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Povertà e ricchezza (2)

Povertà e ricchezza sono entrambe condizioni deprecabili.

La povertà perché ti impedisce una vita dignitosa.

La ricchezza perché ti fa vivere una vita alienata.

© Giovanni Lamagna

Povertà e ricchezza

Ritengo che la povertà e la ricchezza siano situazioni entrambe deprecabili e, perciò, socialmente da combattere.

La povertà perché impedisce una vita dignitosa ai poveri, facendo mancare loro anche le cose minime, quelle necessarie per vivere bene.

La ricchezza perché fa vivere una vita alienata ai ricchi, dando loro troppe cose materiali e illudendoli, quindi, che il senso della vita stia in queste.

Ostacolandoli, perciò, nella ricerca di altre “cose”, che non siano solo quelle materiali.

© Giovanni Lamagna

Sulla seconda serie televisiva de “L’amica geniale”.

Lunedì sera si è concluso il secondo ciclo della serie televisiva “L’amica geniale”, tratta dall’omonimo romanzo in quattro volumi di Elena Ferrante. Qual è il mio giudizio?

Premesso che non ho (ancora) letto il romanzo, il mio giudizio sintetico e complessivo è che si è trattata di una bellissima opera-zione televisiva.

Sono rimasto inchiodato davanti al televisore, senza avere nessun calo di attenzione né colpo di sonno (ed io sono uno che la sera va a dormire presto), coinvolto nella trama narrativa, ma soprattutto dalle vicende esistenziali dei vari personaggi, soprattutto (come è ovvio) delle due protagoniste, Elena Greco e Lila Cerullo, interpretate (in questa seconda serie) magnificamente da due giovani attrici esordienti, Margherita Mazzucco e Gaia Girace.

Già questo fatto giustifica in larga misura il mio giudizio fortemente positivo: di solito quando una trasmissione non mi piace o non mi interessa molto, dopo un poco che la sto seguendo mi si chiudono gli occhi e la lascio perdere. Con “L’amica geniale” questo non è avvenuto in nessun momento di nessuna delle quattro puntate di questa seconda serie, come, del resto, non era avvenuto quando hanno trasmesso la prima. Segno inequivocabile che ha preso profondamente il mio cuore e la mia testa.

Espresso il mio giudizio sintetico, vorrei provare adesso ad articolarlo, motivarlo, scoprendo e manifestando le sue molteplici ragioni.

1.La prima ragione è che ho vissuto, pur nelle differenze notevoli, una grande e sostanziale identificazione.

Nella storia di queste ragazze e di questi ragazzi, ma in fondo anche in quella del quartiere Luzzatti in cui essa è ambientata, mi sono riconosciuto, come se fosse stata la mia.

Nel quartiere Luzzatti, che distava dal mio poco più di un chilometro, ho rivisto il quartiere nel quale sono nato (il quartiere Arenaccia).

Nei vari ragazzi e ragazze della storia (specie in quelle/i nate/i e vissute/i nel quartiere Luzzatti) ho rivisto me stesso bambino e adolescente, perché io avevo la loro stessa età in quegli anni (’50 e ’60). Come ho rivisto quelle dei miei amici, miei coetanei.

Ho rivisto la grande povertà di quegli anni, ma anche la grande dignità con la quale essa veniva vissuta dai più. Ho rivissuto il sentimento di amicizia, di cameratismo profondo, ma anche di semplice buon vicinato che ci legava un po’ tutti.

Ho rivisto anche gli episodi di violenza e di degrado, di cui (per mia fortuna) non sono mai stato protagonista diretto, ma che comunque sfioravano la mia vita, quella dei miei familiari e quella degli amici che frequentavo.

Qualcuno (a cominciare da mia moglie) ha avuto da ridire sulla rappresentazione così cruda ed esplicita di questa violenza e perfino sul ricorso ad un dialetto così stretto, così marcato, a tratti perfino smaccatamente e volutamente volgare.

Ma io non condivido per nulla tali rilievi. Credo, infatti, che la storia avrebbe perso forza (di realtà e di comunicazione), se non si fosse espressa anche nella forma del dialetto napoletano e della violenza esplicita e per nulla edulcorata.

Semmai mi fa meraviglia il fatto che una storia simile, così caratterizzata nel tempo e nello spazio (la Napoli degli anni ’50 e ’60, anzi di un quartiere particolarmente degradato di Napoli, non certo simile a quelli delle sue cartoline note in tutto il mondo) abbia potuto interessare, anzi appassionare, milioni di persone delle più varie parti del pianeta.

