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Solo nella misura in cui l’uomo si trascende realizza se stesso

Sono del tutto d’accordo con Victor Frankl quando, a pag. 187 del suo “Logoterapia e analisi esistenziale”, afferma:

“Solo nella misura in cui l’uomo si trascende realizza se stesso…

Egli diventa se stesso quando si proietta oltre se stesso e, ciò facendo, si dimentica”.

E’ vero, l’uomo nasce racchiuso in un guscio (apparentemente) protettivo, che è il suo Ego.

Questo guscio all’inizio assolve alla funzione positiva, allevatrice, educatrice, di garantirne la crescita.

Ma, col tempo, si rivela sempre più una gabbia, una prigione, una camera a gas, che corre il rischio di asfissiarlo ed ucciderlo, se egli non sarà capace, ad un certo punto, di romperlo ed uscirne, stavo per dire scapparne.

E incontrare così il Tu, anzi i Tu, che saranno capaci di liberarlo dal suo narcisismo e permettergli di espandersi, di realizzare la sua vocazione socializzante, di “persona-comunità” e non di “individuo-monade”.

L’uomo per diventare pienamente se stesso deve trascendere il suo Ego, deve, stavo per dire, addirittura, dimenticare (il verbo, a mio avviso del tutto appropriato, che utilizza Frankl) il suo Ego.

E questo può farlo solo se si apre ad un Tu, all’Altro da sé.

Che gli consenta di diventare, già in sé, un Noi.

L’individuo è, per definizione, Ego, è Narciso; nasce Narciso.

Ma, se resta Narciso, è destinato ad appassire, a ripiegare su se stesso e ad affogare, prima o poi, nella sua stessa immagine.

L’individuo che muore all’Io e si apre al Tu diventa, invece, persona e rifiorisce.

Così, solo così, può realizzare se stesso.

© Giovanni Lamagna

Relazione duratura e modello matrimoniale

E’ molto vero (anche se non per tutti scontato) quello che sostiene Frankl (pag. 184 del suo “Logoterapia e analisi esistenziale”; Morcelliana) che il sesso nell’uomo non ha solo (ed io aggiungo: soprattutto) “il compito di servire alla procreazione”, ma anche (ed io dico: innanzitutto) “di incrementare la relazione tra i partner”.

Ed è vero anche quello che sostiene Eibl-Eibesfeldt che “l’uomo è disposto, per natura, a una relazione duratura”.

Ma non è vero affatto – a mio avviso – che questa relazione duratura debba necessariamente realizzarsi – come sostiene Eibl-Eibesfeldt – “secondo il modello matrimoniale”.

Io sostengo, anzi, che il modello matrimoniale – almeno per come lo abbiamo conosciuto finora – tende a mortificare la relazione tra i partner e ad uccidere col tempo la componente erotica in questa relazione.

Il che non significa che bisogna “spersonalizzare” le relazioni sessuali, privandole della dimensione dell’amore, come teme Frankl.

E come (anche con delle ragioni solide, per carità!) temono molti psicologi, che si occupano di queste problematiche; ne cito solo due, a mo’ di esempio, ben noti ai lettori italiani: Umberto Galimberti e Massimo Recalcati.

L’alternativa al matrimonio non è dunque (almeno per me) il sesso anonimo e privo di amore.

E’ possibile, infatti, immaginare un sesso libero e poligamico (aggettivi che non sono sinonimi di “libertino” e di “promiscuo”) dove sia presente l’amore: quello che oggi viene definito con un neologismo, ancora non riconosciuto dai vocabolari ufficiali: quello di “poliamore”.

Perché io sono d’accordo che “la morte dell’amore porterebbe con sé… anche una diminuzione del piacere” sessuale.

Ma non sono d’accordo che l’amore – per essere vero amore – debba essere necessariamente monogamo e – meno che mai – che debba – per forza di cose e senza alternative – realizzarsi secondo il modello del matrimonio classico, tradizionale.

