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A quale futuro stiamo andando incontro?

Stamattina leggevo una pagina del libro di Aniela Jaffé “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), anticipata dall’inserto “Robinson”, uscito con “la Repubblica” del 27 maggio 2023, pagina nella quale veniva in grande evidenza l’importanza che ha avuto il Buddhismo per il grande pensatore svizzero.

Ad un certo punto Jung afferma: “A volte mi sono chiesto se non sono la reincarnazione di un indiano. Se così fosse, sarei stato di certo un buddhista.”

E mi è venuto spontaneo pensare all’India e poi alla Cina attuali e mi sono chiesto: quanto di Buddhismo sopravvive oggi, a pochi decenni di distanza da quando Jung fece questa affermazione, in questi due paesi, dove il Buddhismo 2500 anni fa nacque, si sviluppò e prosperò?

Ho l’impressione – da quanto ne so – che ne sopravvive ben poco e, forse, temo, ne sopravvivrà sempre meno in futuro, travolto dallo sviluppo tecnologico, industriale e postindustriale, che ha oramai preso piede anche in quei due paesi, che tendono sempre più ad assomigliare, almeno da questo punto di vista, alle società occidentali.

Si sta verificando insomma, anche in India e Cina, ciò che si è verificato già da quasi due secoli in Occidente: un progressivo ma sempre più impetuoso rinnegamento delle antiche tradizioni spirituali su cui Oriente ed Occidente si erano fondati e retti per più di due millenni.

In India sta tramontando il Buddhismo e credo che prima o poi tramonterà anche l’Induismo; in Cina il Buddhismo (così come il Confucianesimo) sono morti già da alcuni decenni, sotto i colpi della rivoluzione comunista; in Occidente già da molto tempo è tramontato – nei fatti, se non nella forma – il Cristianesimo nelle sue varie correnti; e la stessa cosa si può dire dell’Ebraismo.

Queste grandi tradizioni spirituali sono oramai ridotte ad essere vissute e testimoniate in piccole riserve, largamente minoritarie, che si assottigliano sempre più col passare del tempo e che, forse, prima o poi, (tutto lascia pensare questo) saranno destinate a sparire completamente.

Ho parlato di “rinnegamento” e non di “modificazione” o “evoluzione”.

Una evoluzione, alla luce dei cambiamenti storici intervenuti in due millenni, sarebbe stata normale, inevitabile e perfino positiva; l’aggiornamento (ovverossia la “secolarizzazione”) di un pensiero religioso (ma, in fondo, anche filosofico) per molti aspetti fondato sul mito, alla luce del progresso scientifico, era, infatti, non solo necessario ma – almeno a mio modo di vedere – oltremodo positivo e auspicabile.

Avrebbe consentito di salvare il “bambino” (l’essenza del messaggio spirituale contenuto in quelle antiche tradizioni) e di buttare “l’acqua sporca” (gli orpelli mitici, i rituali barocchi e i sistemi di potere sacerdotali e non, legati a quelle tradizioni), senza gettare (come, invece. è stato fatto) anche il bambino assieme all’acqua sporca.

Il rinnegamento è, infatti, tutt’altra cosa; il rinnegamento è il ribaltamento, la distruzione delle radici stesse su cui le civiltà dell’Occidente e dell’Oriente per due millenni si sono fondate; è un vero e proprio cambio di identità, di natura, di codice genetico.

E questo, a mio giudizio, non ha nulla di positivo e auspicabile; non prelude a nulla di buono; anzi, mi sa di vera e propria “alienazione” culturale, cioè di rinuncia al nucleo, all’essenza stessa, della propria identità antropologica e del proprio patrimonio storico.

Tra l’altro proprio nel momento in cui l’abbattimento di tante barriere – che per millenni avevano tenuto lontani, quasi incomunicabili tra loro, Oriente e Occidente – avrebbe potuto consentire un positivo incontro e un fecondo intreccio di culture tanto diverse.

Per cui mi chiedo: reggerà una “civiltà” (ammesso che possa ancora definirsi così la nuova Era che tende a profilarsi) che si aliena dal proprio passato, che lo divella, senza neanche una vera e propria rigorosa analisi critica, ma sotto l’impulso di un “progresso”, di uno “sviluppo”, che ad un certo punto le sono sfuggiti di mano?

