbero detto i Greci, che Freud tanto amava – il proprio daimon.
Altro che “desiderio di ritornare alle percezioni neonatali o all’utero materno” (Romano Madera; “Lo splendore trascurato del mondo”; Bollati Boringhieri 2023)!
© Giovanni Lamagna
Amore angelicato, amore romantico e amore di amicizia
Voglio affrontare ancora una volta il tema dell’amore. In premessa dico subito che io non credo nell’amore romantico e, meno che mai, in quello che (almeno per alcuni aspetti) fu un suo precedente storico, l’amore angelicato, dei dolcestilnovisti e, in modo particolare, del suo massimo esponente, Dante Alighieri.
Non credo nell’amore angelicato per motivi che oggi risultano addirittura ovvi e quindi possono apparire persino banali: l’amore angelicato esalta la figura di una donna idealizzata, ridotta o elevata (a seconda del punto di vista col quale la si guardi) a puro spirito, quindi non più di natura umana, ma (appunto!) angelica.
Riduzione o elevazione che sono (in entrambi i casi) pure mistificazioni, in quanto la donna/angelo semplicemente non esiste ed è la pura proiezione di un sentimento del tutto sublimato, quindi disincarnato, “depurato” cioè della sua dimensione corporeo/sessuale, che la cultura dell’epoca evidentemente considerava di livello inferiore, se non addirittura del tutto spregevole.
E’ naturale che oggi, in un’epoca in cui c’è stata una larga e del tutto legittima, anzi necessaria, rivalutazione della corporeità e della sessualità (fino a raggiungere e superare, semmai, il limite opposto, con una esaltazione unilaterale ed esagerata di queste due ultime dimensioni) la concezione dell’amore angelicato appaia del tutto superata, insostenibile e non condivisibile.
Anche se permangono tuttavia, ancora oggi, singole persone e aree culturali, per quanto oramai largamente minoritarie e residuali, che continuano a sostenere e privilegiare un tale modo di sentire, pensare e vivere l’amore.
Io, tuttavia, come dicevo nell’introduzione, non condivido e difendo manco l’amore romantico, che invece ancora oggi trova miriadi di sostenitori, specie tra le donne e anche tra molti giovani, per i quali la rivoluzione dei costumi del ’68 pare non esserci mai stata e che rispetto a quella generazione sembrano aver preso le distanze, operando in qualche modo una cesura, se non proprio una regressione (almeno a mio giudizio) a modelli di sentire, di pensare e di comportarsi ad essa antecedenti.
Perché non condivido la concezione dell’amore romantico?
Innanzitutto perché non lo considero neanche vero e proprio amore. L’amore romantico è, infatti, piuttosto una forma di innamoramento. E l’innamoramento, come tutti sappiamo, è cosa ben diversa dall’amore vero e proprio.
E’, invece. una forma di infatuazione, che ci porta a stravedere per l’altro, ci fa vedere come attraverso una lente di ingrandimento i pregi e le qualità dell’altro e ce ne oscura (quasi) completamente i difetti e le mancanze: è, insomma, quasi una forma di allucinazione.
In secondo luogo (forse proprio perché è una forma di innamoramento e non di amore, di travisamento quasi allucinatorio della realtà e non di sentimento pienamente lucido e consapevole di sé) l’amore romantico tende a mettere la persona amata su una sorta di piedistallo, ad isolarla dal contesto degli altri rapporti, i quali – per chi vive appunto l’amore nella sua forma romantica – vengono quasi oscurati, messi del tutto in secondo piano.
E questo – lungi dal costituire un fatto positivo – provoca effetti negativi nella persona coinvolta in un tale tipo di amore, la quale è portata a togliere importanza ad altre realtà (ad esempio, il lavoro, i legami familiari, le amicizie, a volte perfino le amicizie più intime), a declassarle, quasi svalorizzarle e, quindi, a trascurarle.
La vita di una persona che vive un amore romantico ne è quindi in qualche modo sconvolta. E, a mio avviso, (quasi) mai in modo positivo, in un modo cioè che valorizzi la vita della persona coinvolta in questo tipo di amore, ne promuova in altri termini la crescita emotiva, affettiva, intellettuale, psicologica e spirituale in senso lato.
