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Amore per gli uomini e amore per gli animali

Mi chiedo: in quanti casi l’amore per gli animali è solo o prevalentemente un surrogato dell’amore frustrato per gli umani?

Specie quando il primo sembra sostituire totalmente il secondo.

Quando la cura, l’attenzione per gli animali si accompagna ad una sostanziale assenza di rapporti sentimentali ed affettivi con gli umani.

Quando l’amore per gli animali si unisce alla misantropia e a forme più o meno malcelate di rancore verso gli uomini.

In questi casi la mia impressione è che il bisogno/desiderio di ricevere amore dagli uomini e dare amore agli uomini si trasferisce, sposta sugli animali.

Ma – come è ovvio – ne è solo parzialmente soddisfatto.

C’è qualcosa di malato in questo “amore”.

© Giovanni Lamagna

Dipendenza, indipendenza e interdipendenza in amore

L’amore (parlo qui dell’amore, in cui c’è un coinvolgimento sessuale, ma anche dell’amore in cui questo coinvolgimento non c’è, quello che comunemente viene definito “amicizia”) vive sempre su un doppio registro, cammina su due binari, oscilla tra due poli contrapposti: quello della dipendenza e quello della indipendenza.

Per poter dire che io amo una persona, financo se la considero “solo” amica, devo sentire che ho bisogno o, quantomeno, desiderio della sua presenza.

Se una persona mi è indifferente, se posso fare tranquillamente a meno di lei, non posso certo affermare di amarla o di sentirla amica.

In questo senso l’amore denota sempre una certa qual dipendenza: io dipendo dalla persona che amo; ne sento la mancanza quando essa non c’è; la sua presenza riempie un vuoto che c’è in me e che, senza di lei, torna a manifestarsi come vuoto, come “mancanza di”.

Allo stesso tempo un eccesso di dipendenza non fa bene all’amore. Quando la dipendenza dalla persona amata diventa assoluta, non possiamo più parlare di amore, perlomeno non possiamo più parlare di amore sano: ci troviamo in presenza – diciamolo pure – di un “amore” guasto, malato, che tende a succhiare il sangue alla persona “amata”.

Se, infatti, io dipendo in maniera assoluta dalla persona che dico di amare, se non sono dotato di un minimo di autonomia e di indipendenza, cosa posso darle? In linea teorica, ma anche nella pratica, non posso darle nulla! Posso darle tutt’al più la mia ammissione, il mio riconoscimento, di aver un assoluto bisogno di lei.

Ma questo è amore? Basta questo perché si possa parlare di amore o anche di “semplice” amicizia tra due persone?

Se io dipendo in maniera assoluta da una persona, se non riesco a stare da solo e senza di lei, vuol dire che non ho nulla in me, che tutto quello che ho sta nella persona che dico di amare.

Quindi non sono in grado di darle nulla di mio, di me, di quello che sta in me, perché questo qualcosa semplicemente non esiste, non c’è.

E, se in un rapporto non sono in grado di dare qualcosa, anche poche cose, posso definire questo rapporto un rapporto d’amore o di amicizia? Con tutta evidenza no!

Ecco perché un amore (quello che possiamo definire davvero amore, in altre parole un amore sano) ha bisogno sia della dipendenza che della indipendenza.

Se io fossi già completo in me stesso, privo di ogni mancanza, hortus conclusus, del tutto autosufficiente, perché mai dovrei aver bisogno di una persona da amare? Basterei già a me stesso e non dovrei andare, quindi, in cerca di qualcuno/a con cui costruire una relazione di amore.

E, quand’anche lo facessi, forse riuscirei a dare alla persona amata molte cose, le cose che già ho, ma non riuscirei a donarle il sentimento – unico – di quello che lei è per me, di quello che lei può donare a me. Sentimento che in amore è fondamentale, costitutivo dell’amore stesso.

Se, all’opposto, sono del tutto dipendente dall’altro/a, incapace di stare da solo, senza una mia vita e – diciamolo pure – una mia solidità autonoma, se, senza l’altro, non riesco a vivere (come spesso si dicono romanticamente gli innamorati) cosa posso riuscire a dare all’altro? La mia dipendenza, il mio bisogno di lui/lei?