E, però, di fronte a questo dato di realtà, non posso non concluderne (e con me credo debbano farlo un poco tutti) che evidentemente le vicende de “L’amica geniale” avevano (ed hanno) un nucleo di verità essenziale di carattere universale, condivisibile e quindi comprensibile nei più vari contesti economici, sociali, culturali e, perfino, antropologici, al di là delle sue indubbie ed evidenti specificità.

  1. La seconda ragione del mio interesse così vivo e forte di fronte a questa serie televisiva sta nel fatto che essa racconta una storia di formazione. Che (come ho già detto prima) in gran parte ricalca la mia, ma che avrebbe avuto comunque per me un suo interesse intrinseco, anche se fosse stata molto diversa dalla mia.

I personaggi, che animano questo racconto (prima bambini, poi adolescenti, poi giovani adulti), sono, in fondo, un unico grande personaggio: le loro storie si intrecciano tra di loro, quasi come facce diverse di un unico prisma, l’una complementare alle altre.

Nel racconto c’è la storia di chi riesce a farcela, ad uscire dalla “prigione” di un’esistenza chiusa che poteva far preludere ad un destino segnato. E’ questa sostanzialmente la storia di Elena. E c’è quella di chi prova disperatamente a fare la stessa cosa, magari per vie diverse, ma non ce la fa. E’ la storia di Lila.

Ci sono poi le storie dei personaggi solo apparentemente secondari, alcuni dei quali affondano nel destino di miseria e degrado nel quale sono nati, altri cercano scorciatoie di riscatto sociale per le vie brevi della illegalità più o meno grave e marcata. I più si rassegnano ad una vita “banale” e del tutto conformata ai più.

Ne esce fuori un quadro perfetto e articolato delle vicende umane, nelle quali nessuno può dirsi totalmente estraneo agli altri, eppure ognuno/a è diverso/a dagli altri/e, spesso estremamente diverso/a, in certi casi (almeno apparentemente) opposto/a. E ciascuno di noi può riconoscere il suo “particolare” e ritrovarcisi.

  1. La terza ragione che ha motivato il mio forte interesse verso questa storia è da rintracciare nel modo in cui essa affronta la “questione femminile”. Intendiamoci: niente a che fare con le rivendicazioni del mondo femminile (o, meglio, di una parte di esso) per lo stato di soggezione e subalternità in cui è vissuta la donna per secoli, anzi per millenni, e ancora oggi in parte vive, soprattutto in certe zone del mondo.

Nel periodo storico in cui la vicenda de “L’amica geniale” è situata, queste rivendicazioni in fondo manco erano ancora cominciate. Iniziarono ad emergere solo verso la metà degli anni ‘60 e solo in certi contesti sociali che non erano certo quello del quartiere Luzzatti, in cui è stata ambientata la gran parte della vicenda del romanzo della Ferrante, almeno in questi primi otto capitoli della saga.

Allora cosa intendo qui per “questione femminile”? Intendo qualcosa che sovrasta la dimensione storica e geografico-spaziale. Ed ha a che fare piuttosto con la dimensione antropologica.

Sotto questo aspetto le donne hanno avuto da sempre un “potere”, che va ben al di là dei ruoli sociali, così fortemente codificati e stratificati nel tempo (e che non voglio, certo, qui disconoscere o minimizzare). Un ruolo che in fondo gli stessi uomini (dominatori e sfruttatori, chi più e chi meno) ben percepiscono e riconoscono, anche se solo ad un livello inconscio, subliminale.

E, di fronte al quale, forse in parte si spiega (anche se, ovviamente, non si giustifica per nulla) la loro violenza estrema, potremmo dire anche animalesca, bestiale, o (nel migliore dei casi) la loro invidia e la loro aggressività latenti.

Questa dimensione del “femminile” è – a mio avviso – resa in modo mirabile ne “L’amica geniale” E’, anzi, forse il fattore primo che ne spiega il fascino, mi verrebbe di dire per certi aspetti addirittura perverso.

Essa emerge in una molteplicità di situazioni e rapporti, in modi e tempi ossessivamente ricorrenti. Ma è evidenziata in particolare nel rapporto tra Lila e i fratelli Solara, prima, e poi nel rapporto tra Lila e il marito Stefano (interpretato da un magnifico Gennaro De Stefano).

Lila è oggetto di molteplici violenze (verbali e fisiche), eppure anche nelle situazioni più drammatiche di cui è vittima (in quanto femmina), emerge, è impossibile non riconoscerlo, il suo “potere di femmina”, che è forse proprio quello che scatena (intendiamoci – lo ripeto ancora una volta, a evitare facili equivoci – non la sto qui giustificando) la grande violenza che subisce.

