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Morte di Dio e coscienza morale.

Non c’è dubbio che la “morte di Dio” nella coscienza collettiva della modernità e, ancora più, della contemporaneità abbia determinato uno scombussolamento nella sensibilità morale e nella stessa vita spirituale degli individui.

Reso molto bene dalle parole che Dostoevskij mette in bocca a Ivan Karamazov: “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”.

E, però, voglio sperare che prima o poi gli uomini prendano consapevolezza che l’agire senza freni morali, ovverossia per fini esclusivamente individuali ed egoistici, fa del male non solo agli altri, ma in fondo anche a sé stessi.

E che quindi recuperino il senso dei valori altruistici ed universali, che stanno alla base di tutte le tradizioni religiose del mondo e di qualsiasi epoca, anche in una visione non più religiosa ma del tutto laica della vita e della morale.

© Giovanni Lamagna

La morte di Dio e il potere dell’uomo.

La perdita della fede nell’esistenza di un Dio trascendente è, a mio avviso, l’esito necessario e inevitabile della constatazione dell’esistenza, dilagante e non certo marginale, del Male nel mondo, soprattutto nella forma del dolore; questo per chiunque abbia non dico una competenza filosofica all’altezza della contemporaneità, ma almeno un adeguato senso critico e non voglia vivere di alienanti illusioni.

Questo male e questo dolore radicali, che arrivano a colpire anche (e persino) gli innocenti, quindi del tutto ingiustificabili ed assolutamente senza senso, sono, infatti, incompatibili con la fede nell’esistenza non solo di un Dio buono e misericordioso (come quello che Gesù chiamava “Padre”), ma anche di un Dio giusto per quanto severo, l’unico Dio in cui avrebbe ancora un senso credere.

E, tuttavia, questa perdita della fede nell’esistenza di un Dio trascendente non può, non deve comportare come conseguenza (altrettanto necessaria e inevitabile) la presunzione da parte dell’uomo che allora tutto è per lui possibile, che tutto gli è consentito, come ipotizzava un personaggio di Dostoevskij in un famoso passaggio de “I fratelli Karamazov”.

O che l’uomo potrà/dovrà addirittura prendere il posto del Dio onnipotente oramai decaduto, come (con esiti – non a caso – devastanti per la sua salute mentale) arrivò a preconizzare Friedrich Nietzsche, il filosofo del Superuomo o dell’Oltre-uomo.

Sarebbe questo non solo il peccato più grande che l’uomo possa commettere; come dice Recalcati, “il solo peccato che nel testo biblico conta, quello della deificazione dell’uomo, di nutrire il desiderio di essere come Dio, di farsi Dio” (da “La legge della parola”; 2022; p. 240); ma sarebbe soprattutto causa della sua perdizione fatale.

Un uomo che, una volta morto Dio, si considerasse assolutamente libero e padrone onnipotente del proprio destino, dio al posto del Dio morto o definitivamente decaduto, sarebbe destinato a perdersi, a dissiparsi, a frantumarsi, a dissolversi, a schiantarsi prima o poi contro il muro della sua presunzione.

Pe cui l’uomo, almeno a mio avviso, anche dopo la morte di Dio, non può fare a meno di accogliere ed accettare l’intrinseca necessità che lo limita, ovverossia l’esistenza dell’Altro, che non sarà più un Dio che gli si impone dall’esterno e lo domina, ma un dio (gli antichi Greci lo avrebbero definito un “daimon”, un demone) che lo abita dentro, che vive nel suo foro interiore.

In questo dovrà consistere la sua nuova fede; sì, fede; non ho esitazione ad usare questo termine (“fede”), pienamente consapevole che esso ha a che fare con l’idea di “religione”; consapevole, dunque, che l’uomo avrà bisogno di aderire a una (per quanto radicalmente nuova) forma di religione (per quanto del tutto laica); se vorrà salvarsi.

Una religione il cui Dio non sarà totalmente, ontologicamente, metafisicamente, altro da sé, come lo era il Dio delle antiche religioni; ma sarà un dio che rappresenterà il vero Sé dell’uomo contemporaneo, la sua voce e il suo Maestro interiore.

Quindi, un dio guida, Ideale dell’Io, Alter-ego, che gli rappresenterà la Legge, che gli porrà certamente dei limiti, ma gli indicherà anche le sue potenzialità, un dio che gli si imporrà come necessità, ma gli rivelerà anche i suoi più profondi e intimi desideri.

Un dio che non sarà certo in grado di cancellare dall’animo umano lo sgomento, l’angoscia e, perfino, il terrore di fronte al Male e al dolore radicali presenti nel mondo, soprattutto di fronte al male estremo rappresentato dalla morte.

Ma sarà capace, però, di consentire all’uomo, che avrà l’umiltà di affidarglisi, di sperimentare (almeno di tanto in tanto) lo stupore, il piacere, la gioia e (in alcuni momenti, che potremmo definire magici) perfino la felicità, di fronte allo splendore del mondo.

