Archivi Blog
Povertà e ricchezza (2)
Povertà e ricchezza sono entrambe condizioni deprecabili.
La povertà perché ti impedisce una vita dignitosa.
La ricchezza perché ti fa vivere una vita alienata.
© Giovanni Lamagna
Povertà e ricchezza
Ritengo che la povertà e la ricchezza siano situazioni entrambe deprecabili e, perciò, socialmente da combattere.
La povertà perché impedisce una vita dignitosa ai poveri, facendo mancare loro anche le cose minime, quelle necessarie per vivere bene.
La ricchezza perché fa vivere una vita alienata ai ricchi, dando loro troppe cose materiali e illudendoli, quindi, che il senso della vita stia in queste.
Ostacolandoli, perciò, nella ricerca di altre “cose”, che non siano solo quelle materiali.
© Giovanni Lamagna
La povertà spirituale secondo Gesù.
La povertà di cui parla Gesù, indicandola come virtù basica del proprio insegnamento (“Beati i poveri per lo spirito, perché di essi è il regno dei cieli”; Matteo 5, 3) non è da intendersi, a mio avviso, come la condizione di miseria della povertà materiale ed estrema.
Ma è piuttosto una condizione spirituale.
E’ il distacco dai beni materiali, da tutto ciò che si possiede.
E’, quindi, una scelta, più che un destino avuto in cattiva sorte.
Questa povertà spirituale è, perciò, compatibile con un certo possesso di beni materiali, di quelli necessari per vivere una vita dignitosa, cioè sufficientemente agiata e, quindi, sufficientemente piacevole.
Non è compatibile, invece, (sempre a mio avviso) con una vita di lussi e di sfarzi.
Si può ipotizzare, infatti, che un uomo possa essere spiritualmente distaccato dai beni che gli sono necessari per vivere una vita dignitosa, dagli agi e dai piaceri sufficienti a rendergli la vita abbastanza comoda e gradevole.
Non è immaginabile che lo possa essere, invece, quando vive nel lusso, nello sfarzo, nell’ostentazione dei beni materiali, la cui proprietà vada molto oltre la soddisfazione dei suoi bisogni fondamentali e di alcuni desideri non solo comuni alla maggioranza dei suoi simili, ma anche soddisfatti dalla maggioranza di loro.
In questi casi è inevitabile una qualche forma di dipendenza psicologica dai beni materiali, che rende impossibile pertanto la povertà spirituale, che contrasta (mi verrebbe da dire strutturalmente, fisiologicamente) con essa.
D’altra parte, se non fosse così, Gesù, al giovane ricco che gli chiede come fare per conquistare la vita eterna, non avrebbe risposto: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri.” (Matteo; 19, 21)
E non avrebbe detto ai discepoli: “Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli.” (Matteo; 19; 23 – 24).
Un’ultima domanda (con tentativo di risposta) in coda a questa breve riflessione: è utile, può servire a qualcosa il concetto di “povertà spirituale” anche per chi ha una cultura laica, anche per chi non ha fede nell’esistenza di una divinità salvatrice e di una vita ultraterrena?
Io ritengo di sì. Ritengo, infatti, che la virtù della cosiddetta “povertà spirituale”, intesa non come totale privazione di beni materiali, ma come distacco da essi, abbia una valore universale, condivisibile quindi anche da coloro che si professano agnostici o, addirittura, atei.
Il distacco dai beni materiali, infatti, ci consente di dare la giusta priorità, ai valori di natura spirituale, in primo luogo a quelli legati alla cultura, al sapere, e a quelli legati alle relazioni (di solidarietà, empatia, compassione, fraternità…) con gli altri esseri umani.
Ecco perché ritengo che questa piccola riflessione possa risultare utile sia ai credenti in Dio che a coloro (tra i quali mi metto anch’io) che credenti non sono; o, meglio, non credono in Dio, ma credono in tante altre cose, a cominciare dai valori che fanno l’uomo tale.
Giovanni Lamagna
La felicità possibile.
Ci sono persone che non possono permettersi di essere felici, come sarebbe loro possibile.
E’ ovvio che qui non sto parlando della felicità piena, perfetta, assoluta, totale, senza ombre e senza macchie, che non è consentita a nessun essere umano.
Sto parlando della felicità possibile, che ogni tanto è dato sperimentare, che si alterna al dolore e alla malinconia del vivere: la gioia luminosa del vivere, che è possibile anche in presenza della consapevolezza, necessariamente tenebrosa e buia, della morte.
Ci sono persone che non possono permettersi neanche la felicità possibile.
E non perché vivano una condizione di particolare indigenza e povertà: ciò che rende impossibile ogni sprazzo sia pur minimo di felicità.
Non perché siano gravemente ammalate nel fisico, che è la seconda condizione oggettiva che osta alla felicità possibile.
E neanche perché siano particolarmente prive di affetti, di relazioni stabili e forti. Che è la terza condizione oggettiva che si oppone alla felicità possibile.
Ci sono persone che non possono permettersi la felicità possibile agli esseri umani comuni, cioè alla grande maggioranza degli esseri umani, perché hanno dei conti in sospeso con qualcuno, hanno dei conti in sospeso col loro passato.
E’ come se il loro destino fosse indissolubilmente legato a quello di altri ai quali la felicità, anche quella del tutto parziale e limitata che è consentita alla maggior parte degli esseri umani, è del tutto negata (per le tre ragioni di cui dicevo prima).
Come se si sentissero in colpa ad essere felici loro, mentre le persone, alle quali le lega un destino indissolubile, sono infelici.
Per cui rinunciano ad essere felici, rinunciano alla loro quota di felicità possibile, per condividere in un certo qual modo la infelicità delle persone alle quali un destino maligno e perverso le ha indissolubilmente legate.
Come se, accettando di essere felici, esse tradissero l’impegno di solidarietà e di comunanza di destini che in passato hanno assunto. Per cui preferiscono rinunciare alla loro quota di felicità possibile.
Ovviamente, non per questo rendono meno infelici, non per questo alleviano la infelicità delle persone verso le quali si sentono solidali e per le quali si sacrificano.
Ma, tant’è, vale per loro una versione del tutto parziale del proverbio “mal comune è mezzo gaudio”.
Il male dell’altro diventa il loro male, quindi “male comune”, senza neanche il “mezzo gaudio”.
Giovanni Lamagna