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Solitudine,isolamento, compagnia.

Io sto bene da solo; anzi, in certi momenti, preferisco più stare da solo che in compagnia.

Ma non sono certo contento quando la solitudine diventa troppo prolungata.

Quando cioè la solitudine corre il rischio di trasformarsi in isolamento, che è altra cosa dalla solitudine.

La solitudine, infatti, si sceglie; l’isolamento si subisce.

Dopo un po’ che sono stato da solo (e, magari, ci sono stato pure bene) è inevitabile che anch’io cerchi compagnia.

Naturalmente una buona compagnia, non una qualsiasi compagnia.

Morale della “favola” (almeno per me): la solitudine fa bene entro certi limiti, fa male quando supera certi limiti.

Ovviamente i limiti di cui parlo qui sono del tutto soggettivi.

© Giovanni Lamagna

L’Io e la Legge (o legge).

L’Io che aspira a godere senza limiti è destinato a dissolversi, a frantumarsi.

La legge (non la Legge del Super-io, imposta dalla società, ma la legge che l’Io stesso si dà, la legge fondata sul principio freudiano di realtà) ha proprio questa funzione.

Di garantire i confini dell’Io, il suo contenimento, la sua tenuta.

Un Io senza i limiti, che gli impone non tanto la società, ma il principio stesso di realtà, si gonfia al punto tale che prima o poi scoppia, come la rana della famosa favola di Esopo.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Qualcosa di nuovo”.

Ieri sera al cineforum ho visto un film molto carino, “Qualcosa di nuovo” (2016), di Cristina Comencini, con due bravissime attrici, Paola Cortellesi e Micaela Ramazzotti, e un bravo (anche lui) giovanissimo attore, Eduardo Valdarnini. Soggetto e sceneggiatura di Cristina Comencini, Giulia Calenda e Paola Cortellesi.

Trattasi di una commedia leggera, allegra, ma niente affatto banale.

E’ la storia di due amiche, Maria (Micaela Ramazzotti) e Lucia (Paola Cortellesi), entrambe sulla quarantina, ma molto diverse, quasi opposte, tra di loro, tanto che l’una potrebbe costituire l’ombra (in senso junghiano) dell’altra e viceversa. Forse per questo sono tanto amiche, sin dai tempi del liceo.

La prima è mamma di due bambini, vive sola con i figli, che ogni tanto vanno a stare dal padre, ha un lavoro da impiegata, ma soprattutto è una donna (si direbbe) “facile”, che si concede cioè facilmente agli uomini, in cerca perenne di quello “giusto”.

Lucia è, invece, una donna cosiddetta tutta d’un pezzo, fa la cantante jazz, ha vissuto due traumi che l’hanno resa dura e scostante con gli uomini: è stata abbandonata dal marito, grande suonatore di sax, che l’aveva messa incinta; le è morto misteriosamente il figlio, appena nato, poche settimane dopo il parto.

In seguito a queste due esperienze molto dolorose, Lucia sembra aver messo una pietra tombale sul suo desiderio di viversi il rapporto con un uomo. E, infatti, sopporta a fatica (e perciò la critica continuamente) l’esuberanza dell’amica, che invece si concede facilmente al primo uomo che l’attizza.

Una sera, in un locale da ballo, Maria rimorchia un giovanissimo ragazzo, Luca (diciannovenne, ultimo anno di liceo), e, approfittando del fatto che i figli stanno con il padre, se lo porta a casa, dove trascorrono insieme una notte da sballo.

Al risveglio, Maria, mezza intontita, è convinta che il ragazzo se ne sia andato via. Quando arriva l’amica (avevano spesso l’abitudine di fare colazione assieme), che trova la casa in subbuglio e lo slip del ragazzo su un divano.

Lucia non si lascia sfuggire l’occasione di fare a Maria la solita maternale. Allora Maria, ancora in sottana, per sottrarsi ai rimproveri dell’amica, si mette in fretta e furia addosso un soprabito e scende a comprare al bar dei cornetti.

