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“Verità” e insicurezze.

Molti uomini hanno bisogno di credere in “verità” certe, assolute, senza ombre e dubbi; “verità” totalizzanti, al limite del dogma e dell’irrazionale.

Con queste “certezze” puntellano, mascherano, a volte in modo grossolano, perfino pacchiano, il loro profondo senso di insicurezza, fragilità, precarietà.

© Giovanni Lamagna

Gioia e timore della ricerca.

Ci sono persone dotate di spirito di ricerca e altre che vi sono refrattarie, che si chiudono a riccio, in difesa, timorose di fronte a tutto ciò che sa di ignoto e misterioso.

Preferiscono per questo la routine al movimento, la noia della ripetizione all’entusiasmo del mettersi continuamente in gioco.

Perché – come in parte è anche naturale – prediligono il noto all’ignoto, la sicurezza comoda del già conosciuto all’insicurezza rischiosa del non ancora conosciuto.

© Giovanni Lamagna

Demagogia e senso di insicurezza

I politici seri non dovrebbero parlare alla pancia dei loro elettori.

Non dovrebbero cioè cavalcare demagogicamente il loro senso di insicurezza.

Ma non possono fare a meno di tenerne conto.

Anche quando non vogliono essere demagogici.

Altrimenti non sarebbero bravi politici.

© Giovanni Lamagna

Il principale problema dell’uomo: la solitudine

Penso che il problema fondamentale con il quale si deve confrontare l’uomo (ancora prima che quello delle malattie e quello della morte) sia quello della solitudine.

Non sto parlando qui ovviamente della solitudine episodica, saltuaria, che a tutti noi capita di sperimentare di tanto in tanto e per periodi più o meno prolungati.

Parlo della solitudine radicale, la solitudine esistenziale, che niente e nessuno, al di fuori di noi stessi, può aiutarci ad affrontare e meno che mai a risolvere.

La solitudine per cui io sono io e tu sei tu, io sono io e gli altri sono radicalmente altro da me, costituzionalmente separati da me; la solitudine per cui il mio destino è mio e il tuo è altro dal mio.

Ci sono persone che lasciano trascorrere tutta la vita senza neanche porsi né tantomeno cercare di risolvere questo problema.

Che vivono alla perenne ricerca di puntelli, di supporti, di paletti a cui appoggiarsi, che diano loro l’illusione di poter restare in piedi senza crollare, senza essere risucchiati dall’angoscia insostenibile della solitudine.

Ovviamente questa sensazione di non essere mai soli è solo illusoria e molto superficiale.

Nel profondo, infatti, esse continuano ad avvertire una profonda insicurezza, sentono di essere sempre sul bordo di un burrone, a rischio di precipitare negli abissi della depressione esistenziale.

Questo problema, infatti, lo si può risolvere (per quanto sempre in maniera parziale e precaria) solo a due condizioni.

La prima è che questa solitudine radicale, potremmo dire ontologica, venga da noi accettata fino in fondo, come tratto costitutivo e insuperabile della nostra stessa essenza.

La seconda è che si incontri dentro di sé quell’Altro da sé in grado di farci compagnia costantemente, a prescindere dalla presenza o meno accanto a noi di altri esseri umani.

Queste due condizioni sono tra l’altro anche la necessaria e indispensabile premessa per intrecciare delle buone (nel senso di vere, sane, soddisfacenti e non surrogatorie) relazioni con gli altri.

Chi, infatti, non è capace di stare da solo, nel senso che non è buon compagno di se stesso, non è manco capace di stare bene assieme agli altri, di essere buon compagno per gli altri.

© Giovanni Lamagna

Il talento e la scrittura.

Qualche tempo fa una mia amica ha postato sulla mia pagina facebook il seguente testo di David Foster Wallace, che desidero commentare:

“Ho scoperto che la disciplina più difficile nella scrittura è cercare di partecipare al gioco senza lasciarsi sopraffare dall’insicurezza, dalla vanità e dall’egocentrismo.

Mostrare al lettore che si è brillanti, spiritosi, pieni di talento e così via, cercare di piacere, sono cose che, anche lasciando da parte la questione dell’onestà, non hanno abbastanza calorie motivazionali per sostenere uno scrittore molto a lungo.

Devi disciplinarti e imparare a dar voce solo alla parte di te che ama le cose che scrivi, che ama il testo a cui stai lavorando.

Che ama e basta, forse.

Il talento è solo uno strumento.

È come avere una penna che scrive invece di una che non scrive.

Non sto dicendo che riesco costantemente a rimanere fedele a questi principi quando scrivo, ma mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre si nasconda nello scopo da cui è mosso il cuore di quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo.

Ha qualcosa a che fare con l’amore.

Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte di te che ama, invece che quella che vuole soltanto essere amata.”

Questo testo è bellissimo! Mi ci riconosco molto.

La prima affermazione che mi trova concorde: la scrittura è un gioco, va vissuta come un gioco. Come a dire: chi non la vive come un gioco non è un vero scrittore.

La seconda affermazione che mi trova concorde: nemici della scrittura sono l’insicurezza, la vanità e l’egocentrismo.

L’insicurezza si capisce bene perché è nemica della scrittura. Chi è insicuro di quello che scrive o, meglio, chi non ha un minimo di sfrontatezza nel mettere nero su bianco e farlo leggere agli altri non sarà mai uno scrittore.

Può sembrare, invece, che la vanità e perfino l’egocentrismo siano addirittura necessari per scrivere. E invece… Non lo sono affatto. Forse, stanno dietro la cattiva scrittura, quella inautentica, quella falsa. Non stanno, certo, dietro la buona scrittura.

E David Foster Wallace spiega bene perché, non ha certo bisogno di una mia chiosa.

La buona scrittura è, dunque, figlia di un equilibrio (non facile da realizzare, ma frutto di una certa disciplina) tra sicurezza, perfino sfrontatezza, e rinuncia alla vanità e all’egocentrismo.

La terza affermazione che mi trova concorde, forse ancora più delle altre due: la buona scrittura ha a che fare con l’amore, è figlia dell’amore, prima e più che del talento.

Il talento, cioè la capacità di mettere insieme le parole nel modo giusto, è solo lo strumento utile, anzi necessario. Come la penna che scrive rispetto ad una penna che non scrive.

Ma, se non si hanno cose da dire, non c’è penna che tenga, che basti. La penna, da sola, anche se è buona per scrivere, non è capace di scrivere niente, se chi la usa non ha delle cose da scrivere.

E le cose da scrivere, quelle buone, quelle che ha un senso scriverle, nascono da una necessità interiore. Non certo dall’esibizionismo o dal narcisismo o dalla vanità, cioè dal desiderio di farsi ammirare o applaudire.

E la necessità interiore è figlia dell’amore, dell’amore per la vita, che genera gioia, desiderio di esprimere all’esterno ciò che si ha dentro, di condividere con gli altri la luce che si è accesa dentro di noi in un certo istante, in un certo luogo.

O è figlia del dolore, che non è contraddittorio affatto, come si potrebbe pensare, con l’amore per la vita. Si soffre, infatti, perché si ama molto la vita e magari essa non ci dà le cose che da essa ci aspetteremmo o desidereremmo.

Gioia e dolore sono, dunque, le due facce di un’unica medaglia. Da esse nasce il più delle volte l’impulso creativo. Quindi anche l’impulso a scrivere.

@ Giovanni Lamagna