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Il modo di vestire.

Non è del tutto vero che “l’abito non fa il monaco”.

Il modo di vestire di una persona dice di lei molte cose.

Ancor prima di sentirla parlare e vederla agire.

Si può dire che è la sua carta di presentazione.

© Giovanni Lamagna

Sviluppo dell’autonomia e sviluppo del linguaggio.

C’è un rapporto strutturale tra lo sviluppo dell’autonomia di un bambino – che significa distacco, separazione simbolica e, almeno in parte, anche reale dalle figure genitoriali (specie da quella materna) – e sviluppo del linguaggio, della padronanza nell’uso della parola da parte dello stesso bambino.

Fin quando un bambino rimarrà attaccato alle figure genitoriali avrà difficoltà ad apprendere l’uso del linguaggio; e ciò creerà in lui una sorta di circolo vizioso: più egli si sentirà incerto nel parlare, più avvertirà il bisogno di rimanere aggrappato alle figure genitoriali, specie a quella materna.

© Giovanni Lamagna

Parlare e tacere.

C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere.

In certe occasioni tacere è una colpa.

E bisogna dunque parlare, anche a costo di rendersi antipatici e impopolari.

In altre occasioni, invece, parlare può essere inopportuno o del tutto inutile.

E quindi è meglio tacere, limitarsi ad ascoltare.

Tenendosi dentro le parole che ci verrebbe istintivo pronunciare.

© Giovanni Lamagna

Conversazione e chiacchiera.

La conversazione, la vera conversazione, non ha nulla a che fare con la chiacchiera.

E, infatti, ha bisogno di due condizioni fondamentali per poter essere e definirsi tale; due condizioni dalle quali può benissimo, invece, prescindere la chiacchiera.

La prima è che ciascuno dei due interlocutori abbia la disponibilità ad ascoltare l’altro, almeno quanto quella a parlare all’altro.

La seconda è quella di prendere seriamente in considerazione gli argomenti portati dal proprio interlocutore.

Al punto di essere disposto a mettere in discussione i propri e a modificarli, se quelli dell’interlocutore si dimostreranno più convincenti dei nostri.

© Giovanni Lamagna

Il parlare e lo scrivere dovrebbero essere preceduti sempre dal pensare. Dovrebbero…

Ci sono persone che arrivano a parlare o (addirittura!) a scrivere (specie sui social, da quando esistono i social; ma non solo sui social) per il solo gusto narcisistico di ascoltarsi o leggersi o farsi ascoltare e leggere.

Senza aver non solo pensato bene le cose che volevano dire o scrivere, ma (in alcuni casi, almeno) senza minimamente sapere (nemmeno loro) cosa volevano dire o scrivere.

Questa precondizione (pensare, riflettere e avere le idee il più possibile chiare, prima di parlare o di scrivere), indispensabile per le persone intelligenti e prudenti, è per loro, invece, un semplice optional.

Ovviamente di quello che dicono o scrivono queste persone nessuno capisce niente, perché insensato o, nel migliore dei casi, confuso e poco chiaro.

Oppure lo “capiscono” (ma sarebbe più esatto dire: fanno finta di capirlo) solo le persone che sono simili a loro.

Si viene così a creare una “comunità” di ignoranti e incompetenti, per giunta anche narcisi e presuntuosi.

Sia detto per inciso (e in aggiunta) questo non succede solo ai livelli bassi, delle persone “senza titoli”: che ci starebbe pure.

Ma succede pure ai livelli “alti”, delle persone ricche di titoli (specie nelle cosiddette Accademie); e questo non finisce mai di stupirmi.

© Giovanni Lamagna

Difficoltà a parlare e scrivere.

Non è vero, a mio avviso, che l’incapacità di parlare o di scrivere in maniera adeguata dipenda (innanzitutto) dalla mancanza o carenza di strumentazione tecnica: la conoscenza del lessico, dell’ortografia, della grammatica e della sintassi…

Io credo che dipenda piuttosto e innanzitutto dalla difficoltà/incapacità di entrare in contatto con i propri pensieri, i propri sentimenti, le proprie emozioni, con le proprie pulsioni primarie.

Insomma da una carenza di vita interiore o da una sua scissione.

È questa incapacità di vedere e di leggere pensieri, sentimenti, emozioni, pulsioni, che sicuramente abitano in ognuno di noi, che ci rende difficile (o, addirittura, impossibile) trovare le parole e la loro giusta disposizione per dirli/e, esprimerli/e.