Qui, per inciso, mi viene da dire che non saprei affermare con sicurezza e senza ombra di dubbio che Elena Ferrante è una “donna che scrive”. Per quanto mi riguarda potrebbe essere benissimo un “uomo che scrive”.

Un uomo, però, che riconosce in sé la sua “parte femminile” e, soprattutto, il potere che la donna (anzi la femmina) ha ed esercita su di sé, sul maschio, al di là dei ruoli sociali storicamente consolidatisi.

  1. Un ultima ragione di fascino che riconosco alla serie televisiva de “L’amica geniale” la rintraccio nel “rapporto/contrasto tra natura e cultura, istinto e ragione, perfino tra bestialità e umanità”, che del racconto mi sembra uno degli elementi (mi verrebbe di dire: dei protagonisti) principali.

E’ del tutto ovvio che questo rapporto/conflitto si evidenzia in tutta la sua forza nelle figure di Elena e Lila. Ma, forse, si manifesta anche in altre figure meno protagoniste e più secondarie.

Elena rappresenta il polo della riflessione, della calma, della ponderazione, del desiderio di emanciparsi culturalmente ancor prima che socialmente, fino ad apparire addirittura (e non è così) una creatura impalpabile e fredda.

Lila è il suo opposto: tutta fuoco, impulsività, istinto (al limite dell’autodistruttività), violenza, voglia di crescere in fretta, di uscire dagli schemi in cui l’ha messa l’ambiente in cui è cresciuta.

E, però, ciascuna delle due (anzi forse proprio per questo) riconosce nell’altra una parte di sé. L’una “invidia” all’altra e vorrebbe avere quello che lei non ha o ha sviluppato in maniera solo embrionale.

Questo è ciò che fa la forza del loro legame, come della maggior parte (dico io, sulla base della mia esperienza di vita) dei rapporti veramente importanti e significativi. Si allontanano più volte nel corso degli anni, come a prendere atto di una loro radicale inconciliabilità.

Ma poi sempre, in qualche modo e per le vie più traverse, si rincontrano e devono riconoscere che il loro legame ha, invece, una forza che va ben al di là delle loro profonde diversità. Come se una calamita le tenesse collegate anche nella (solo apparente) distanza.

Giovanni Lamagna

Recensione del film “Capri revolution”.

Finalmente ho visto “Capri revolution”, l’ultima opera di Mario Martone, che avevo perso in prima visione: l’ho recuperato al cineforum che frequento il martedì. Un film esteticamente molto bello, intrigante, coinvolgente. E contenutisticamente molto complesso, che può essere letto su più livelli: storico, economico, sociale, culturale, politico…

Livello storico. Il film vuole raccontare il clima in cui avvenne lo scoppio della prima guerra mondiale, quando si incrociavano e convivevano pulsioni e ideali ingenuamente pacifisti con tendenze e istanze ciecamente interventiste; il bisogno di un lavacro che quasi purificasse l’umanità e la consapevolezza del disastro immane al quale si stava andando incontro, la felicità e l’allegria della bella epoque e l’atroce presentimento della imminente carneficina.

Livello economico. Il film descrive la realtà agricolo-pastorale degli inizi del secolo scorso e l’avvio del processo di industrializzazione, con tutte le forti contraddizioni che questo avvio ha comportato. Emblematico il fatto che il padre di Lucia (la protagonista del film) nasce contadino-pastore e poi, con l’insediamento dell’acciaieria di Bagnoli, da Capri si trasferisce a Napoli e diventa operaio metallurgico: per questo si ammala ai polmoni e muore di cancro.

Livello sociale. Il film evidenzia le forti disuguaglianze presenti anche in una piccola realtà come Capri. I contadini-pastori vivono ovviamente in una condizione di estrema povertà. I ceti medi benestanti si sono arricchiti essenzialmente grazie al commercio legato al turismo. I contadini-pastori tendono ovviamente ad elevare la loro condizione economico sociale entrando a far parte della classe media, soprattutto attraverso matrimoni combinati (tipo quello che i fratelli propongono e quasi impongono a Lucia).

Livello culturale. La popolazione indigena vive in una condizione di grave arretratezza culturale. In gran parte è analfabeta. Pensa e agisce in base a schemi bigotti e patriarcali. Ne è un esempio eclatante il modo in cui i due fratelli (specie il maggiore e specie dopo la morte del padre) trattano la giovane Lucia, protagonista del film, quasi come se fossero i suoi padroni, insofferenti (a voler usare un eufemismo) ai suoi desideri/tentativi di emancipazione (c’è qui un’eco anche delle nascenti istanze femministe).

