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L’amore che immagino e desidero

Bisogna abituarsi a un nuovo modo di intendere l’amore.

O, meglio, quello che i più chiamano amore.

Bisogna andare oltre il concetto dell’amore romantico,

dell’amore passione,

dell’amore esclusivo e monogamico.

Questo tipo di amore dura poco,

è destinato per sua natura a durare poco.

Passati i primi fuochi

e le prime fiamme

prima si assopisce

e poi si spegne del tutto.

Diventa compagnia, affetto, cameratismo,

ma non è più l’amore passione

che era agli inizi.

Bisogna allora scegliere:

cosa voglio dall’amore?

Il rifugio, il rimedio alla solitudine,

il mutuo aiuto?

O voglio anche altro?

Voglio che la passione rimanga viva,

che il fuoco degli inizi

non si spenga col tempo?

Se faccio questa seconda scelta,

allora devo rinunciare all’idea di amore romantico,

esclusivo, possessivo,

due cuori e una capanna.

Devo optare per l’amore-amicizia.

Amore che non esclude altri amori,

che anzi si rinnova di continuo

grazie ad altri amori.

L’amore che non divinizza l’altro/a,

ma è in grado di cogliere in ogni altro

il frutto buono,

il fiore bello,

la qualità,

la dote unica ed esclusiva,

il pregio.

L’amore che non è possesso,

che non è geloso

e non è invidioso.

L’amore che sa sopportare la presenza di altri amori,

che li mette in conto,

perché sa di non essere onnipotente,

di non poter essere il tutto per l’altro,

che sa avere l’umiltà

e la pazienza di aspettare,

perché sa, è consapevole

che la presenza di un altro, nuovo amore

non significa la morte dell’amore vecchio,

l’amore di prima,

ma solo un altro amore

e che gli amori non sono incompatibili,

ma addirittura possono rafforzarsi a vicenda,

se diventano amicizie,

fratellanze, sorellanze.

Il giorno in cui l’amore sarà vissuto così

sarà un bel giorno per l’umanità,

sarà l’alba di una nuova Umanità,

più dolce,

più serena,

più aperta,

più tollerante,

più solidale,

più buona,

più intelligente,

più bella,

più tutto,

in altre parole più umana

© Giovanni Lamagna

Pulsioni libidiche e perversioni incestuose.

Accade talvolta che la nostra libido anziché orientarsi nella direzione che sarebbe per lei più naturale (cioè verso un partner che ci piace, che ci attira, diciamo pure che ci attizza, verso il quale cioè proviamo un forte desiderio sessuale), vada in tutt’altra direzione, si allontani dall’oggetto che l’ha provocata, eccitata.

In alcuni casi perché rimane fissata ad una figura genitoriale (poco importa se del nostro stesso sesso o del sesso opposto) o addirittura a entrambe le figure genitoriali.

In tali casi la nostra libido rimane psicologicamente (e diciamo pure patologicamente) bloccata in una specie di rapporto incestuoso, incapace di staccare il cordone ombelicale simbolico, che ancora ci tiene emotivamente legati ad uno dei nostri genitori o a entrambi per tutta l’infanzia e la fanciullezza.

Cordone che solitamente le persone (cosiddette) normali tagliano definitivamente al termine della loro adolescenza, quando prendono la “loro” strada per conquistare la (più o meno) piena libertà di esseri adulti: condizione prima per poter instaurare un nuovo rapporto amoroso, maturo, appunto adulto.

In altri casi può succedere che, dopo aver tagliato il cordone ombelicale simbolico, dopo aver costruito la nostra vita autonoma con un legame stabile di coppia, nel momento in cui arriva un figlio o dei figli, la nostra vita psicologica (soprattutto la sua dimensione libidica) subisca una specie di regressione.

E che la nostra pulsione libidica si sposti dall’oggetto partner all’oggetto figlio/a o figli. In questi casi il legame col nostro partner perde più o meno progressivamente (a volte addirittura improvvisamente) interesse, soprattutto l’interesse sessuale, e si sposta più o meno significativamente sul figlio/a o sui figli.

L’erotismo in questi casi acquista nuove forme, del tutto mascherate e metaforiche. Anche qui viene a crearsi una specie di legame incestuoso, dal quale il/i figlio/a/i faticherà/anno molto a liberarsi e forse (in alcune situazioni purtroppo accade anche questo) non si libererà/anno mai.

In tali casi può succedere che entrambi i coniugi siano collusi, che entrambi desiderino rinunciare all’investimento libidico reciproco che li aveva portati a incontrarsi prima e ad unirsi poi in coppia.

Il loro rapporto in questo caso procederà (apparentemente) tranquillo, perché nessuno di loro farà all’altro richieste divergenti (e “imbarazzanti”).