Nel frattempo in casa compare, ancora nudo, Luca (che era andato a dormire nella camera dei bambini, perché Maria russava), e trova Lucia in soggiorno: pensa che sia lei la donna con cui ha fatto bagordi tutta la notte; perciò tenta di abbracciarla e baciarla “di nuovo”, ma ne è respinto.

Quando Maria ritorna con i cornetti, entrambe si accorgono dell’equivoco in cui è caduto Luca, ma entrambe decidono di stare al gioco: Lucia per “salvare” l’amica, Maria per liberarsi del ragazzo.

Solo che, a questo punto, è il ragazzo che non ci sta. Il ragazzo si è preso una cotta per la donna con cui ha fatto quattro volte sesso in una sola notte: esperienza che evidentemente l’ha sconvolto.

E comincia a tallonare Lucia, che egli crede la donna con cui ha fatto l’amore e di cui si è innamorato. Allo stesso tempo vuole diventare amico di Maria, che, seguendo i consigli di Lucia, si castiga dal punto di vista sessuale e intrattiene col ragazzo (finalmente!) un rapporto del tutto platonico e intellettuale.

Lucia sulle prime resiste alle avance molto pressanti del ragazzo, ma ad un certo punto scatta in lei una pulsione da gran tempo sopita: allora si scioglie e si concede.

A questo punto i ruoli tra le due amiche si invertono completamente: Lucia è quella che fa continuamente sesso col ragazzo, senza più alcuna remora; Maria è quella con cui il ragazzo si confida, con la quale parla “soltanto”, specie di libri e di musica.

Questo gioco va avanti per un bel po’. Nel frattempo il ragazzo ha lasciato la giovane fidanzatina, tutta perfezione e senso del dovere, che voleva metterlo a squadra, un po’ come la madre autoritaria e perfezionista, che aveva cacciato il padre quando lui era ancora bambino, perché non lo riteneva alla sua altezza.

In questo modo, ciascuna delle due amiche scopre in sé la propria “ombra” e la porta alla luce, sviluppando la parte di sé potenziale e mai riconosciuta, oltre che mai coltivata.

Il ragazzo scopre nelle due donne, ciascuna con le sue caratteristiche così diverse, la madre che avrebbe voluto avere e, forse, anche il padre che gli è mancato.

Le donne scoprono nel ragazzino, che in pochi giorni cresce e matura così tanto (anche grazie a loro), una mascolinità diversa da quella che hanno fino ad allora conosciuto e che li ha messi sempre sulla difensiva (anche se in due maniere tra loro opposte) nei confronti degli uomini.

Il film è una favola, ovviamente. E come tutte le favole si conclude con un lieto fine, da “vissero tutti felici e contenti”. Ma, dietro la metafora favolistica, esprime contenuti, come dicevo all’inizio, niente affatto banali, che lo rendono molto gradevole.

Le interpretazioni della Ramazzotti e della Cortellesi, poi, già da sole meritano l’andata al cinema.

Giovanni Lamagna

Recensione del film “Les souvenirs”.

19 ottobre 2016

Recensione del film “Les souvenirs”.

Ieri pomeriggio al cineforum ho visto un bel film francese di quest’anno che mi ero perso. Titolo: “Les souvenirs”; Regia: Jean-Paul Rouve; Cast: Annie Coordy, Audrey Lamy, Chantal Lauby, Daniel Morin; Soggetto e sceneggiatura: Jean-Paul Rouve e David Foenkinos.

Perché è un bel film?

Innanzitutto perché è bella la storia, anche se molto semplice, potrei dire perfino banale.

E poi perché è una storia ben raccontata, con tenerezza e allo stesso tempo ironia, con leggerezza ma anche senso del dramma. Il dramma che c’è in ogni esistenza.

E’ la storia di tre generazioni presenti e interagenti nella stessa famiglia. Un ragazzo, Romain, dall’età non meglio precisata, ma ad occhio e croce più o meno ventenne. I suoi genitori, piuttosto attempati, vicini a (o che hanno superato, come nel caso del padre) la sessantina. E una nonna, ottantacinquenne, madre del padre del ragazzo.