Eppure Capri ospita una comunità (anzi una “comune”) formata da uomini, donne e bambini provenienti in massima parte dalle nazioni del nord Europa. Che hanno sposato la condizione economica prevalente dell’isola (quella agricolo-pastorale), come una via per ritrovare l’antica natura della condizione umana e recuperarne la genuinità, praticando il nudismo, la danza, la musica, il canto, la pittura (le arti, insomma, nelle varie forme) e una sorta di religione pagana adoratrice della natura: il sole, la luna, il mare, le rocce…), di cui l’isola di Capri è quasi topos archetipo.

Ovviamente la presenza di una piccola comunità, così anomala e trasgressiva, all’interno della comunità più vasta dell’isola, del tutto tradizionale e conservatrice, ingenera il conflitto che sempre si genera tra l’istanza progressista e quella conservatrice. Anche se Lucia, la giovane pastorella di capre protagonista del film, si pone come l’anello di congiunzione tra le due istanze e alla fine entrambe le supera.

Lucia è attratta e turbata allo stesso tempo dai comportamenti degli abitanti della Comune: prova insieme ripugnanza e curiosità per il loro modo di vivere, ma alla fine ne è conquistata, abbandona la casa dove abitava assieme alla madre e ai fratelli e va a vivere nella comunità.

Livello politico. Un altro elemento dello scontro culturale, che in questo caso diventa anche politico, è dato dal rapporto tra quello che è un po’ il guru della comunità, Seybu (ascetico, contemplativo, naturista, vegetariano, trasgressivo sul piano dei costumi sessuali, ma ascientifico nella cura delle malattie, fanaticamente alla ricerca di fantomatici rimedi naturali e omeopatici) e Carlo, il giovane medico giunto da poco a Procida (uomo di scienza rigoroso, generoso, politicamente progressista, vagamente socialista, ma sostenitore dell’intervento in guerra, fanaticamente convinto che la sconfitta degli imperi centrali avrebbe provocato un rimescolamento dei rapporti sociali e favorito, quindi, l’emancipazione delle classi subalterne).

Il film è l’intreccio e la combinazione pregevole di questi diversi livelli di lettura di una storia, che trova però i suoi pilastri, i suoi fondamenti, nello spazio (Capri, luogo magico per antonomasia, per il suo paesaggio, per il clima, il sole, il mare, il cielo, la luce, la vegetazione, le rocce…) e nel tempo in cui si svolge, tempo così fortemente caratterizzato dall’idea di “rivoluzione”, come forse nessun altro mai.

Perciò Lucia è l’assoluta protagonista del film (interpretata da Marianna Fontana, un’attrice dal volto straordinariamente intenso, selvaggio e dolce, popolare e nobile: tale da sembrare estratto da un acquerello di Vincenzo Gemito).

Perché Lucia è figlia di Capri, della Capri tradizionale e conservatrice, ma allo stesso è capace di emanciparsi, dando una sua personale lettura e traduzione pratica della rivoluzione, che non saranno né quella del guru nordico pacifista-naturista, né quella del medico socialista scientista e interventista.

Lucia è capace di recuperare il rapporto primario con la madre. Che, in una delle scene finali, le dice “sapevo che saresti tornata” e, allo stesso tempo, “quando uscivi la notte, io ti vedevo, ma facevo finta di non vederti; quando uscivi la notte, ero un po’ anche io che uscivo con te”. E qui le due generazioni, rappresentate dalla madre e dalla figlia, sembrano trovare un punto di congiunzione.

Ma subito dopo la stessa Lucia prende il piroscafo e parte non si sa per dove, verso un luogo indefinito; in ogni caso, per viversi la sua libertà ed emancipazione, oramai definitivamente e saldamente conquistate.

Giovanni Lamagna

La povertà spirituale secondo Gesù.

La povertà di cui parla Gesù, indicandola come virtù basica del proprio insegnamento (“Beati i poveri per lo spirito, perché di essi è il regno dei cieli”; Matteo 5, 3) non è da intendersi, a mio avviso, come la condizione di miseria della povertà materiale ed estrema.

Ma è piuttosto una condizione spirituale.

E’ il distacco dai beni materiali, da tutto ciò che si possiede.

E’, quindi, una scelta, più che un destino avuto in cattiva sorte.

Questa povertà spirituale è, perciò, compatibile con un certo possesso di beni materiali, di quelli necessari per vivere una vita dignitosa, cioè sufficientemente agiata e, quindi, sufficientemente piacevole.

Non è compatibile, invece, (sempre a mio avviso) con una vita di lussi e di sfarzi.