© Giovanni Lamagna

La verità dell’amore

Dopo aver letto il paragrafo di pag. 170 del suo libro “Logoterapia e analisi esistenziale”, che Victor Frankl intitola “Verità dell’amore”, mi sono venute spontanee e di getto le (semplici, ma sempre utili da tenere a mente) riflessioni che seguono.

Per me nessun amore si può definire eterno; quindi nessun uomo può giurare di amare per l’eternità.

Io posso giurare che farò di tutto perché il mio amore per un/a altro/a duri in eterno, ma non posso giurare amore eterno.

Un amore – al momento in cui nasce – può desiderare di essere per sempre.

Anzi, si può senz’altro dire che nessun amore nasce a termine; ogni amore nasce con l’aspirazione a durare nel tempo, quanto più tempo è possibile; se non proprio per sempre; altrimenti, non sarebbe amore, vero amore.

E, tuttavia, nessun amore può giurare davvero, in piena sincerità, di essere per sempre, perché troppi fattori concorrono a minarne e metterne in discussione la durata.

Niente e nessuno mi può, infatti, garantire che l’attrazione, il desiderio, che io provo per una certa persona in un dato momento siano destinati a durare in eterno e a non trasformarsi, invece, se non proprio nei loro opposti, cioè in odio e rifiuto, quantomeno in insofferenza, ovverossia in perdita e mancanza del piacere che una volta si provava a stare insieme.

Perché gli esseri umani (che ci piaccia o no) cambiano, sono destinati fatalmente a mutare nel corso del tempo; come tutte le realtà presenti in natura siamo esseri evolutivi o involutivi, a seconda dei casi, positivo il primo, negativo il secondo.

Non sta scritto, quindi, da nessuna parte, in nessuna tavola del destino, che i cambiamenti delle due persone, che ad un certo punto della loro vita decidono di mettersi assieme per amore, vadano, nel tempo della loro vita in comune, nella stessa direzione.

E, quando allora i cambiamenti delle due persone, che pure tempo prima si erano messe assieme per autentico e sincero amore, sono andati in due direzioni completamente diverse, se non addirittura opposte, si può onestamente chiedere loro di continuare a stare, a vivere assieme?

La loro vita non diventerebbe in questo caso un reciproco supplizio, un continuo ostacolarsi e calpestarsi a vicenda?

E a che pro i due dovrebbero sopportare tali sacrifici e simili autolimitazioni?

Non è meglio, in questi casi, prendere atto – da parte di entrambi – che l’amore, che li aveva messi tempo prima assieme, si è oramai esaurito?

Dal che si deduce che l’amore non è affatto un sentimento eterno, destinato a durare fino alla morte, come pure all’inizio, quando i due decisero di unire le loro vite, in perfetta buona fede e con piena convinzione credevano, oltre che desiderare e sperare.

L’amore dura finché dura; può durare anche tutta la vita; ma niente e nessuno lo può garantire.

Certo, esso va curato perché duri; nessuna pianta vive se non viene innaffiata ogni giorno; così l’amore non dura nel tempo per moto spontaneo, senza la cura di entrambi i due amanti.

E, tuttavia, manco la cura e l’attenzione a farlo durare basta talvolta a farlo vivere nel tempo; a volte ci sono fattori che lo mettono in crisi, a prescindere dalla cura che gli amanti gli riservano.

Spesso sono i percorsi esistenziali individuali, potremmo anche dire le vocazioni individuali dei due amanti, che allontano i loro percorsi di vita, al di là delle loro buone intenzioni.

In questi casi allora non c’è niente da fare per tenere in vita quella che pure era nata come vera relazione d’amore: bisogna prendere semplicemente atto che l’amore iniziale si è esaurito o, quantomeno, trasformato.

E’ bene a questo punto separare (il più possibile serenamente, quindi consensualmente) le proprie vite, avviandosi ognuno per la sua strada, per la via su cui è stato chiamato (e non è certo questa una colpa!) a camminare.