La mia impressione profonda è che un tale cambiamento – al di là del giudizio di merito che se ne possa o voglia dare – non rappresenti, non costituisca un semplice passaggio di epoca, di Evo, come lo furono quelli dall’età antica al Medioevo e da questo all’Età moderna e da questa all’Età contemporanea.

No, oggi, – mi sbaglierò, ma la mia impressione è questa – ci troviamo in presenza di un vero e proprio passaggio non di epoca, ma di Era, come lo fu quello che segnò il passaggio dalla Preistoria alla Storia; di quelli che avvengono ogni tot millenni e non ogni tot secoli.

Non a caso da qualche anno circolano espressioni quali “fine della storia” o “post-umano”, che già linguisticamente sono molto più radicali delle espressioni o dei termini, che fin qui nella Storia hanno segnato i cambiamenti d’epoca e che ho prima citato.

Passando al giudizio di merito e per concludere questa riflessione, cosa ci destinerà il futuro non è dato (a nessuno e meno che mai a uno come me) prevederlo con certezza; ma la mia impressione è che non si stia preparando nulla di buono per le future generazioni.

Spero ovviamente di sbagliarmi; me lo auguro per i nostri figli e, soprattutto, per i nostri nipoti; la mia generazione, infatti, di questo futuro (di questa nuova Era, come sopra l’ho definita) potrà vedere solo le prime luci dell’alba; ma le mie impressioni, intuizioni e previsioni sono purtroppo negative; e non posso fare a meno qui di dichiararle.

Nella speranza sottintesa (a cui la volontà non può permettersi di rinunciare), ma (devo dire) molto disincantata (se in me interviene solo la ragione), che si possa ancora invertire la tendenza in atto, se e quando si prendesse consapevolezza dei rischi devastanti e, forse, suicidi a cui l’Umanità tutta sta andando incontro.

© Giovanni Lamagna

A quale futuro stiamo andando incontro?

Stamattina leggevo una pagina del libro di Aniela Jaffé “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), anticipata dall’inserto “Robinson”, uscito con “la Repubblica” del 27 maggio 2023, pagina nella quale veniva in grande evidenza l’importanza che ha avuto il Buddhismo per il grande pensatore svizzero.

Ad un certo punto Jung afferma: “A volte mi sono chiesto se non sono la reincarnazione di un indiano. Se così fosse, sarei stato di certo un buddhista.”

E mi è venuto spontaneo pensare all’India e poi alla Cina attuali e mi sono chiesto: quanto di Buddhismo sopravvive oggi, a pochi decenni di distanza da quando Jung fece questa affermazione, in questi due paesi, dove il Buddhismo 2500 anni fa nacque, si sviluppò e prosperò?

Ho l’impressione – da quanto ne so – che ne sopravvive ben poco e, forse, temo, ne sopravvivrà sempre meno in futuro, travolto dallo sviluppo tecnologico, industriale e postindustriale, che ha oramai preso piede anche in quei due paesi, che tendono sempre più ad assomigliare, almeno da questo punto di vista, alle società occidentali.

Si sta verificando insomma, anche in India e Cina, ciò che si è verificato già da quasi due secoli in Occidente: un progressivo ma sempre più impetuoso rinnegamento delle antiche tradizioni spirituali su cui Oriente ed Occidente si erano fondati e retti per più di due millenni.

In India e Cina sta tramontando (se non è già tramontato) il Buddhismo (ma lo stesso discorso lo si potrebbe fare per l’Induismo); in Occidente già da tempo è tramontato – nei fatti, se non nella forma – il Cristianesimo (ma si può dire altrettanto dell’Ebraismo).

Tutte e quattro queste grandi tradizioni spirituali sono oramai ridotte ad essere vissute e testimoniate in piccole riserve, largamente minoritarie, che si assottigliano sempre più col passare del tempo e che, forse, prima o poi, (tutto lascia pensare questo) saranno destinate a sparire completamente.

Ho parlato di “rinnegamento” e non di “modificazione” o “evoluzione”.

Una evoluzione, alla luce dei cambiamenti storici intervenuti in due millenni, sarebbe stata normale, inevitabile e perfino positiva; l’aggiornamento (ovverossia la “secolarizzazione”) di un pensiero religioso (ma, in fondo, anche filosofico) per molti aspetti fondato sul mito, alla luce del progresso scientifico, era, infatti, non solo necessario ma – almeno a mio modo di vedere – oltremodo positivo e auspicabile.