Si può ipotizzare, infatti, che un uomo possa essere spiritualmente distaccato dai beni che gli sono necessari per vivere una vita dignitosa, dagli agi e dai piaceri sufficienti a rendergli la vita abbastanza comoda e gradevole.

Non è immaginabile che lo possa essere, invece, quando vive nel lusso, nello sfarzo, nell’ostentazione dei beni materiali, la cui proprietà vada molto oltre la soddisfazione dei suoi bisogni fondamentali e di alcuni desideri non solo comuni alla maggioranza dei suoi simili, ma anche soddisfatti dalla maggioranza di loro.

In questi casi è inevitabile una qualche forma di dipendenza psicologica dai beni materiali, che rende impossibile pertanto la povertà spirituale, che contrasta (mi verrebbe da dire strutturalmente, fisiologicamente) con essa.

D’altra parte, se non fosse così, Gesù, al giovane ricco che gli chiede come fare per conquistare la vita eterna, non avrebbe risposto: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri.” (Matteo; 19, 21)

E non avrebbe detto ai discepoli: “Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli.” (Matteo; 19; 23 – 24).

Un’ultima domanda (con tentativo di risposta) in coda a questa breve riflessione: è utile, può servire a qualcosa il concetto di “povertà spirituale” anche per chi ha una cultura laica, anche per chi non ha fede nell’esistenza di una divinità salvatrice e di una vita ultraterrena?

Io ritengo di sì. Ritengo, infatti, che la virtù della cosiddetta “povertà spirituale”, intesa non come totale privazione di beni materiali, ma come distacco da essi, abbia una valore universale, condivisibile quindi anche da coloro che si professano agnostici o, addirittura, atei.

Il distacco dai beni materiali, infatti, ci consente di dare la giusta priorità, ai valori di natura spirituale, in primo luogo a quelli legati alla cultura, al sapere, e a quelli legati alle relazioni (di solidarietà, empatia, compassione, fraternità…) con gli altri esseri umani.

Ecco perché ritengo che questa piccola riflessione possa risultare utile sia ai credenti in Dio che a coloro (tra i quali mi metto anch’io) che credenti non sono; o, meglio, non credono in Dio, ma credono in tante altre cose, a cominciare dai valori che fanno l’uomo tale.

Giovanni Lamagna

La felicità possibile.

Ci sono persone che non possono permettersi di essere felici, come sarebbe loro possibile.

E’ ovvio che qui non sto parlando della felicità piena, perfetta, assoluta, totale, senza ombre e senza macchie, che non è consentita a nessun essere umano.

Sto parlando della felicità possibile, che ogni tanto è dato sperimentare, che si alterna al dolore e alla malinconia del vivere: la gioia luminosa del vivere, che è possibile anche in presenza della consapevolezza, necessariamente tenebrosa e buia, della morte.

Ci sono persone che non possono permettersi neanche la felicità possibile.

E non perché vivano una condizione di particolare indigenza e povertà: ciò che rende impossibile ogni sprazzo sia pur minimo di felicità.

Non perché siano gravemente ammalate nel fisico, che è la seconda condizione oggettiva che osta alla felicità possibile.

E neanche perché siano particolarmente prive di affetti, di relazioni stabili e forti. Che è la terza condizione oggettiva che si oppone alla felicità possibile.

Ci sono persone che non possono permettersi la felicità possibile agli esseri umani comuni, cioè alla grande maggioranza degli esseri umani, perché hanno dei conti in sospeso con qualcuno, hanno dei conti in sospeso col loro passato.

E’ come se il loro destino fosse indissolubilmente legato a quello di altri ai quali la felicità, anche quella del tutto parziale e limitata che è consentita alla maggior parte degli esseri umani, è del tutto negata (per le tre ragioni di cui dicevo prima).

Come se si sentissero in colpa ad essere felici loro, mentre le persone, alle quali le lega un destino indissolubile, sono infelici.

Per cui rinunciano ad essere felici, rinunciano alla loro quota di felicità possibile, per condividere in un certo qual modo la infelicità delle persone alle quali un destino maligno e perverso le ha indissolubilmente legate.

Come se, accettando di essere felici, esse tradissero l’impegno di solidarietà e di comunanza di destini che in passato hanno assunto. Per cui preferiscono rinunciare alla loro quota di felicità possibile.

Ovviamente, non per questo rendono meno infelici, non per questo alleviano la infelicità delle persone verso le quali si sentono solidali e per le quali si sacrificano.

Ma, tant’è, vale per loro una versione del tutto parziale del proverbio “mal comune è mezzo gaudio”.

Il male dell’altro diventa il loro male, quindi “male comune”, senza neanche il “mezzo gaudio”.

Giovanni Lamagna