Se questa incapacità o queste difficoltà, che sono di natura psicologica, vengono superate, si risolvono, in maniera quasi automatica, anche la incapacità o le difficoltà di natura tecnica a parlare e scrivere.

© Giovanni Lamagna

Scrivere e parlare.

La maggior parte degli uomini ha difficoltà a mettere nero su bianco, cioè a scrivere.

Molto di più che a parlare.

E non credo soltanto perché scrivere è più faticoso che parlare.

Ma anche (e forse soprattutto) perché lo scritto impegna di più che il parlato.

Sia con sé stessi che con gli altri.

“Verba volant, scripta manent”.

© Giovanni Lamagna

Cosa significa “meditare”?

Meditare per me è diverso dal semplice pensare; è qualcosa in più.

Pensare è qualcosa che obbedisce a delle regole precise, in qualche modo meccaniche, automatiche.

Quando faccio l’operazione 1 + 1 e arrivo al risultato che fa 2 sto pensando; ho fatto in questo caso un’operazione puramente mentale.

Quando, invece, arrivo al risultato che 1 + 1 può fare anche tre (come ci “insegna” la metafora del Dio Uno e Trino) sto meditando; ho fatto cioè un’operazione che va al di là delle pure regole mentali, le ri-vede, le trasforma, a volte (come in questo caso) addirittura le sconvolge.

In nome di una logica non solo mentale, puramente intellettuale, ma diversa, io dico addirittura superiore, perché fondata su una intuizione, che coglie altri aspetti del reale, che la pura intelligenza matematica o aritmetica non sarà mai in grado di cogliere.

E che, però, a pensarci bene, sta dietro il mistero della vita stessa.

Cosa accade, infatti, quando un uomo e una donna (ma anche due animali di sesso diverso) si congiungono e concepiscono una nuova creatura, se non il fatto (logicamente paradossale) che uno più uno fa tre e non due?

Vado avanti nella mia riflessione; quando ascolto una persona o leggo un testo e sto attento a capire le parole che ascolto o che leggo, sto pensando, sto facendo anche qui un’operazione soprattutto mentale, anche se non solo mentale; perché qui c’entra anche l’empatia, quindi entrano in gioco anche le emozioni e i sentimenti.

Ma, se ritorno una seconda volta o, addirittura, più volte sulle parole che ho appena ascoltate o lette, in questo caso non sto solamente, semplicemente pensando, sto, infatti, meditando.

Sto facendo, cioè, un’operazione che è qualcosa in più del semplice capire o del rispettare alcune procedure logiche, intellettuali, di puro ed esclusivo pensiero.

Capire, infatti, ha qualcosa a che fare col ricevere, col carpire, col prendere, con l’impossessarsi di un concetto.

Meditare ha a che fare, invece, piuttosto col dare, col produrre, con il generare, con il mettere a frutto ciò che ho capito, ciò che ho carpito, com-preso, ciò di cui sono entrato in possesso quando ho semplicemente pensato o solo visto, guardato qualcosa.

Capire mi fa pensare alla pianta che, per vivere, ha bisogno di ricevere periodicamente acqua e concime.

Meditare alla pianta che, dopo aver assorbito acqua e concime, produce prima fiori e poi frutti.

Capire ha a che fare prevalentemente con l’ascoltare e il leggere.

Meditare piuttosto con il parlare (anche solo con sé stessi) e con lo scrivere (fosse anche solo una pagina di diario).

So bene, lo leggo dai vocabolari, che la parola “meditare” deriva dal latino “meditari”, che, a sua volta, deriva dalla parola “mederi”, che vuol dire “curare”, raccostato nel significato al greco “μελετάω”, che equivale a “curarsi di” o “curare qualche cosa”, dopo aver (appunto) riflettuto, pensato; equivale, potremmo dire anche, a “medicare” (vedi vocabolario Treccani).

Ma a me piace pensare che la parola “meditare” abbia a che fare anche con questa etimologia: “medium + ire”; ovverossia con l’andare, l’entrare in mezzo, cioè dentro, nel cuore delle cose, oltre la loro apparenza superficiale, semplicemente fenomenica, fisica, materiale; per coglierne l’anima, il senso profondo.

Per riceverne in primis alimento spirituale e poi, in seconda battuta, comunicarlo, socializzarlo, donarlo a tutti coloro coi quali abbiamo a che fare, coi quali entriamo in contatto, in relazione.