Qual è allora il tipo di “amore” in cui credo io? Io credo nell’amore che definirei “amore di amicizia”.
Di solito per amicizia noi intendiamo un legame più o meno profondo tra due persone, fatto innanzitutto di una istintiva consonanza emotiva, ovvero di empatia e simpatia, e poi di una condivisione di interessi, che possono andare dal gioco ai passatempi, dal tempo libero alle vacanze, dalla ricerca intellettuale agli ideali di natura spirituale: politici, filosofici, filantropici, religiosi…
Per amicizia non si intende (almeno nel modo di pensare comune) un legame in cui ci sia anche un’attrazione fisica e una pratica sessuale. Anzi è proprio questo il discrimine che di solito viene posto alla base della distinzione tra una “semplice” amicizia e quello che normalmente viene definito un amore.
Come se nell’amicizia non ci fosse un coinvolgimento emotivo, affettivo, intellettuale, spirituale, molto affine al rapporto che siamo soliti definire “d’amore”; e come se l’amore non fosse (a meno di non volerlo considerare fondato principalmente, se non esclusivamente, sull’attrazione sessuale) un legame molto affine all’amicizia.
Quando io parlo di “amore-amicizia” intendo allora, in primo luogo, superare la rigida divisione, che – nel sentire comune e da tempi immemorabili, che si perdono nella notte dei tempi – normalmente separa e distingue queste due forme di rapporto.
Intendo dire allora e con la massima chiarezza possibile che per me l’amicizia è una forma di amore e, soprattutto, che l’amore o è anche amicizia o è una ben povera cosa.
In secondo luogo intendo far scendere il rapporto d’amore da quel piedistallo su cui lo hanno messo diverse concezioni dell’amore che si sono succedute nel corso dei secoli, in primis le due che ho criticato nella prima parte di questa mia riflessione: l’amore angelicato e l’amore romantico.
Ed è questo forse l’aspetto più nuovo ed originale, anche se non del tutto nuovo e originalissimo del mio ragionamento, dal momento che qualche precedente storico comunque ce l’ha.
Questo deporre l’amore dal piedistallo non equivale affatto, però, – anche questo sia ben chiaro – ad una svalutazione del sentimento dell’amore.
L’amore per me è e resta (non dico un sentimento: perché – questo sì – sarebbe svalutarlo!) una dimensione dei rapporti nobilissima, apprezzabilissima e desiderabilissima.
Non è, però, – ed è questo che vorrei sottolineare – più nobile, apprezzabile e desiderabile di quanto lo sia l’amicizia.
Perché l’amore (anche quello che contempla la pratica del sesso) per me altro non è che una forma di amicizia, anzi è essenzialmente e in primo luogo un’amicizia. Un’amicizia che tra i vari e molteplici interessi condivisi ha anche quello erotico-sessuale.
Da questo punto di vista, allora, sono fermamente contrario all’idea dell’amore come rapporto esclusivo, monogamico, se non addirittura eterno; che vorrebbe essere un’esaltazione della peculiarità di questo tipo di rapporto, mentre ne rappresenta solo una gabbia, che lo imprigiona e ne limita le enormi, immense potenzialità. Per la crescita delle persone che ne sono coinvolte.
Io sono fermamente convinto, invece, che si possano vivere più amori in contemporanea, senza per questo far scadere l’amore a rapporto frivolo e banale, come pensano, invece, la maggioranza degli uomini e, soprattutto, delle donne.
Sono convinto che si possano vivere più amori in contemporanea, allo stesso modo di come si possono vivere più amicizie in contemporanea, senza rendere banali e frivole le amicizie; e questo nessuno lo contesta, anzi tutti lo danno per scontato.
Non riesco a capire perché nell’immaginario collettivo tutti gli interessi (da quelli più frivoli del gioco e dei passatempi a quelli più elevati degli ideali e delle visioni del mondo) possano essere condivisi legittimamente, senza la minima obiezione da parte di alcuno, in un rapporto di amicizia.
E, invece, non lo possa essere il sesso; come se il sesso fosse un “inter-esse” (letteralmente ciò che c’è, che passa, tra un soggetto e un altro soggetto) per sua natura “diverso”, “altro”, quindi strutturalmente e intrinsecamente monogamico, quando tutte le verifiche scientifiche sembrano semmai dirci esattamente il contrario.