Avrebbe consentito di salvare il “bambino” (l’essenza del messaggio spirituale contenuto in quelle antiche tradizioni) e di buttare “l’acqua sporca” (gli orpelli mitici, i rituali barocchi e i sistemi di potere sacerdotali e non, legati a quelle tradizioni), senza buttare (come, invece. è stato fatto) anche il bambino assieme all’acqua sporca.

Il rinnegamento è, infatti, tutt’altra cosa; il rinnegamento è il ribaltamento, la distruzione delle radici stesse su cui le civiltà dell’Occidente e dell’Oriente per due millenni si sono fondate; è un vero e proprio cambio di identità, di natura, di codice genetico.

E questo, a mio giudizio, non ha nulla di positivo e auspicabile; non prelude a nulla di buono; anzi, mi sa di vera e propria “alienazione”, cioè di rinuncia al nucleo, all’essenza stessa, della propria identità storica.

Per cui mi chiedo: reggerà una “civiltà” (ammesso che possa ancora definirsi così la nuova Era che tende a profilarsi) che si aliena dal proprio passato, che lo divella, senza neanche una vera e propria rigorosa analisi critica, ma sotto l’impulso di un “progresso”, di uno “sviluppo”, che ad un certo punto le sono sfuggiti di mano?

La mia impressione profonda è che un tale cambiamento – al di là del giudizio di merito che se ne possa o voglia dare – non rappresenti, non costituisca un semplice passaggio di epoca, di Evo, come lo furono quelli dall’età antica al Medioevo e da questo all’Età moderna e da questa all’Età contemporanea.

No, oggi, ho l’impressione, ci troviamo in presenza di un vero e proprio passaggio di Era, come lo fu quello dalla Preistoria alla Storia; di quelli che avvengono ogni tot millenni e non ogni tot secoli.

Non a caso da qualche anno circolano espressioni quali “fine della storia” o “post-umano”, che già linguisticamente sono molto più radicali delle espressioni o dei termini, che fin qui nella Storia hanno segnato i cambiamenti d’epoca e che ho prima citato.

Passando al giudizio di merito e per concludere questa riflessione, cosa ci destinerà il futuro non è dato (a nessuno e meno che mai a uno come me) prevederlo con certezza; ma la mia impressione è che non si stia preparando nulla di buono per le future generazioni.

Spero ovviamente di sbagliarmi; me lo auguro per i nostri figli e, soprattutto, per i nostri nipoti; la mia generazione, infatti, di questo futuro (di questa nuova Era, come sopra l’ho definita) potrà vedere solo le prime luci dell’alba; ma le mie impressioni, intuizioni e previsioni sono purtroppo negative; e non posso fare a meno qui di dichiararle.

Nella speranza sottintesa (a cui la volontà non può permettersi di rinunciare), ma (devo dire) molto disincantata (se in me interviene solo la ragione), che si possa ancora invertire la tendenza in atto, se e quando si prendesse consapevolezza dei rischi devastanti e, forse, suicidi a cui l’Umanità tutta sta andando incontro.

© Giovanni Lamagna

L’essere umano o è “religioso” o semplicemente non è.

Chi rigetta, in modo frettoloso e saccente, non solo le religioni storiche, ma anche la stessa “dimensione religiosa dell’esistenza”, in nome dello scientismo, del laicismo, dello sviluppo del pensiero umano (in modo particolare di quello filosofico), della secolarizzazione delle società moderne, dimostra, a mio avviso, di essere persona superficiale, banale, che non tiene conto della complessità della Storia e dell’animo umano.

Non ci sono dubbi (chi può negarlo? manco l’uomo di fede può farlo!) che le religioni storiche (soprattutto in certe epoche storiche e in certi contesti geografici) abbiano prodotto disastri immani, abbiano in molte occasioni coartato il libero pensiero e le potenzialità dell’umano, provocato carneficine e oppressioni orrende.

Ma non ci sono manco dubbi che esse siano state per una lunga fase della vicenda umana una delle componenti principali, se non la principale, del suo sviluppo, della sua crescita, del suo porsi domande e tentare di darsi risposte, senza le quali l’essere umano non può definirsi tale, si riduce al semplice genere di cui pure è parte.