“Ormai solo un dio ci può salvare” è il titolo che la redazione del giornale tedesco “Der Spiegel” diede a un colloquio che si svolse tra Heidegger e due inviati del settimanale.

Non sono in grado di dire a quale Dio Heidegger pensasse quando pronunciò questa frase divenuta famosa; e forse nessuno è in grado di dirlo, data la strutturale e paradigmatica oscurità del pensiero complessivo del filosofo tedesco.

So solo dire quale dio – secondo il mio pensiero – potrà salvarci: è quello che ho provato a descrivere (non so fino a che punto riuscendovi con chiarezza) fin qui con questa mia riflessione.

© Giovanni Lamagna

Recensione del libro “Il profumo del tempo” di Byung – Chul Han.

Il libro di Byung – Chul Han “Il profumo del tempo” (editore Vita e Pensiero) è una interessante e utile meditazione su ciò che è diventato il tempo per l’uomo a partire dalla modernità fino alla nostra contemporaneità.

In modo particolare sull’accelerazione che esso ha via, via subito in maniera sempre più vistosa, anche per l’invenzione di macchine che hanno sostituito sempre più l’azione dell’uomo, rendendola sempre più veloce, fino a dettarne i tempi.

Fino a che, come è diventato manifesto ai nostri giorni, non è più l’uomo padrone del suo tempo, ma è il tempo che si impone all’uomo come suo padrone, che costringe l’uomo ad andare ai suoi ritmi sempre più vorticosi.

Questa velocizzazione del tempo va di pari passo con una perdita di senso e di valore: del tempo stesso, ma anche dell’intera esistenza e delle cose di cui l’uomo viene in possesso.

Qui Byung-Chul Han fa una interessante analisi, a partire dalla domanda: è l’accelerazione sfrenata del tempo che porta alla perdita di senso e valore o è questa seconda che causa la prima?

Per Byung-Chul Han è la perdita del senso dell’esistenza che innesca un processo di velocizzazione estrema, quasi che l’uomo, smarrito (di fronte alla scomparsa, anzi alla morte stessa di Dio) e senza ragioni assolute (nel senso di metafisiche) per vivere, volesse stordirsi, ubriacarsi per continuare a vivere.

Io credo che questa tesi sia francamente esagerata: penso piuttosto che l’un fattore provochi l’altro e viceversa e che entrambi si rafforzino a vicenda.

Lo smarrimento dell’uomo di fronte alla morte di Dio provoca la sua esigenza di ubriacatura e velocizzazione estrema dell’esistenza.

Ma questa, a sua volta, rende impossibile all’uomo, incapace di fermarsi e di “indugiare sulle cose” (per usare un’espressione di Byung-Chul Han), di trovare un senso nelle cose.

Nella sua riflessione/meditazione Byug-Chul Han incontra molti pensatori e si confronta con loro. In modo particolare Aristotele, Agostino, Gregorio Magno, Tommaso d’Aquino, Marx, Heidegger, Proust, Arendt, Bauman.

Particolarmente interessante trovo la polemica che egli sviluppa con Marx e la Arendt a proposito di vita attiva e vita contemplativa, di homo laborans e homo meditans.

Come sappiamo, la Arendt esalta la vita attiva rispetto alla vita contemplativa, così come Marx esaltò l’homo laborans in quanto creatore di se stesso.

Per contro Byung-Chul Han afferma la necessità di una vita contemplativa che si affianchi alla vita attiva (tesi a suo tempo già sostenuta da Gregorio Magno) e sia capace di darle senso e significato.

La frase che ne riassume il pensiero mi sembra la seguente: “La vita contemplativa senza azione è cieca. La vita activa senza contemplazione è vuota” (pag, 129)

A Marx Byung-Chul Han contesta l’unilateralità del suo concetto di liberazione del lavoratore. Pe Marx la liberazione del lavoratore sembra consistere essenzialmente (se non proprio esclusivamente) nella riappropriazione del prodotto del suo lavoro. E, quindi, nella sua emancipazione dallo sfruttamento del capitalista.

Per Byung-Chul Han la liberazione dell’homo laborans non può consistere solo in quello che sosteneva Marx. Perché il lavoratore, una volta liberatosi dal giogo capitalista, corre il rischio di diventare schiavo del suo stesso lavoro (oltre che del prodotto del suo lavoro, in quanto consumatore acritico).

Per Byun-Chul Han ci sarà vera e piena liberazione dell’homo laborans quando egli sarà capace di recuperare la dimensione della scholé (tempo libero, contrapposto all’a-scolia, cioè il tempo occupato dal lavoro)e del bios theoretikos di Aristotele; e quella dell’otium (contrapposto al negotium, cioè il  nec-otium) degli antichi romani.

Quando l’otium non sarà più inteso come una semplice pausa/riposo rispetto all’attività ritenuta anche da Marx fondamentale e centrale del lavoro (che detta anche i tempi dell’intera esistenza dell’uomo), ma sarà, anzi, l’attività principale, quella che lo rende propriamente uomo, in quanto tempo dedicato alla sua attività più specificamente umana: quella teorica, del pensiero, della contemplatio veritatis.

Giovanni Lamagna