Il film si apre con l’immagine di una sepoltura, quella del nonno di Romain, che arriva in ritardo al cimitero e tutto di corsa, trafelato. Ma in tempo per abbracciare la nonna, il cui sguardo triste al suo arrivo si apre in un sorriso radioso. Segno immediato e inequivocabile che tra la nonna e il nipote c’è un feeling particolare.

Il padre del ragazzo e figlio del defunto è, invece, una figura sbiadita: un appassito direttore di un ufficio delle poste che è da poco andato in pensione e vive quindi una forte crisi di identità e di adattamento, che si riverbera anche nel rapporto con la moglie, una matura ma ancora piacente insegnante, delusa dalla mediocrità del marito e dal triste tran tran del rapporto con lui.

La nonna di Romain, invece, nonostante l’età avanzata, è una signora ancora arzilla e amante della vita. Che abita una casa ridente come lei: piena di piante e di fiori. E reagisce alla morte del marito con energia e vitalità.

Ma dopo un po’ cade, mentre è da sola in casa, e viene ricoverata in ospedale. Per fortuna la caduta non ha conseguenze particolarmente gravi.

I suoi tre figli però (specialmente il papà di Romain, che nonostante tutto è quello che se ne occupa di più e con maggiore senso di responsabilità) sono ugualmente preoccupati e decidono di metterla in una casa di riposo.

Sulle prime la signora ci rimane male. Forse si aspettava un trattamento diverso da parte dei figli. Poi si rassegna al suo destino e si fa accompagnare presso la sua nuova residenza: tristissima e squallida, come tutte le case per anziani e vecchi.

I figli non sembrano particolarmente compresi del dolore della mamma. Forse le loro uniche preoccupazioni erano quelle di non doversene occupare in prima persona e allo stesso tempo quella di sentirsi rassicurati che la mamma fosse adeguatamente assistita ed eventualmente curata in caso di bisogno.

Ovviamente (conoscendo il suo carattere) la signora non si adatta alla nuova situazione. E un giorno scappa dalla casa di riposo.

A questo punto tragedie da parte del padre di Romain, che si sente sommerso dai sensi di colpa e piange come un bambino cercando conforto nel figlio, quasi in una inversione dei ruoli.

Centrale diventa qui il ruolo di quest’uomo, che vive in contemporanea tre crisi esistenziali: quella legata al suo nuovo stato di pensionato, quella legata al rapporto con la moglie (la vera ragione d’essere della sua vita, che le confessa di essere innamorata di un altro uomo e di voler divorziare dal marito), quella infine legata al rapporto con la madre (che egli crede di aver “ucciso” con la decisione di ricoverarla nella casa di riposo).

Ma centrale diventa anche il ruolo del ragazzo, che si assume la responsabilità dell’intera famiglia e, dopo aver ricevuto una cartolina dalla nonna e aver quindi individuato il luogo dove la nonna era “scappata” (un paesino della Normandia), si mette sulla macchina del padre e va alla ricerca della vecchia signora.

La ritrova serena e quasi felice. Dice di essere venuta lì perché quello era il paese dove lei aveva vissuto per qualche anno, quando durante la guerra la sua famiglia era dovuta scappare da Parigi. Evidentemente il periodo più felice della sua vita!

Tra nipote e nonna in questo momento matura un’intesa e una complicità ancora più tenere e forti di quanto non fossero prima. Romain accompagna la nonna nella scuola elementare da lei frequentata ai tempi della guerra.

La vecchia signora tutta contenta si siede tra i banchi insieme ai bambini e si fa “istruire” come una scolaretta da una giovane maestra simpatica e carina.

Tra Romain e questa giovane maestra scatta un’attrazione immediata. I genitori di Romain ritrovano l’antico amore, grazie anche ad un’inattesa scenata di gelosia di lui nei confronti del presunto amante della moglie, che fa capire alla donna quanto il marito fosse ancora innamorato di lei.

Tutto sembra risolversi in un lieto fine, quando la nonna, proprio quando sta per tornare a Parigi, ha un colpo apoplettico, cade a terra e muore.