In realtà il rapporto ristagnerà e prima o poi si esaurirà, almeno dal punto di vista libidico. Diventerà cioè un rapporto di puro cameratismo e mutuo aiuto: insomma altro da ciò per cui era nato.

E’ del tutto ovvio che una tale evoluzione (o, per essere più esatti, involuzione) del rapporto porta alla luce, rende manifesta, una seria difficoltà di entrambi i coniugi (sussistente già ab origine) nei confronti della sessualità, un rapporto mai risolto, quindi non sereno e meno che mai felice con il sesso.

Il prevalere di un’istanza censoria e superegoica, probabilmente mascherata nelle prime fasi del rapporto, quando essa era sopraffatta dalla tempesta ormonale e le istanze sociali invitavano, spingevano decisamente nella direzione dell’accoppiamento sessuale.

Quando cioè – avrebbe detto Schopenhauer – l’istinto innato alla procreazione rendeva i due partner semplici funzionari della perpetuazione della specie, spingendoli all’accoppiamento sessuale e al superamento delle loro più o meno forti resistenze e paure nei confronti del sesso.

In altri casi succede che uno dei due partner si “salvi” da questa involuzione libidica, che non riversi cioè incestuosamente le sue pulsioni libidiche sui figli, che ricerchi ancora l’altro/a così come avveniva nei primi tempi del loro rapporto, che conservi cioè più o meno intatta la sua spinta sessuale iniziale.

Questo pone dei problemi al compagno/a, che – paradossalmente – se ne sente infastidito, che non vorrebbe essere messo in crisi nei nuovi equilibri emotivi ed erotici raggiunti. E però talvolta prova, magari con grande sforzo e fatica, a mettere in discussione se stesso/a per venire incontro alle richieste del/la partner.

O perché le richieste di questo/a si fanno pressanti, insistenti, fino in alcuni casi ad arrivare all’estremo limite di minacciare la rottura del rapporto: quindi per la paura di subire un allontanamento, una separazione più o meno reali, cioè fisici, in ogni caso emotivi, del partner.

O per un sentimento di reale e sincera empatia nei confronti del partner, col quale vorrebbe provare e trovare (l’antica) sintonia ed evitare o ridurre il più possibile il sopraggiunto conflitto.

Anche in questi casi, però, succede piuttosto spesso che il partner riottoso viva i suoi tentativi di riavvicinamento e riconciliazione con il/la compagno/a in maniera ambivalente.

Da una parte è mosso/a da un sincero sentimento di recupero del primitivo rapporto.

Dall’altra è bloccato e tirato in direzione opposta dai sensi di colpa nei confronti del/i figli/o, ai quali si è oramai legato /a in un rapporto di natura pseudo-incestuosa, che mal sopporta “rivalità”.

Il risultato è che il tentativo di ritrovare (ammesso che ci sia mai stata) l’antica passione e il primitivo desiderio abortisce sul nascere, perché privo di quella gioia autentica e di quell’entusiasmo spontaneo che dovrebbe caratterizzare una gratificante relazione sessuale.

E’ un tentativo, insomma, mosso più dalla ragione o dalle richieste esterne (più o meno esplicite) che da reali e spontanee forze pulsionali.

Perché alle residue pulsioni libidiche di natura sessuale (di tanto in tanto magari ancora sperimentate) si oppongono pulsioni (che io non esito a definire anch’esse libidiche, per quanto stravolte nella loro natura sessuale) che vanno in direzione uguale e contraria.

Per cui le prime risultano totalmente inquinate e intossicate. E quindi vengono vissute male, risultando perciò del tutto insoddisfacenti, frustranti e, per conseguenza, incapaci di determinare una significativa inversione di rotta nella dinamica relazionale venutasi a determinare gradualmente nel tempo e, ad un certo momento, consolidatasi.

© Giovanni Lamagna

Sulla seconda serie televisiva de “L’amica geniale”.

Lunedì sera si è concluso il secondo ciclo della serie televisiva “L’amica geniale”, tratta dall’omonimo romanzo in quattro volumi di Elena Ferrante. Qual è il mio giudizio?

Premesso che non ho (ancora) letto il romanzo, il mio giudizio sintetico e complessivo è che si è trattata di una bellissima opera-zione televisiva.

Sono rimasto inchiodato davanti al televisore, senza avere nessun calo di attenzione né colpo di sonno (ed io sono uno che la sera va a dormire presto), coinvolto nella trama narrativa, ma soprattutto dalle vicende esistenziali dei vari personaggi, soprattutto (come è ovvio) delle due protagoniste, Elena Greco e Lila Cerullo, interpretate (in questa seconda serie) magnificamente da due giovani attrici esordienti, Margherita Mazzucco e Gaia Girace.