Le religioni storiche hanno indubbiamente partorito molti mostri e angherie, ma hanno anche ispirato innumerevoli eroi ed atti eccelsi di santità.

Non a caso è nell’ambito della vicenda storica delle religioni che è maturata la regola aurea del “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te e non fare loro ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso”, su cui si fondano tutte le etiche umane, nelle loro varie e molteplici forme, sotto qualsiasi parallelo e lungo qualsiasi meridiano.

Certo poi le religioni storiche hanno spesso dato origine anche a contrasti e conflitti asprissimi, feroci, perfino a guerre interreligiose, che è il colmo dei colmi.

Ma questa è solo l’altra faccia della Luna, quella in ombra; che non può farci dimenticare la sua prima faccia, quella a noi visibile; o viceversa, a seconda di come vogliamo valutare le luci e le ombre che si accompagnano in ogni vicenda umana, quindi anche in quella storica delle religioni.

Negare o banalizzare la stessa “dimensione religiosa dell’esistenza” (con le domande fondamentali sul “senso della vita” che essa pone), andando ben oltre l’analisi e la critica delle forme da essa assunta nella storia e nella geografia, significa negarsi, chiudersi ad una dimensione che è la più profonda che possa sperimentare l’essere umano, a prescindere dalle risposte che egli sarà (o non sarà) in grado di darsi.

Domande alle quali nessuna scienza, nessun nuovo ritrovato tecnologico e manco le strutture sociali e politiche riusciranno mai (come la Storia, soprattutto quella recente, ha dimostrato in abbondanza) a trovare risposte; perché queste riposano, sono nascoste nel cuore di ogni singolo individuo.

E niente e nessuno mai potrà scovarle al suo posto, risparmiargli il cammino (spesso faticoso e sofferto, a volte persino drammatico) della ricerca e del ritrovamento, che non sarà mai scontato, mai certo, ma affidato sempre ad un incedere precario e incerto, del tutto individuale e personale.

In altre parole, una cosa è demitizzare il mito (o i miti) che si nascondono dietro le religioni storiche, ne hanno fondato la nascita e perpetuato la durata nel tempo; altra cosa è negare la verità profonda, la funzione simbolica, che si nasconde sempre dietro ogni mito, tutti i miti che hanno accompagnato da sempre la vicenda umana.

Infine, una cosa è aggiornare e modernizzare i rituali che fanno parte delle religioni storiche e che hanno arricchito e vitalizzato, pur con tutti i loro limiti e le loro contraddizioni. la vita delle società trascorse, altra cosa è eliminare del tutto i rituali, l’idea stessa del rito, dalle nostre società contemporanee.

O banalizzarli (che cosa sono alcuni happening mondani – esclusivi o di massa che siano – o alcune manifestazioni sportive se non dei rituali dell’epoca d’oggi?) al punto da renderli ininfluenti o del tutto insignificanti dal punto di vista delle risposte che i riti di una volta intendevano dare alle domande di senso che provenivano dagli individui e dalle società di cui erano prodotti storici.

L’uomo (anche l’uomo contemporaneo, ipermoderno, postmoderno) non può fare a meno né di miti né di riti; ne va della sua vita spirituale, che senza di essi ne risulta gravemente impoverita.; e cosa sono i miti e i rituali se non l’essenza, l’anima stessa della “dimensione religiosa dell’esistenza”?

Per cui – ritornando a bomba – il rapporto dell’uomo con la/e religione/i non può essere quello di chi butta il bambino con l’acqua sporca quando svuota la vasca da bagno.

L’uomo certamente non può fare a meno di interrogarsi – continuamente e in maniera lucidamente, spietatamente laica – sul suo “essere religioso”; ma alla fin fine non può fare a meno di rinunciare del tutto a questa sua natura profondamente, intrinsecamente religiosa.

Perché il suo stesso interrogarsi, porsi dubbi e domande, il suo stesso depurare miti e rituali di un tempo, fanno parte intrinseca di questa sua connaturata e profonda religiosità.

Che tende a “rilegare” (sta qui l’etimo della parola “religione”) tutte le cose, anche quelle apparentemente lontanissime tra di loro; a trovare – in altre parole – l’essenza e l’unità del Tutto.

© Giovanni Lamagna