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La testimonianza del maestro.

Un insegnante non può trasmettere ai suoi allievi altro che la propria passione per lo studio, la riflessione, il senso critico; in altre parole per la cultura.

Il resto (le nozioni) sono quisquiglie, accessori, che gli allievi dimenticheranno ben presto e in gran parte.

Mentre la testimonianza del maestro rimarrà per sempre impressa nei loro animi.

© Giovanni Lamagna

La morte di Dio e il potere dell’uomo.

La perdita della fede nell’esistenza di un Dio trascendente è, a mio avviso, l’esito necessario e inevitabile della constatazione dell’esistenza, dilagante e non certo marginale, del Male nel mondo, soprattutto nella forma del dolore; questo per chiunque abbia non dico una competenza filosofica all’altezza della contemporaneità, ma almeno un adeguato senso critico e non voglia vivere di alienanti illusioni.

Questo male e questo dolore radicali, che arrivano a colpire anche (e persino) gli innocenti, quindi del tutto ingiustificabili ed assolutamente senza senso, sono, infatti, incompatibili con la fede nell’esistenza non solo di un Dio buono e misericordioso (come quello che Gesù chiamava “Padre”), ma anche di un Dio giusto per quanto severo, l’unico Dio in cui avrebbe ancora un senso credere.

E, tuttavia, questa perdita della fede nell’esistenza di un Dio trascendente non può, non deve comportare come conseguenza (altrettanto necessaria e inevitabile) la presunzione da parte dell’uomo che allora tutto è per lui possibile, che tutto gli è consentito, come ipotizzava un personaggio di Dostoevskij in un famoso passaggio de “I fratelli Karamazov”.

O che l’uomo potrà/dovrà addirittura prendere il posto del Dio onnipotente oramai decaduto, come (con esiti – non a caso – devastanti per la sua salute mentale) arrivò a preconizzare Friedrich Nietzsche, il filosofo del Superuomo o dell’Oltre-uomo.

Sarebbe questo non solo il peccato più grande che l’uomo possa commettere; come dice Recalcati, “il solo peccato che nel testo biblico conta, quello della deificazione dell’uomo, di nutrire il desiderio di essere come Dio, di farsi Dio” (da “La legge della parola”; 2022; p. 240); ma sarebbe soprattutto causa della sua perdizione fatale.

Un uomo che, una volta morto Dio, si considerasse assolutamente libero e padrone onnipotente del proprio destino, dio al posto del Dio morto o definitivamente decaduto, sarebbe destinato a perdersi, a dissiparsi, a frantumarsi, a dissolversi, a schiantarsi prima o poi contro il muro della sua presunzione.

Pe cui l’uomo, almeno a mio avviso, anche dopo la morte di Dio, non può fare a meno di accogliere ed accettare l’intrinseca necessità che lo limita, ovverossia l’esistenza dell’Altro, che non sarà più un Dio che gli si impone dall’esterno e lo domina, ma un dio (gli antichi Greci lo avrebbero definito un “daimon”, un demone) che lo abita dentro, che vive nel suo foro interiore.

In questo dovrà consistere la sua nuova fede; sì, fede; non ho esitazione ad usare questo termine (“fede”), pienamente consapevole che esso ha a che fare con l’idea di “religione”; consapevole, dunque, che l’uomo avrà bisogno di aderire a una (per quanto radicalmente nuova) forma di religione (per quanto del tutto laica); se vorrà salvarsi.

Una religione il cui Dio non sarà totalmente, ontologicamente, metafisicamente, altro da sé, come lo era il Dio delle antiche religioni; ma sarà un dio che rappresenterà il vero Sé dell’uomo contemporaneo, la sua voce e il suo Maestro interiore.

Quindi, un dio guida, Ideale dell’Io, Alter-ego, che gli rappresenterà la Legge, che gli porrà certamente dei limiti, ma gli indicherà anche le sue potenzialità, un dio che gli si imporrà come necessità, ma gli rivelerà anche i suoi più profondi e intimi desideri.

Un dio che non sarà certo in grado di cancellare dall’animo umano lo sgomento, l’angoscia e, perfino, il terrore di fronte al Male e al dolore radicali presenti nel mondo, soprattutto di fronte al male estremo rappresentato dalla morte.

Ma sarà capace, però, di consentire all’uomo, che avrà l’umiltà di affidarglisi, di sperimentare (almeno di tanto in tanto) lo stupore, il piacere, la gioia e (in alcuni momenti, che potremmo definire magici) perfino la felicità, di fronte allo splendore del mondo.