© Giovanni Lamagna

Irripetibile singolarità della persona amata e monogamia

Victor Frankl (nel suo “Logoterapia e analisi esistenziale” a pag. 169) parla di “… irripetibile singolarità della persona amata”. E per me fa bene, ha ragione.

Non solo perché ciascuna persona è unica e irripetibile, ma anche perché noi ci innamoriamo in una prima fase di una persona e continuiamo ad amarla in seguito, nel tempo, proprio per le sue caratteristiche uniche e irripetibili.

Ci innamoriamo cioè di quel particolare volto, di quel particolare corpo, di quel particolare carattere, di quel particolare stile di vita, di quella particolare intelligenza, di quel particolare modo di pensare, proprio perché sono quelle e non altre, sono cioè uniche e irripetibili.

Non capisco, però, perché la tesi della “irripetibile singolarità della persona amata” debba diventare la tesi che “l’amore non può essere che monogamo”.

Non capisco, in altre parole, perché, se apprezzo ed amo la “irripetibile singolarità” di una persona, non debba e non possa apprezzare ed amare quella di altre persone, ciascuna di esse nella sua “irripetibile singolarità”.

Provo ad argomentare la mia tesi. E per questo accosto l’amore all’amicizia.

In fondo io nell’amicizia vivo una dinamica relazionale molto simile a quella dell’innamoramento e dell’amore. Nessuno di noi è indistintamente amico di tutti/e. Diventiamo amico di qualcuno per certe sue caratteristiche particolari, che ci fanno sentire una particolare consonanza con lui/lei.

In fondo, quindi, anche l’amico io lo scelgo per la sua “irripetibile singolarità”.

Nessuno, però, immagina che la “irripetibile singolarità” dell’amico/a debba significare che io possa e debba avere un/a solo/a amico/a alla volta.

Il fatto di scegliere l’amico/a per la sua “irripetibile singolarità” non mi impedisce certamente di coglierla anche in un altro amico o amica o in più amici e amiche.

Perché allora quello che vale universalmente (nessuno si sognerebbe di contestarlo) per le amicizie non dovrebbe valere anche per l’amore, anzi per gli amori?

© Giovanni Lamagna

Che cos’è lo “spirituale” per me?

Io arrivo a dire che non esistono i valori spirituali, se per “spirituale” intendiamo qualcosa di completamente staccato dal “materiale”, cioè dal fisico, dal corporeo.

La parola “spirituale” – a pensarci bene – è un contenitore vuoto e, perciò, tutto sommato insignificante.

Per me una persona è valida non perché esprime valori spirituali, come sembra affermare Victor Frankl nel suo “Logoterapia e analisi esistenziale”, ma perché ha realizzato la sua umanità.

E realizza la sua umanità chi è in grado di sviluppare ed armonizzare al massimo le sue potenzialità fisiche, emotivo-affettive ed intellettuali.

E, a questo punto, sono anche disposto a recuperare il termine “spirituale”; ma dopo esserci intesi bene su che cosa esso possa e debba significare.

E’ l’insieme e l’armonia delle caratteristiche fisiche, emotivo-affettive e intellettuali che fa lo “spirituale” e che rende una persona “spirituale”.

Senza queste caratteristiche lo “spirituale” semplicemente non esiste, è un contenitore vuoto.

Che non è in grado, quindi, di provocare nessuna attrazione, meno che mai un’attrazione erotica, ancora meno che mai un’attrazione sessuale.

Nessun uomo si innamora dello “spirito” di una donna. Come nessuna donna si innamora dello “spirito” di un uomo.

Semplicemente perché noi uomini e donne non siamo angeli, non abbiamo una natura “spirituale”, ma siamo fatti di carne, di ossa, di emozioni, sentimenti e di idee, intelligenza: cioè di realtà molto, molto concrete; mi verrebbe di dire molto “materiali”; altro che spirituali!

Sono queste caratteristiche – quando sono bene amalgamate e fuse in una persona – che ci attraggono: Non ci attrae il “puro spirito”, come sembra sostenere Victor Frankl.