La tesi che sostengo – quella dell’amore-amicizia – intende smontare questo preconcetto, questo stereotipo, e affermare la piena libertà dell’amore. In tutto “simile a” e in nulla “dissimile da” quella che vige nei rapporti di “semplice” amicizia.
Per questo arrivo alla conclusione che per me “amore” e “amicizia” pari sono, in fondo sono la stessa cosa: la loro natura profonda, la loro essenza sono identiche.
© Giovanni Lamagna
Sull’idea di comunità.
Nel numero 6/2018 di MicroMega Paolo Flores d’Arcais, in un suo articolo, sostiene: “La logica della comunità… è la logica del ghetto, dell’apartheid, della separazione, dell’identità costruita sulla esclusione dell’altro, della convivenza fittizia fondata sull’assemblaggio di gruppi chiusi, autoritari e dogmatici.
Una logica che annienta proprio quel ciascuno che tutti noi siamo, esistenze singolari e irripetibili intorno a un nucleo di opinione irriducibilmente libera. E in nome di cui nessuna collettività, nessuna ipostasi, può parlare, senza ridurre l’individuo a mera replica. Per cui, parafrasando Marx, andrà sempre ricordato che una comunità può essere libera senza che liberi siano gli individui che la compongono”.
Ora, a mio avviso, tali affermazioni sono senz’altro vere e condivisibili, se riferite ad alcune tesi politiche attuali, quali ad esempio quelle sovraniste oggi tanto in voga, in primis quelle portate avanti dalla Lega (ex Nord) di Matteo Salvini.
Non lo sono, se riferite alla nozione stessa di “comunità”, quale categoria filosofica, sociologica e finanche religiosa, se per religione intendiamo una visione del mondo, più e prima che la sua incarnazione storica in una Chiesa.
Vorrei provare, quindi, a confrontarmi con le affermazioni di Flores, contestandole e smentendole in buona sostanza, almeno in alcuni loro passaggi.
Partendo da una domanda: la logica della comunità è davvero solo “la logica del ghetto, dell’apartheid, della separazione, dell’identità costruita sulla esclusione dell’altro, della convivenza fittizia fondata sull’assemblaggio di gruppi chiusi e autoritari e dogmatici”?
La mia risposta è: dipende da che cosa intendiamo, quando pensiamo al concetto di “comunità”. Perché ci sono comunità e comunità: non tutte le comunità concretamente esistenti (o esistite) sono, infatti, da far rientrare nella stessa categoria filosofica e perciò astratta di “comunità”.
Se per comunità intendiamo un gruppo chiuso, che si fonda sulla condivisione di credenze inossidabili, ritenute verità rivelate e perciò dogmatiche, dunque assolute, eterne e indiscutibili, sulla presunzione di possedere la Verità da trasmettere o perfino imporre a color che ne sono ritenuti privi, sulla fede e obbedienza ad un’autorità a cui si attribuiscono poteri sacri o addirittura derivati da Dio stesso, sulla emarginazione dal gruppo di colui o coloro che si permettano anche solo minimamente di avanzare dubbi, riserve, critiche, perplessità riguardo sia ai valori fondanti del gruppo che alle “autorità” che quei valori sono chiamati a custodire, sulla appartenenza alla stessa etnia o, perfino, nei casi estremi sui soli legami di sangue, se per comunità intendiamo, quindi, un gruppo che vive sulla difensiva o, in alcuni casi, sulla competizione e, perfino, sulla guerra con i gruppi “stranieri”, allora la “comunità” effettivamente è quello che dice Flores d’Arcais, cioè un ghetto.
Ma la comunità è solo questo? O, meglio, dato per scontato che alcune (molte) comunità sono quello che sostiene Flores, nel concetto di comunità rientra solo questo? Per comunità dobbiamo intendere solo lo scenario che ne ha descritto Flores, anche se esso è effettivamente e indubbiamente un’esatta e precisa descrizione di alcune (molte) comunità?
Io dico di no. Io dico che ci può essere, anzi c’è, un’altra idea di comunità. E che questa (in parte almeno) è stata non solo teorizzata ma anche praticata (e tuttora viene praticata) in alcune realtà. Realtà magari piccole, minoritarie, ma che non per questo vanno ignorate o escluse dal vocabolario che definisce il concetto di “comunità”.
