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Socrate e Gesù: il loro rapporto con la natura.

Nel “Fedro” (230 C-D) Socrate così parla del suo rapporto con la natura: “Amo imparare: ma la campagna e gli alberi non sono disposti ad insegnarmi nulla, a differenza degli uomini in città”.

Vito Mancuso, nel suo “I quattro maestri” (Garzanti; 2020; pag. 458), ne deduce che “Per Socrate la natura era muta, senza insegnamenti…”.

Per parte mia dico che, in questo caso, Socrate si sbagliava e di grosso: la natura non è affatto muta e può dare grandi insegnamenti; molti suoi fenomeni, infatti, possono essere considerati metafore della nostra vita di uomini.

E farci, quindi, comprendere, per associazione di idee, fenomeni che avvengono dentro di noi, dentro la nostra anima o psiche, comunque la si voglia chiamare.

Come ci ha insegnato Gesù, che nelle sue parabole faceva spesso riferimento ad aspetti della natura (“se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.” Giovanni 12; 24; “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano.” Matteo 6; 26-28).

Lo stesso Gesù che piuttosto frequentemente si allontanava dagli uomini che frequentava abitualmente, perfino dagli amici più intimi, e si ritirava in solitudine, in luoghi solitari (un orto, una collina, la riva del lago, perfino il deserto…) per raccogliersi in meditazione e preghiera: segno anche questo del rapporto molto profondo, intenso, privilegiato che aveva con la natura.

Questi differenti atteggiamenti ci dicono della profonda diversità umana di questi due maestri.

Socrate era il classico intellettuale (diremmo oggi), un filosofo che fondava la sua ricerca soprattutto sull’utilizzo della ragione, anche se faceva di questa un uso sapiente, cioè sapido, esperienziale, diremmo oggi esistenziale, e non semplicemente intellettualistico.

Gesù era, invece, piuttosto un mistico, che faceva della contemplazione (e, quindi, anche del rapporto con la natura, luogo privilegiato della sua preghiera) una pratica quotidiana, anzi il centro, il “porro unum” della sua vita; come lo definì in un famoso episodio del Vangelo.

Anche se poi amava pure lui (ed in questo era affine al maestro ateniese) la frequentazione dei luoghi pubblici.

Nei quali il primo, Socrate, amava dialogare con gli uomini coi quali veniva in contatto, evitando di trasmettere direttamente o dall’alto il suo insegnamento, bensì facendolo scaturire indirettamente (in forma diceva lui maieutica) da questo dialogo.

Il secondo, Gesù, a volte intratteneva anche lui un dialogo con coloro che erano venuti ad ascoltarlo.

Ma più spesso dispensava il suo insegnamento sotto forma di predicazione, traducendo in parole pubbliche quelle che erano state evidentemente le intuizioni da lui raccolte nei frequenti e a volte prolungati momenti di solitudine e di contemplazione.

© Giovanni Lamagna

Che cosa intendiamo con la parola “essere”?

In “Introduzione alla metafisica” (1935; ed. 1953) Martin Heidegger si chiede:

Che cosa intendiamo con la parola essere, l’essere? Tentare di rispondere significa trovarci subito in imbarazzo. E’ un voler cogliere l’inafferrabile. Con tutto ciò, noi siamo continuamente attratti dall’ente, inseriti in esso, portati a considerare noi stessi come degli enti. L’essere, per ora, non è per noi che un semplice vocabolo, un termine frusto. Se non altro, bisogna che cerchiamo almeno d’impadronirci di quest’ultimo resto rimasto in nostro possesso. Chiediamo pertanto: che ne è della parola essere?

A queste domande io ho una sola risposta: il piano degli enti (ontico) non può essere indubbiamente confuso con quello dell’essere (ontologico); e su questo sarebbe stato certamente d’accordo anche Heidegger, che ha fatto più volte questa distinzione, anzi è partito proprio da essa per avviare la sua ricerca attorno all’Essere.

Il motivo per cui non li confondo io è però diverso da quello per il quale – a me pare – li distingue Heidegger.

Per me non vanno confusi perché gli enti si situano nel mondo reale, della materialità, di ciò che è percepibile con i sensi: il piano dei fenomeni; l’essere, invece, si situa sul piano delle categorie astratte del pensiero, è una categoria puramente logica, gnoseologica: è il “quid” che accomuna astrattamente gli enti.

Da questo punto di vista, è vero – ed in questo concordo con Heidegger – che l’essere è “l’inafferrabile”, si potrebbe anche dire l’innominabile; è ciò che Kant aveva definito col termine “noumeno”, cioè un’essenza pensabile ma non percepibile coi sensi.

Ed è quindi naturale, direi ovvio, che noi siamo attratti innanzitutto dagli enti, coi quali la nostra vita concreta, la nostra esistenza, il nostro “esserci nel mondo” – a voler usare un’espressione inventata proprio da Heidegger – fa i conti tutti i giorni, anzi momento per momento.

Ed è vero pure che l’essere si riduce, dunque, ad essere un vocabolo: un vocabolo che esprime una realtà astratta, concettuale, non materiale, e, quindi, inafferrabile, di cui si può dire ben poco, anzi niente.

Per cui reputo del tutto velleitario il tentativo di Heidegger di volersi impadronire di questo vocabolo e di volersi cimentare con la domanda “cosa ne è di esso”?

Ritengo molto più realistica (e quindi saggia) la celebre affermazione di Wittgstein, “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, l’ultima delle sette proposizioni principali del suo “Tractatus logico-philosophicus”.

E’ questo nichilismo, come sembra dedurne Heidegger, quando scrive, sempre in “Introduzione alla metafisica”: “Nella dimenticanza dell’essere, promuovere solo l’ente, questo è nichilismo”?