Già questo fatto giustifica in larga misura il mio giudizio fortemente positivo: di solito quando una trasmissione non mi piace o non mi interessa molto, dopo un poco che la sto seguendo mi si chiudono gli occhi e la lascio perdere. Con “L’amica geniale” questo non è avvenuto in nessun momento di nessuna delle quattro puntate di questa seconda serie, come, del resto, non era avvenuto quando hanno trasmesso la prima. Segno inequivocabile che ha preso profondamente il mio cuore e la mia testa.

Espresso il mio giudizio sintetico, vorrei provare adesso ad articolarlo, motivarlo, scoprendo e manifestando le sue molteplici ragioni.

1.La prima ragione è che ho vissuto, pur nelle differenze notevoli, una grande e sostanziale identificazione.

Nella storia di queste ragazze e di questi ragazzi, ma in fondo anche in quella del quartiere Luzzatti in cui essa è ambientata, mi sono riconosciuto, come se fosse stata la mia.

Nel quartiere Luzzatti, che distava dal mio poco più di un chilometro, ho rivisto il quartiere nel quale sono nato (il quartiere Arenaccia).

Nei vari ragazzi e ragazze della storia (specie in quelle/i nate/i e vissute/i nel quartiere Luzzatti) ho rivisto me stesso bambino e adolescente, perché io avevo la loro stessa età in quegli anni (’50 e ’60). Come ho rivisto quelle dei miei amici, miei coetanei.

Ho rivisto la grande povertà di quegli anni, ma anche la grande dignità con la quale essa veniva vissuta dai più. Ho rivissuto il sentimento di amicizia, di cameratismo profondo, ma anche di semplice buon vicinato che ci legava un po’ tutti.

Ho rivisto anche gli episodi di violenza e di degrado, di cui (per mia fortuna) non sono mai stato protagonista diretto, ma che comunque sfioravano la mia vita, quella dei miei familiari e quella degli amici che frequentavo.

Qualcuno (a cominciare da mia moglie) ha avuto da ridire sulla rappresentazione così cruda ed esplicita di questa violenza e perfino sul ricorso ad un dialetto così stretto, così marcato, a tratti perfino smaccatamente e volutamente volgare.

Ma io non condivido per nulla tali rilievi. Credo, infatti, che la storia avrebbe perso forza (di realtà e di comunicazione), se non si fosse espressa anche nella forma del dialetto napoletano e della violenza esplicita e per nulla edulcorata.

Semmai mi fa meraviglia il fatto che una storia simile, così caratterizzata nel tempo e nello spazio (la Napoli degli anni ’50 e ’60, anzi di un quartiere particolarmente degradato di Napoli, non certo simile a quelli delle sue cartoline note in tutto il mondo) abbia potuto interessare, anzi appassionare, milioni di persone delle più varie parti del pianeta.

E, però, di fronte a questo dato di realtà, non posso non concluderne (e con me credo debbano farlo un poco tutti) che evidentemente le vicende de “L’amica geniale” avevano (ed hanno) un nucleo di verità essenziale di carattere universale, condivisibile e quindi comprensibile nei più vari contesti economici, sociali, culturali e, perfino, antropologici, al di là delle sue indubbie ed evidenti specificità.

  1. La seconda ragione del mio interesse così vivo e forte di fronte a questa serie televisiva sta nel fatto che essa racconta una storia di formazione. Che (come ho già detto prima) in gran parte ricalca la mia, ma che avrebbe avuto comunque per me un suo interesse intrinseco, anche se fosse stata molto diversa dalla mia.

I personaggi, che animano questo racconto (prima bambini, poi adolescenti, poi giovani adulti), sono, in fondo, un unico grande personaggio: le loro storie si intrecciano tra di loro, quasi come facce diverse di un unico prisma, l’una complementare alle altre.

Nel racconto c’è la storia di chi riesce a farcela, ad uscire dalla “prigione” di un’esistenza chiusa che poteva far preludere ad un destino segnato. E’ questa sostanzialmente la storia di Elena. E c’è quella di chi prova disperatamente a fare la stessa cosa, magari per vie diverse, ma non ce la fa. E’ la storia di Lila.

Ci sono poi le storie dei personaggi solo apparentemente secondari, alcuni dei quali affondano nel destino di miseria e degrado nel quale sono nati, altri cercano scorciatoie di riscatto sociale per le vie brevi della illegalità più o meno grave e marcata. I più si rassegnano ad una vita “banale” e del tutto conformata ai più.

Ne esce fuori un quadro perfetto e articolato delle vicende umane, nelle quali nessuno può dirsi totalmente estraneo agli altri, eppure ognuno/a è diverso/a dagli altri/e, spesso estremamente diverso/a, in certi casi (almeno apparentemente) opposto/a. E ciascuno di noi può riconoscere il suo “particolare” e ritrovarcisi.