Il film si conclude così come si era aperto: con un funerale, quello della nonna di Romain. Chi corre per raggiungere il cimitero è però questa volta la giovane maestrina della Normandia, che è venuta non solo per partecipare al funerale, ma anche per dichiarare il suo amore al ragazzo.

Il film è bello, come lo sanno essere solo certe favole, perché racconta in modo credibile non solo le debolezze e le defaillances delle relazioni umane, ma anche le loro incredibili e importantissime risorse. E in un contesto insolito: quello dei rapporti intergenerazionali.

Laddove oggi tra generazioni ci sono fratture che sembrano incolmabili, il film ci fa credere (forse sognare) che queste fratture non sono fatali, impossibili e incomponibili. Che forse tra genitori e figli ci può essere lo stesso amore che si manifesta tra Romain e i suoi genitori e perfino tra il papà di Romain e sua mamma.

E che addirittura tra nonni e nipoti può realizzarsi un legame non formale, ma profondo, intenso, tenero, ricco di comunicazione e di amore. Anche nell’epoca del postmoderno.

Lo so che questo discorso può apparire irrealistico, retorico, forse addirittura melenso. Ma io contesto l’ironia cinica che di solito accompagna questi discorsi. Perché credo che per tornare a vivere certe esperienze occorre innanzitutto che le crediamo ancora possibili. E le storie che vengono raccontate in film come questo alimentano questa speranza. Anche se sotto forma di sogno.

Chi non sogna non è vero che non sogna. Semplicemente rimuove i sogni, li dimentica subito appena si sveglia. Forse perché è diventato troppo cinico. Ben vengano allora i sogni, se servono a svelenire questo nostro cinismo!

Giovanni Lamagna

Recensione del film “Non sposate le mie figlie”

30 novembre 2015

Recensione al film “Non sposate le mie figlie”.

Ho appena visto un delizioso film francese “Non sposate le mie figlie” (2015) del regista Philippe de Chauveron.

E’ la classica commedia brillante: leggera, allegra, solare, che affronta però una tematica oltremodo seria e oltretutto tremendamente (anzi, alla luce di quanto è successo negli ultimissimi giorni, tragicamente) attuale: quella della immigrazione e della integrazione tra razze e culture diverse.

Il film ha la capacità di affrontare questa tematica (con tutti i pregiudizi, i tabù e le difficoltà ad essa connessa, senza rimuoverne e sottovalutarne nessuno) col piglio della favola e dell’umorismo, a voler dimostrare come problemi drammatici possono (o potrebbero) trovare soluzioni in grado di far bene a tutti: autoctoni/indigeni ed eteroctoni/immigrati.

E’ la storia di una famiglia della provincia francese, che vive in un paesino distante qualche decina di chilometri da Parigi, menage benestante (il capofamiglia è un ricco notaio), una villa molto grande e con un giardino molto bello e lussureggiante, mentalità borghese, benpensante, cattolica, anche piuttosto tradizionalista. Quattro figlie nate a pochi anni di distanza l’una dall’altra e tutte più o meno in età da marito.

Questa situazione, fin troppo tranquilla e serena, viene ad un certo punto sconvolta: la prima figlia vuole sposare un mussulmano. I genitori, che non sono per nulla preparati né tantomeno predisposti ad assorbire un colpo del genere, devono fare, dopo molte riluttanze, buon viso a cattivo gioco e ad un certo punto si adattano alla nuova situazione.

Gli equilibri in famiglia sembrano assestati, quando la seconda figlia porta in casa un ebreo e vuole sposarlo. Di nuovo la pace familiare ne risulta sconvolta, ma di nuovo i due coniugi assorbono il colpo: accettano, più o meno di buon grado, anche questo secondo genero.

Senonché la terza figlia arriva a turbare nuovamente i fragili equilibri appena ritrovati: presenta ai genitori un fidanzato cinese. Anche questa volta il notaio e la moglie accettano la situazione dopo aver parecchio riluttato.