Io non sono d’accordo con una tale conclusione. L’esito nichilista non è per me affatto scontato, né sul piano della filosofia teoretica, né su quello della filosofia morale.

Non è scontato sul piano della filosofia teoretica, perché qui non si tratta di negare e manco di dimenticare l’essere; si tratta semplicemente, come aveva già fatto Kant con mirabile chiarezza, di riconoscergli il ruolo che gli spetta, né di più né di meno: l’essere è solo un concetto, quindi è pensabile, se ne può addirittura ipotizzare l’esistenza come realtà assoluta, la cosiddetta “realtà in sé”, ma non può essere da noi investigato e conosciuto come si investigano e conoscono le altre realtà esistenti, dal momento che il nostro pensiero non può prescindere (e su questo Kant per me ha detto parole definitive) dalle categorie di “spazio” e “tempo”, che non possono essere applicate ad una “realtà” che si ipotizza “ essere” fuori del tempo e dello spazio.

Non è scontato sul piano della filosofia morale, perché la negazione (almeno sul piano della dimostrabilità teoretica) dell’orizzonte metafisico non comporta agli occhi dell’uomo né l’automatica “morte di Dio”, come aveva sostenuto Nietzsche, (chi crede in Dio non lo fa come esito di un processo conoscitivo, ma in base ad un atto di fede, quindi di “grazia ricevuta”; almeno lui così la vive e la racconta), né comporta, tantomeno, l’assoluto relativismo morale (“Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”), come Dostoevskij fa dire ad Ivan Karamazov; perché le regole morali che l’uomo si dà sono sempre il frutto di una sua scelta libera, autonoma e non di una imposizione calata dall’alto; anche quando le facesse derivare dalla volontà di un Dio.

© Giovanni Lamagna

Nietzsche e Kant

Nietzsche porta alle estreme conseguenze “la critica della ragion pura” di Kant.

Kant sosteneva che a noi è dato conoscere solo i fenomeni che nascondono la cosa in sé, che resta a noi sconosciuta e inconoscibile.

Nietzsche afferma che non esiste alcuna “cosa in sé”, situata in un aldilà oltre le apparenze.

L’unica realtà esistente è quella nella quale ci troviamo a vivere qui ed ora.

© Giovanni Lamagna

Esiste la natura umana?

Esiste un’essenza umana rintracciabile in ciascun uomo e tale che possa essere definita “la natura umana”?

A questa domanda Sartre risponde di no. A suo avviso non esiste un’essenza umana comune a tutti. Esiste, invece, una condizione umana universale comune a tutti, che però “non è data” una volta per tutte”, ma è in perpetua, continua “costruzione”, evoluzione.

Io, francamente, penso che dietro questo ragionamento ci sia (non voglio dire “solo”, dico però “soprattutto”) un gioco di parole.

Per me la nozione di “condizione umana universale” equivale in buona sostanza a quella di “essenza” e di “natura umana”.

Se poi Sartre ha inteso distinguere i due concetti, solo perché quello di “essenza” e quello di “natura” lasciano pensare ad un’ipostasi ferma e immutabile, talmente universale, generale ed astratta da annullare le differenze tra i fenomeni concreti che ad essa fanno riferimento, allora capisco il senso della sua negazione.

Ma questo non mi porta a dire che non esiste una “natura umana” o, meglio, che non se ne possa sostenere il concetto.

Per me, dunque, si può parlare di “natura umana”. Nel senso che, al di là delle differenze che sussistono tra i vari e singoli esseri umani, esiste un quid , cioè delle costanti, un denominatore comune (“un essenza”, appunto!) che accomuna tutti gli uomini. Se non fosse così, Sartre non potrebbe neanche parlare dell’esistenza di una “universale” condizione umana.

Ovviamente anche io penso (ed in questo sono assolutamente d’accordo con Sartre) che la cosiddetta “natura umana” non possa e non debba essere considerata come un’ipostasi assolutamente statica e immutabile, nello spazio e nel tempo. Come, invece, (forse o senza forse) è stata considerata in passato, almeno fino agli inizi dell’Età moderna, dalla gran parte dei filosofi premoderni.

Io credo (al contrario di quello che pensa Sartre) che noi possiamo considerare ed ammettere l’esistenza di un nucleo originario o almeno potenziale (l’essenza) della natura umana, cioè di ciò che accomuna tutti gli uomini, sotto tutte le latitudini, e di ciò che li ha accomunati in passato, in tutte le epoche storiche.

Ma dobbiamo riconoscere (e in questo concordo con Sartre) che questo nucleo “essenziale” assume poi vesti e forme diverse a seconda dei contesti antropologico-culturali, a seconda dei luoghi geografici (tribù, popoli, nazioni…) e delle diverse epoche storiche.

E’, insomma, un’essenza in divenire, in continua evoluzione, non statica e immutabile, come forse una certa filosofia del passato e, soprattutto, una certa morale l’avevano intesa, identificando il particolare con l’universale.

Per dirla tutta e fuori dai denti, identificando la cultura occidentale (o, addirittura, la cultura di determinati popoli occidentali egemoni in una certa fase storica) con l’essenza stessa della cosiddetta “natura umana”.

A voler parafrasare un filosofo spagnolo del secolo scorso, Xavier Zubiri, il quale sosteneva che “noi siamo sempre noi stessi, ma non sempre gli stessi”, potrei concludere questa mia riflessione con la seguente affermazione: l’Umanità è sempre se stessa, ma non è sempre la stessa sotto tutte le latitudini, in tutte le epoche storiche e nei diversi individui che la compongono.

© Giovanni Lamagna