  1. La terza ragione che ha motivato il mio forte interesse verso questa storia è da rintracciare nel modo in cui essa affronta la “questione femminile”. Intendiamoci: niente a che fare con le rivendicazioni del mondo femminile (o, meglio, di una parte di esso) per lo stato di soggezione e subalternità in cui è vissuta la donna per secoli, anzi per millenni, e ancora oggi in parte vive, soprattutto in certe zone del mondo.

Nel periodo storico in cui la vicenda de “L’amica geniale” è situata, queste rivendicazioni in fondo manco erano ancora cominciate. Iniziarono ad emergere solo verso la metà degli anni ‘60 e solo in certi contesti sociali che non erano certo quello del quartiere Luzzatti, in cui è stata ambientata la gran parte della vicenda del romanzo della Ferrante, almeno in questi primi otto capitoli della saga.

Allora cosa intendo qui per “questione femminile”? Intendo qualcosa che sovrasta la dimensione storica e geografico-spaziale. Ed ha a che fare piuttosto con la dimensione antropologica.

Sotto questo aspetto le donne hanno avuto da sempre un “potere”, che va ben al di là dei ruoli sociali, così fortemente codificati e stratificati nel tempo (e che non voglio, certo, qui disconoscere o minimizzare). Un ruolo che in fondo gli stessi uomini (dominatori e sfruttatori, chi più e chi meno) ben percepiscono e riconoscono, anche se solo ad un livello inconscio, subliminale.

E, di fronte al quale, forse in parte si spiega (anche se, ovviamente, non si giustifica per nulla) la loro violenza estrema, potremmo dire anche animalesca, bestiale, o (nel migliore dei casi) la loro invidia e la loro aggressività latenti.

Questa dimensione del “femminile” è – a mio avviso – resa in modo mirabile ne “L’amica geniale” E’, anzi, forse il fattore primo che ne spiega il fascino, mi verrebbe di dire per certi aspetti addirittura perverso.

Essa emerge in una molteplicità di situazioni e rapporti, in modi e tempi ossessivamente ricorrenti. Ma è evidenziata in particolare nel rapporto tra Lila e i fratelli Solara, prima, e poi nel rapporto tra Lila e il marito Stefano (interpretato da un magnifico Gennaro De Stefano).

Lila è oggetto di molteplici violenze (verbali e fisiche), eppure anche nelle situazioni più drammatiche di cui è vittima (in quanto femmina), emerge, è impossibile non riconoscerlo, il suo “potere di femmina”, che è forse proprio quello che scatena (intendiamoci – lo ripeto ancora una volta, a evitare facili equivoci – non la sto qui giustificando) la grande violenza che subisce.

Qui, per inciso, mi viene da dire che non saprei affermare con sicurezza e senza ombra di dubbio che Elena Ferrante è una “donna che scrive”. Per quanto mi riguarda potrebbe essere benissimo un “uomo che scrive”.

Un uomo, però, che riconosce in sé la sua “parte femminile” e, soprattutto, il potere che la donna (anzi la femmina) ha ed esercita su di sé, sul maschio, al di là dei ruoli sociali storicamente consolidatisi.

  1. Un ultima ragione di fascino che riconosco alla serie televisiva de “L’amica geniale” la rintraccio nel “rapporto/contrasto tra natura e cultura, istinto e ragione, perfino tra bestialità e umanità”, che del racconto mi sembra uno degli elementi (mi verrebbe di dire: dei protagonisti) principali.

E’ del tutto ovvio che questo rapporto/conflitto si evidenzia in tutta la sua forza nelle figure di Elena e Lila. Ma, forse, si manifesta anche in altre figure meno protagoniste e più secondarie.

Elena rappresenta il polo della riflessione, della calma, della ponderazione, del desiderio di emanciparsi culturalmente ancor prima che socialmente, fino ad apparire addirittura (e non è così) una creatura impalpabile e fredda.

Lila è il suo opposto: tutta fuoco, impulsività, istinto (al limite dell’autodistruttività), violenza, voglia di crescere in fretta, di uscire dagli schemi in cui l’ha messa l’ambiente in cui è cresciuta.

E, però, ciascuna delle due (anzi forse proprio per questo) riconosce nell’altra una parte di sé. L’una “invidia” all’altra e vorrebbe avere quello che lei non ha o ha sviluppato in maniera solo embrionale.

Questo è ciò che fa la forza del loro legame, come della maggior parte (dico io, sulla base della mia esperienza di vita) dei rapporti veramente importanti e significativi. Si allontanano più volte nel corso degli anni, come a prendere atto di una loro radicale inconciliabilità.

Ma poi sempre, in qualche modo e per le vie più traverse, si rincontrano e devono riconoscere che il loro legame ha, invece, una forza che va ben al di là delle loro profonde diversità. Come se una calamita le tenesse collegate anche nella (solo apparente) distanza.

Giovanni Lamagna