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Il mio antidoto alla frenesia e al logorio della vita moderna.

Vedo, constato, che, in questa nostra epoca nella quale la velocità è diventata un valore principe, la grande maggioranza delle persone corre, si affanna, fa le cose senza un attimo di tregua, senza mai tirare il fiato.

Come presa da un ingranaggio al quale non riesce a sottrarsi, ma che anzi forse le piace perfino assecondare, in certi casi addirittura autolesionisticamente e, quindi, masochisticamente.

Io, invece, a differenza di questa maggioranza, amo stare il più possibile fermo, seduto, a pensare, a riflettere, a meditare, a contemplare, a connettermi con la parte di me più intima e nascosta, con il mio io profondo.

È questo il mio status fondamentale, stavo quasi per dire il mio lavoro odierno, specie da quando sono andato in pensione e non vado più a lavorare.

L’ho scelto e lo preferisco anche a costo di apparire (anzi, essere) un po’ lento, se non proprio passivo, nelle mie reazioni agli stimoli esterni o eccessivamente statico, inattivo.

E, forse, questo mio atteggiamento, ne sono consapevole, può indurre reazioni negative nei miei confronti da parte di alcuni, che possono giudicarlo persino indolente, pigro.

Eppure niente e nessuno riesce a smuovermi, a distogliermi da questa mia postura fondamentale.

Quasi mi fossi assegnato un compito: quello di andare contro corrente, di compensare con una loro aggiunta, un loro surplus, un loro eccesso, la carenza di lettura-meditazione-contemplazione, direi addirittura di anima, di spiritualità, che a me sembra caratterizzare il muoversi frenetico, in certi casi e momenti addirittura caotico e agitato, della maggior parte dei miei simili.

Cosa è, infatti, l’agire senza il necessario distacco e, quindi, senza una quota parte di pensiero, di riflessione, di meditazione, se non un inutile e a volte persino sciocco girare a vuoto?

Non che sia tale o che giudichi tale la maggior parte delle azioni degli uomini che mi circondano; non arrivo a pensare questo; anche se talvolta, anzi in molti casi – devo confessarlo – tale pensiero mi sfiora.

È che, forse, a mio giudizio, un po’ più di riflessione prima di agire, prima di tradurre un impulso istintivo o puramente emotivo in azione, non farebbe male; anzi!

È a questa carenza, a questa deficienza di consapevolezza, che ritengo voglia (lo ammetto: forse presuntuosamente), quasi per un istinto o per un riflesso condizionato uguale e contrario, sopperire il mio non-agire, il mio “stare fermo”.

Che, forse, per altri aspetti, non lo nego, arriva ad essere anch’esso negativo, per motivi opposti, soprattutto quando eccede, quando supera un certo livello.

Come se esso (forse mi illudo in questo) potesse essere il necessario o, quantomeno, utile bilanciamento di altri eccessi; quelli che vedo prevalere attorno a me.

© Giovanni Lamagna

Poliamore, responsabilità e contesto sociale.

Il problema principale che si pone nelle cosiddette “relazioni poliamorose” è quello della “mancanza di responsabilità”.

I poliamoristi vengono criticati severamente, da autorevoli psicologi e sociologi, oltre che dal senso comune, perché non si assumerebbero la responsabilità delle loro molteplici relazioni, che vivrebbero in modo assolutamente caotico, anarchico, quindi egocentrico e narcisistico.

La loro idea dell’amore sarebbe quella – a voler utilizzare un linguaggio lacaniano – di un “godimento senza limiti”, perciò, per sua natura, – direbbe Massimo Recalcati – “mortifero”.

Ora io dico: se una persona si comporta, invece, in maniera pienamente responsabile e trasparente verso tutte le persone con le quali entra in rapporti intimi plurimi, non vedo perché il “poliamore” dovrebbe costituire un problema per le relazioni umane.

Il problema diventa semmai quello di riconoscere, da parte della società, pari dignità sia alle relazioni mono-amorose-tradizionali sia a quelle poli-amorose alternative.

Costruendo poi un sistema istituzionale e organizzativo che non solo le riconosca sul piano formale e quindi anche giuridico, ma ne favorisca la gestione dal punto di vista dei singoli individui e da quello dei loro legami con l’intero corpo sociale.

Ciò che, tra l’altro, incentiverebbe l’assunzione delle proprie responsabilità da parte di coloro che propendono per questo tipo di relazioni, perché le farebbe emergere dalla irregolarità e, quindi, clandestinità, a cui esse il più delle volte sono costrette.

E, quindi, risolverebbe (o perlomeno, aiuterebbe a risolvere) la principale ragione delle critiche (non del tutto infondate) che di solito vengono mosse ai poli-amorosi.

© Giovanni Lamagna