“Ormai solo un dio ci può salvare” è il titolo che la redazione del giornale tedesco “Der Spiegel” diede a un colloquio che si svolse tra Heidegger e due inviati del settimanale.

Non sono in grado di dire a quale Dio Heidegger pensasse quando pronunciò questa frase divenuta famosa; e forse nessuno è in grado di dirlo, data la strutturale e paradigmatica oscurità del pensiero complessivo del filosofo tedesco.

So solo dire quale dio – secondo il mio pensiero – potrà salvarci: è quello che ho provato a descrivere (non so fino a che punto riuscendovi con chiarezza) fin qui con questa mia riflessione.

© Giovanni Lamagna

Perché i più rinunciano a realizzare il loro potenziale.

3 aprile 2016

Perché i più rinunciano a realizzare il loro potenziale.

La psicologia umanistica e quella transpersonale sostengono (e, a mio avviso, con molta ragione) che la maggior parte delle persone realizza al massimo il 30% del proprio potenziale umano.

E questo perché preferisce “dormire” (in senso metaforico, ovviamente) o, nella migliore delle ipotesi, campare in uno stato di mezza veglia o mezzo sonno.

Che si manifesta in mille forme. Qui ne indico solo alcune, quelle che mi sembrano le più eclatanti e diffuse:

– una scarsa concentrazione e attenzione alla realtà (tanto è vero che almeno una parte degli incidenti – ad esempio, le cadute – di cui siamo vittima possono essere attribuiti a questo modo di vivere);

– una inclinazione a razionalizzare, a vivere in una dimensione prevalentemente o puramente mentale, intellettuale;

– una incapacità ad emozionarsi;

– all’opposto, una tendenza ad essere succubi delle emozioni, incapaci di controllarle e di gestirle;

– il ricorso alle droghe, da quelle più leggere a quelle più pesanti;

– il sottoutilizzo del proprio senso critico, l’accontentarsi di sposare idee prese in prestito dai mass media o, peggio, il ricorso agli stereotipi e ai luoghi comuni;

– lo scarso senso civico;

– il disinteresse a partecipare alla convivenza civile attraverso un impegno politico attivo.

Viene da chiedersi: perché? perché la maggior parte degli esseri umani propende a vivere così? (Dire “sceglie” di vivere così sarebbe un ossimoro, contraddittorio con la premessa da cui sono partito).

Perché propende a vivere così, dal momento che in questo modo si perde – con tutta evidenza – il meglio?

Un po’ come succederebbe a un viaggiatore che restasse per tutto il tempo del viaggio a dormire nell’albergo dove ha trovato alloggio o camminasse per le strade e i luoghi che andasse a visitare con gli occhi socchiusi, non del tutto aperti.

Ci deve essere una risposta a questa domanda. Che cosa spiega un tale atteggiamento?

L’unica risposta che riesco a trovare è che la realtà fa paura, vedere le cose come stanno provoca ansia e, in qualche caso, perfino angoscia.

Avere consapevolezza (per fare solo un esempio, quello più estremo) che la nostra vita, per quanto bella e soddisfacente, si concluderà inevitabilmente, prima o poi, con la morte, può ingenerare perfino terrore e, quindi, fuga da tale consapevolezza, rimozione di questo pensiero.

Inoltre stare sempre concentrati, vivere cioè pienamente l’attimo presente, comporta una fatica, uno sforzo, almeno all’inizio, quando non si è abituati a farlo.

Ecco allora che, per difendersi dalla paura, dall’ansia e dall’angoscia, per evitare lo sforzo dell’impegno e vincere la pigrizia, si preferisce campare in uno stato di incoscienza o di semi-coscienza, in una condizione di indolente torpore.

Ovviamente in questo modo ci si protegge (forse) dalla paura, dall’ansia e dall’angoscia (anche se queste poi spesso si manifestano in altre forme e per altre vie: insoddisfazione, noia, disgusto, nausea, mancanza di empatia, incapacità di entrare in relazione profonda con gli altri, apatia, rinuncia all’eros, astenia o, perfino, impotenza sessuale, depressione più o meno profonda).

Allo stesso modo si evitano sforzi e fatiche (anche se, poi, paradossalmente spesso si è stanchi lo stesso).

Ma, nello stesso momento e in pari grado, ci si impedisce di godere appieno di tutte le cose belle della vita o, meglio, delle cose migliori della vita.

Che richiedono, per essere apprezzate, lo sguardo vigile, l’orecchio attento, la mente sveglia, l’animo aperto, un impegno attivo e costante, anche se faticoso.

Giovanni Lamagna