Per “comunità” noi possiamo intendere anche altro. Io personalmente così la intendo. La comunità è innanzitutto un luogo, un gruppo che mette insieme le persone non certo in base alle etnie e manco in base ai legami familiari, ma sulla base di una scelta, di una decisione/adesione libere e consapevoli (quindi senza nessuna forma di coartazione, né fisica né psicologica, né plateale né subliminale), del singolo individuo. Altro che individuo, quindi, come “mera replica” del gruppo!
Per comunità, inoltre, possiamo intendere un gruppo di persone che si mettono insieme sulla base di alcuni interessi, opinioni, convinzioni, intenzioni, valori condivisi.
Parliamoci chiaro: nessun gruppo nasce, potrebbe nascere, senza un denominatore comune, costituito appunto da interessi, opinioni, convinzioni, intenzioni, valori condivisi.
Ma, rispetto alla logica della comunità-ghetto, questi interessi, opinioni, convinzioni… possono anche non avere nulla di dogmatico e di rigido. Bensì aperti al confronto con interessi, opinioni, convinzioni… diversi di altri gruppi.
La comunità che intendo io è una comunità fondata sul dialogo con le diversità, sulla collaborazione e sulla cooperazione e non sulla competizione e sulla ostilità della comunità-ghetto.
E’ una comunità che ha sposato convintamente il motto (erroneamente attribuito a Voltaire, in realtà di una sua amica-discepola, la scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall): “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”.
E’, insomma, una comunità aperta al pluralismo delle idee e niente affatto integralista.
E’ un gruppo che, come tutti i gruppi, ha una sua leadership, ma essa è di natura democratica e per nulla autoritaria. Il leader è tale per le sue qualità umane, cioè caratteriali, relazionali, intellettuali, spirituali. Viene riconosciuto quindi come tale dal gruppo e non investito dall’alto e subìto dal gruppo.
Tanto è vero che, nel momento in cui egli non dovesse più esprimere il sentire e la volontà della comunità, questa prevede (formalmente o informalmente) meccanismi piuttosto semplici, fluidi e rapidi per la sua sostituzione con altra persona ritenuta più adeguata alla funzione.
In questo tipo di comunità il leader è un “primus inter pares” e la struttura psicodinamica del gruppo è circolare e non verticale, come invece lo è nelle comunità-ghetto, di cui parlava Flores.
Infine, la comunità, per come la intendo io, è tenuta insieme dal sentimento caldo e affettuoso dell’amicizia fraterna e non dalla condivisione di una fede fanatica, che lascia in realtà estranei gli uni agli altri i membri della comunità-ghetto.
La comunità di cui parlo io è un gruppo, nel quale si pratica concretamente, non solo a parole, ed è quindi realizzato il motto del 1789: “Libertà, uguaglianza e fraternità”.
E’ un gruppo nel quale l’individuo lungi dall’essere sacrificato e mortificato (come avviene nelle comunità-ghetto dei paesi sottosviluppati, ma anche nelle società-massa dei paesi cosiddetti ipersviluppati) è esaltato al massimo, è considerato una persona umana e non un soggetto anonimo.
E’ un gruppo allora che realizza pienamente, almeno nel micro, gli ideali che la rivoluzione francese avrebbe voluto realizzare nel macro e che in realtà non furono mai portati a compimento, perché realizzati solo in minima parte; certamente molto poco (o per niente) per quanto riguarda la dimensione della fraternità.
E’, quindi, in qualche modo, la prefigurazione micro di una società “altra” rispetto a quella macro nella quale pure è inserita.
Una realtà micro, fondata sui principi-ideali della libertà individuale, della laicità, del pluralismo, della tolleranza, della democrazia, dell’uguaglianza, della solidarietà umana, della fraternità, che aspira (perché no?) a diventare macro.
Ma senza coltivare alcun fanatismo, senza teorizzare alcuna prevaricazione e, soprattutto, senza praticare nessuna forma di violenza, ma utilizzando esclusivamente gli strumenti e le vie della democrazia formale e sostanziale.
© Giovanni Lamagna