L’armonia familiare sembra finalmente raggiunta: sono nati nel frattempo dei nipotini, che diventano la gioia dei nonni; i tre generi che prima litigavano continuamente, anche per delle banalità, adesso sono molto affiatati, sono diventati più che amici, si trattano come dei fratelli.

Questa armonia trova il suo acme durante un Natale, quando i coniugi Verneuil, le loro figlie e i tre generi trascorrono una meravigliosa giornata con la signora Marie Verneuil che ha cucinato il tacchino in tre maniere diverse, quella araba, quella ebrea e quella cinese, per fare cosa gradita ai suoi “amati” generi. E la cosa riscuote un grande successo, perché durante il pranzo i tre giovani assaggiano l’uno il tacchino degli altri due e sono in grado di apprezzarlo come il proprio. Addirittura a mezzanotte si recano tutti insieme nella chiesa cattolica del paesino e partecipano con grande devozione alla messa di Natale.

Il film sembra volare quindi verso un lietissimo fine, senza altri colpi di scena, quando anche la quarta figlia si innamora. E questa volta (era ora!) il fidanzato è cattolico. Dà la notizia ai genitori e questi esultano: finalmente un matrimonio come lo avevano sempre desiderato, nella loro amata chiesina di paese (di cui sono assidui frequentatori) e non nel “freddo” Municipio, come avevano fatto le altre tre figlie!

Senonché la storia riserba ancora una sorpresa, che sembra far saltare l’ultimo lieto fine: e qui il racconto del film diventa esilarante, nella migliore tradizione della commedia brillante.

Ma pure questa volta i pregiudizi e i tabù vengono (anche se faticosamente) superati. Il matrimonio dei due giovani fidanzati dopo mille imprevisti e contrattempi riesce finalmente a celebrarsi ed è una vera festa della tolleranza, anzi della integrazione tra culture e razze diverse.

Un film che, per le problematiche affrontate e per il modo in cui le tratta, forse solo in Francia poteva essere realizzato.

Proprio la Francia che oggi, in questi giorni, è sconvolta dal terrore che a questa tolleranza e a questa integrazione (pur con tutti i suoi limiti e le sue deficienze) vorrebbe opporsi in nome del fanatismo culturale e religioso.

Giovanni Lamagna

Conclusioni (Genesi 2,7 – 3,24).

9 novembre 2014

Conclusioni (Genesi 2,7 – 3,24).

Sono giunto al termine del mio viaggio all’interno di Genesi 2,7 – 3,24. Tiro quindi qualche conclusione.

E’ del tutto evidente che il racconto biblico non è un racconto storico. Ma non è neanche una semplice favoletta. Rientra piuttosto nella categoria dei miti, cioè di quei racconti che, pur se sotto forma di “favola” (ci sono aspetti favolistici nel mito), tendono a dire cose che hanno a che fare con “i misteri del mondo, le sue origini, i suoi valori, il suo senso”, con la natura profonda dell’uomo, addirittura con i suoi archetipi, direbbero gli junghiani.

Come tutti i miti, quindi, esso non va preso alla lettera, ma interpretato. Anche alla luce della propria cultura, quindi al di fuori del contesto storico e/o geografico nel quale esso è nato ed è stato trascritto.

Quattro sono le figure principali che animano il mito di Genesi e due i contesti spaziali nei quali esse si muovono ed agiscono. Ogni figura interpreta un ruolo ed ha un significato. Anche i due contesti spaziali lo hanno.

Il primo attore del mito è Dio il Signore, che nel mito della Genesi, a mio avviso, rappresenta la Legge o, meglio, la cattiva coscienza dell’uomo, il Super Ego, la segnalazione del Limite, oltre il quale si corre il rischio della “caduta”, della perdizione e, quindi, della condanna.

Il secondo attore è il serpente, il quale, secondo la mia interpretazione, in questo mito rappresenta il Desiderio, che è il motore di ogni azione dell’uomo.

Rappresenta, quindi, secondo il linguaggio psicoanalitico, l’Es. Che, lasciato allo sbando, cioè senza il confronto con la Realtà e quello con la Legge, condanna l’uomo alla perdizione.