L’altro allora mi vivrà – fatalmente, inevitabilmente – come una specie di sanguisuga. Potrà anche darsi che all’inizio il suo narcisismo ne risulti lusingato. Ma, alla lunga, egli si sentirà oppresso e svuotato dalla mia presenza e reagirà con uno speculare e fisiologico sentimento di rifiuto e di allontanamento-distanziamento.

Per concludere dico che, forse, né il termine “dipendenza” ne quello di “indipendenza” sono adeguati a definire compiutamente lo stato d’animo di chi ama ed è riamato, in modo sufficientemente sano e corretto. Il termine più adatto (come del resto già altri hanno detto prima di me) è forse quello di “interdipendenza”.

In amore non si è (o, meglio, non si dovrebbe essere) né assolutamente dipendenti né assolutamente indipendenti. Entrambi questi due atteggiamenti sono sbagliati e, quindi, insani. In amore si è (o, meglio, si dovrebbe essere) inter-dipendenti.

Dipendenti l’uno dall’altro, desiderosi di stare insieme all’altro, di godere della sua presenza, consapevoli della propria strutturale incompletezza. Ma senza che questa dipendenza diventi esagerata, cioè morbosa ed ossessiva.

Ciascun amante dovrebbe coltivare la propria autonomia e indipendenza e allo stesso tempo essere rispettoso/a dell’autonomia e della indipendenza dell’altro/a.

Senza, però, che questa autonomia e indipendenza arrivino al punto di trasformarsi in frigidità affettiva o, addirittura, indifferenza, distacco e, financo, misantropia.

© Giovanni Lamagna

C’è altruismo e altruismo.

14 aprile 2015
C’è altruismo e altruismo.
C’è l’altruismo che nasce da una pienezza e c’è l’altruismo che nasce da un vuoto.
Il primo appartiene a chi ha il cuore pieno, a chi – se non proprio felice – è almeno sereno, a chi ha un buon rapporto con la vita, con il suo tempo, con gli altri e con le cose che fa (a cominciare dal suo lavoro).
Il secondo è proprio di chi vive in uno stato di prevalente frustrazione, è scontento di sé, del suo rapporto con gli altri, del suo modo di trascorrere il tempo, del lavoro che svolge.
Nel primo caso la dedizione agli altri è figlia di una eccedenza. Io do agli altri perché avverto il bisogno di condividere la mia pienezza.
So stare da solo. Quindi non dipendo dagli altri. Ma mi sento parte del mondo. Quindi non sono un misantropo. Penso che gli altri siano parte di me, anche essendo altro da me.
Non posso concepire perciò che la mia pienezza non sia in qualche modo condivisa o che gli altri (almeno in qualche misura) non ne siano partecipi.
Il mio amore per gli altri si accompagna all’amore che ho per me: in un certo senso sono le due facce della stessa medaglia.
In questo desiderio di dare non c’è nessun senso di colpa, ma solo il piacere (quasi l’erotismo) della condivisione.
Il secondo tipo di altruismo è, invece, figlio delle mie insicurezze e delle mie paure. Non riesco a stare da solo e allora ho bisogno di aggrapparmi agli altri (o alle altre).
Non sono sereno; le mie gioie e i miei piaceri sono sempre velati da un’ombra di melanconia; quasi me ne sentissi in colpa.
Allora avverto il bisogno (a tratti spasmodico e compulsivo) di dedicarmi agli altri (in certi casi addirittura più che a me stesso/a).
In questo modo spero di guadagnarmene (oltre alla gratitudine) l’affetto, che temo altrimenti non mi sarebbe dato e di cui avverto una antica mancanza di fondo, quasi congenita.
In questo caso l’altruismo che mi caratterizza ha i tratti tipici del sacrificio, quasi dell’espiazione.
Non riuscendo a godere fino in fondo dei piaceri e delle gioie (fisiche, emotive, affettive, intellettuali e spirituali) che la vita mi dà, perché per una qualche misteriosa, inconscia ragione me ne sento in colpa, non sento di meritarli, il mio dedicarmi agli altri in qualche modo è come una specie di lavacro, di “giusta” penitenza.
Questi due tipi di altruismo sono, come abbiamo visto, molto diversi tra di loro.
Ognuno di noi potrà facilmente valutare qual è quello più autentico e sano; e quale dei due invece esprima un problema, sia in fondo insano e in parecchi casi non solo non faccia veramente del bene agli altri, ma talvolta faccia addirittura danni.
Giovanni Lamagna