© Giovanni Lamagna

Amore e attrazione

Per Victor Frankl non sono le caratteristiche individuali, fisiche e psichiche, della persona che amo a rendercela amabile, ma è il mio amore che le rende “degne di essere amate” (da “Logoterapia e analisi esistenziale”; Morcelliana 2001; pag. 167).

Francamente non condivido per nulla questa tesi.

Secondo tale pensiero, infatti, (a volerlo portare alle sue estreme conseguenze) ciascuno di noi potrebbe allora innamorarsi di una persona qualsiasi, perché tanto non sono le sue caratteristiche individuali a rendercela amabile, ma, al contrario, è l’amore che le portiamo a farcela desiderare.

Sulla base di questa premessa – che per me è tautologica: io amerei una persona perché la amo – ovviamente Frankl non assegna alcun valore all’aspetto estetico della persona e, meno che mai, al suo abbigliamento.

Fino ad arrivare a scrivere: “Non un abito da sera può fare veramente effetto su un uomo, ma solo se a indossarlo è la donna amata” (ibidem; p.167).

Cosa anche per me ovvia: certo, non si può amare una persona per l’abito che indossa e, a maggior ragione, non si può amare l’abito in sé, a prescindere dalla persona che lo indossa!

Frankl, però, omette di dire che l’abito che indossa può aggiungere un valore estetico e, quindi, attrattivo alla persona per la quale provo già attrazione; attrazione che genera, provoca, il mio amore, senza la quale non ci sarebbe il mio amore.

In altre parole, a me sembra che Frankl neghi totalmente il valore che gioca la dinamica dell’attrazione nell’amore, almeno in quel tipo particolare di amore che siamo soliti definire erotico.

In buona sostanza a me sembra che Frankl dica: trovo attraente una persona perché la amo. Io, invece, sostengo esattamente il contrario: io amo (eroticamente) una persona perché la trovo attraente.

Naturalmente qui sto parlando (lo ripeto ancora una volta) dell’amore erotico. E però è proprio di questo tipo di amore che stava parlando anche Frankl: sono certo di non aver frainteso il suo pensiero.

Non stava parlando di altri tipi di amore: quali quello tra genitori e figli, quello fraterno o quello universale, definito dai Greci col termine “agape”, per i quali l’elemento attrattivo è del tutto secondario: in questi casi – anche per me – l’amore sussiste a prescindere dalle caratteristiche individuali e precipue delle persone coinvolte.

E’ notorio il detto napoletano “ogni scarrafone è bell’ a mamma soia” (“ogni scarafaggio è bello per la mamma sua”). Che vale per l’amore dei genitori per i figli, ma potrebbe valere anche per l’amore dei figli verso i genitori o per quello tra fratelli o per quello che prova il filantropo anche verso il più spregevole degli esseri umani.

Già questo discorso non vale più per quel tipo di amore che definiamo “amicizia” (philia). Perché anche nel caso dell’amicizia l’amore si basa su quelle che sono determinate e specifiche caratteristiche individuali dell’amico, origina da esse.

In altre parole, non si può essere “amico” a prescindere, non si può essere amici di tutti. Si può essere amici solo di determinate persone con ben precise caratteristiche: non si può essere amici di persone che non troviamo attraenti.

A dare poi ancora più forza alla sua asserzione iniziale Frankl aggiunge che è solo l’ “amore spirituale” a rendere “degno” l’amore erotico. Situando così l’amore spirituale su un piano che per me è troppo astratto e non ha nessun riscontro nella realtà.

Nessun essere umano, infatti, – suppongo manco Frankl – si innamorerà mai di una persona a prescindere dalle sue caratteristiche concrete, che sono poi essenzialmente di tre tipi: fisiche, caratteriali ed intellettuali.

La categoria dell’ “amore spirituale” di cui parla Frankl è di natura astratta e del tutto generica, perché vuota di contenuti; è dunque puro “flatus vocis”.