Questo secondo movimento, infatti, viene naturale, spontaneo, dopo aver meditato.

E qui mi sovviene la famosa frase di Tommaso d’Aquino contenuta nella sua “Summa Theologiae”: “contemplata aliis tradere”; divenuta poi motto dell’Ordine Domenicano.

Che potrebbe essere – io penso – condiviso dalla maggior parte degli uomini di pensiero, anche da quelli del tutto alieni da qualsiasi fede religiosa.

© Giovanni Lamagna

Immagine sociale e silenzio.

Quando non si riescono a dire cose non dico sagge ma almeno intelligenti, per molti la scelta non è quella (che sarebbe la più dignitosa e opportuna) di stare zitti, ma, al contrario, quella opposta di parlare, parlare comunque, anche a sproposito, per dire cose banali, del tutto frivole e inutili.

Per alcuni (forse i più) il silenzio è una tortura, una sorta di squalificazione sociale, addirittura una perdita di dignità.

Non si rendono conto di quanta ne perdono invece (di dignità), aprendo bocca.

© Giovanni Lamagna

Tre tipi di relazione.

Con la lettura di un libro io instauro un vero e proprio rapporto: quello con il suo autore.

Solo che questo rapporto è incompleto, parziale e, quindi, non del tutto soddisfacente; perché è unidirezionale: l’autore parla a me, ma io non posso parlare all’autore.

Con un libro, in altre parole, non si può dialogare, se non in una maniera molto, molto virtuale: io parlo con l’autore, ma egli non mi ascolta e, quindi, non mi risponde, non può rispondermi.

Al rapporto con il libro, perciò, io preferisco e di gran lunga (o, meglio, preferirei in linea teorica) il rapporto, il colloquio, la conversazione diretta con un essere umano in carne ed ossa, non mediati cioè dalle parole scritte su un foglio di carta o su un tablet.

Quando il rapporto, il colloquio, la conversazione si rivelano ricchi, interessanti, stimolanti, educativi, fattori di crescita umana, emotiva, spirituale e non solo intellettuale.

Il problema è che non è facile trovare persone in carne ed ossa con le quali sia interessante entrare in relazione, avere cioè delle conversazioni davvero avvincenti, stimolanti, arricchenti.

Per cui molti di noi alle relazioni con le persone in carne ed ossa – spesso banali, convenzionali e noiose – preferiscono la relazione, che viene ad instaurarsi attraverso le pagine di un libro con il suo autore, relazione in genere molto più ricca e stimolante delle prime.

Ma questo tipo di relazione, a mio avviso e almeno per me, è comunque surrogatoria di relazioni interessanti e stimolanti in carne ed ossa, che desidereremmo avere e che spesso ci mancano o, quantomeno, sono carenti nella nostra vita.

Nessun libro, infatti, riuscirà mai a sostituire il calore, l’empatia, di una relazione in carne ed ossa, di una conversazione vis a vis.

Oggi, da quando esiste internet, ci viene offerta una terza possibilità di relazione: quella cosiddetta virtuale, nella quale la persona con cui interloquiamo, con cui instauriamo in certi casi una vera e propria conversazione, non è presente fisicamente.

Ma questa relazione è comunque bidirezionale, diversamente dalla relazione che viene a crearsi quando leggiamo un libro, che è invece unidirezionale.

Ora io mi accorgo che tra la lettura di un libro e questa terza possibilità di relazione personalmente tendo (perlomeno tendo) a preferire, privilegiare, quest’ultima.

Perché mi offre comunque la possibilità di instaurare una relazione bilaterale, per quanto solo virtuale.

E non poche volte con persone interessanti e stimolanti, quasi come gli autori di un libro; e molto spesso più interessanti e stimolanti delle persone che di solito frequento, le persone in carne ed ossa.

Mentre la lettura di un libro è una relazione solo unidirezionale, per quanto alle volte molto ricca, in certi casi addirittura ricchissima.

Quasi sempre più ricca di quella virtuale, che ti offre Internet, e molto spesso più ricca anche di quella che ti offre la relazione vis a vis con una persona in carne ed ossa.

In conclusione, ciascuno dei tre tipi di relazione che ho descritto poc’anzi presenta pregi e difetti, limiti e potenzialità.

Per cui, a me sembra, l’ideale è farle convivere, in alternanza l’una con le altre.

© Giovanni Lamagna