L’uomo, a mio avviso, si trova ad agire, a navigare sempre tra le opposte rive di Scilla, cioè della Legge, e di Cariddi, cioè del Desiderio.

Se rinuncia del tutto al Desiderio si condanna all’inazione e alla passività.

Se vive solo in funzione della Legge e della repressione del Desiderio, diventa triste, malinconico.

Se si abbandona del tutto al Desiderio, si condanna alla dissipazione e alla disintegrazione interiore.

Se ignora del tutto la Legge, non è in grado neanche di godere pienamente del desiderio, perché l’esistenza della Legge, lungi dal deprimere il desiderio, lo esalta.

Adamo, in questo mito, rappresenta l’Uomo ad uno stadio ancora “bambino”.

E non certo perché cede alla tentazione del suo desiderio. Non sarebbe stata, infatti, una scelta saggia obbedire a una Legge che lo voleva “felice” ma, al contempo, non libero e non consapevole. Quanto perché non sa assumersi la responsabilità dell’azione commessa. Addirittura la scarica sulla sua compagna Eva.

Adamo è dunque l’Uomo ancora bambino, che deve ancora crescere. E molto!

Eva dimostra maggiore maturità rispetto al compagno Adamo. Se non altro è più coraggiosa e intraprendente. Ma anche lei, di fronte alla voce della sua coscienza che la rimprovera, non sa assumersi fino in fondo la sua responsabilità e la scarica puerilmente sul serpente.

Anche Eva è dunque una donna ancora bambina, ha bisogno di crescere. E molto!

Entrambi, Adamo ed Eva, nel mito di Genesi rappresentano dunque l’Umanità nella fase, nello stadio che potremmo definire della fanciullezza. Ci vorranno ancora alcuni millenni perché l’Umanità arrivi allo stadio della sua piena maturità, impari cioè a riconoscere fino in fondo il proprio desiderio, ad affermarlo anche di fronte alla Legge, senza farsene del tutto inibire, ma senza neanche farsi del tutto travolgere da un desiderio senza Legge.

Oggi, forse, l’Umanità (almeno quella del mondo occidentale industrializzato evoluto) si trova nella fase della sua adolescenza, in una fase in cui ha imparato a riconoscere e ad affermare il suo Desiderio, ma prescindendo totalmente dalla Legge, come se questa non avesse più nessun senso e nessuna funzione.

I due contesti spaziali del mito a cui accennavo all’inizio sono quello dell’Eden, cioè del Paradiso in terra, e quello del Mondo alla sua alba, cioè alla preistoria dell’Umanità.

L’Eden, più che il Paradiso perduto, come vorrebbe farci intendere il Mito, è il Mondo come l’Umanità lo sogna, è l’Utopia, il Mondo come l’Uomo vorrebbe che fosse o diventasse. E’ il Mondo del futuro (auspicato e sognato) e non del passato (di cui si ha nostalgia e rimpianto).

Il Mondo della preistoria, il mondo nel quale l’Uomo è stato gettato a vivere quando è comparso sulla terra, è un luogo infame, inospitale, dove l’uomo è costretto a un duro lavoro per procurarsi il cibo e la donna è costretta alle doglie tremende (talvolta mortali) del parto per assicurare continuità alla specie.

Non è il luogo a cui l’Uomo è stato condannato dopo aver commesso una colpa, ma è il luogo a cui lo ha destinato la Natura, che proprio così lo ha pensato e creato.

Sarà l’Uomo, se vorrà e se ne sarà capace, (e nessun Dio al suo posto) a renderlo un posto meno inospitale e più a dimensione dei suoi desideri.

Ma, per realizzare il suo desiderio, l’Uomo ha bisogno di coltivare un sogno, anzi un’utopia. L’utopia che nel mito della Genesi è rappresentato dall’Eden, dal Paradiso Terrestre originario.

Mai esistito nella realtà, ma della cui Idea l’uomo ha bisogno per provare a costruirlo, per farlo diventare davvero realtà.

Giovanni Lamagna