Non esiste l’amore spirituale, perché l’uomo non è un essere spirituale, ma un essere fatto in primo luogo di carne e di ossa e poi dotato anche di emozioni, affetti ed idee, che però senza il corpo non avrebbero alcuna possibilità di sussistere.

Io arrivo a dire che non esistono i “valori spirituali” in senso stretto. Perché la parola spirituale è un contenitore vuoto, a cui non corrisponde nessuna realtà concreta, e perciò è un termine letteralmente insignificante, cioè “senza significato”.

Quando si innamora e quando ama, l’uomo dunque ama innanzitutto un corpo e poi il suo carattere e poi la sua intelligenza. Non ama altro.

Ciò che chiamiamo “spirito” per me è null’altro che l’armonizzazione equilibrata di caratteristiche fisiche, caratteriali e intellettuali; non altro.

Armonizzazione che non è affatto scontata o particolarmente diffusa in natura.

Infatti, ci sono persone che sono belle dal punto di vista fisico, ma non lo sono affatto dal punto di vista del carattere o da quello dell’intelligenza.

Come ci sono persone che sono simpatiche e gradevoli dal punto di vista del carattere, ma brutte fisicamente e insignificanti sul piano intellettuale.

Infine, ci sono persone di grande intelligenza e di alto livello culturale, ma sgradevoli o decisamente brutte sul piano fisico e sgraziate dal punto di vista del carattere.

E’ l’insieme armonioso, integrato, delle caratteristiche intellettuali, caratteriali e perfino fisiche di una persona che costituisce la sua spiritualità.

Non ci si innamora, dunque, della pura spiritualità di una persona, che in sé non esiste, ma di certe sue determinate caratteristiche fisiche, caratteriali e intellettuali, molto concrete, che ce la rendono attraente e, per certi versi (almeno nella fase dell’innamoramento), addirittura unica.

L’attrazione, dunque, contrariamente a quanto sostenuto da Victor Frankl, pesa (eccome!) nelle relazioni erotiche.

© Giovanni Lamagna

La volontà del nevrotico

Victor Frankl, nel suo “Logoterapia e analisi esistenziale” (pg. 125 126), così scrive a proposito della volontà del nevrotico: “… non è vero che esiste una debolezza innata della volontà: è il neuropatico che tendenzialmente sottovaluta la propria (…)

Fintanto che un uomo cade nell’errore di credere che ogni tentativo per giungere a una determinata meta è destinato a priori a fallire, non potrà mai compiere alcunché di buono (…)

Allorché nell’intimo ci si propone qualcosa, bisogna al contempo proporsi di non assecondare tutte le facili argomentazioni contrarie che vengono a galla per giustificare la non attuazione del compito che ci si è prefissi.

A me questo ragionamento non convince; in sintesi dice: il nevrotico sottovaluta la sua volontà, nega o non vede le risorse che ha.

Ma è proprio vero?

E se la volontà del nevrotico (o, almeno, di un certo tipo di nevrotico) fosse realmente una volontà (per sua natura e costituzione) debole, fiacca, incapace quindi di essere conseguente ai propositi che pure fa?

Se fosse vero, dunque, che il nevrotico – almeno un certo tipo di nevrotico – è o diventa tale proprio perché ha una volontà zoppa e non perché la sottovaluta, come. Invece, ritiene Frankl?

Io sono propenso a pensare che esistano (almeno) due tipi di nevrotici.

Il primo tipo è dato dal nevrotico confuso, che non ha le idee chiare, che è tirato in opposte direzioni, che a lui appaiono tutte più o meno ugualmente valide, per le quali trova argomentazioni contraddittorie, che confliggono tra di loro.

Questo tipo di nevrotico, una volta chiaritosi le idee e intravista la strada giusta o migliore, è capace, nel senso che ha la forza necessaria (la volontà, di cui si parlava prima) per incamminarsi su di essa.

La sua volontà a questo punto è guidata dalla sua ragione, cioè da quella che una volta si definiva “capacità di discernimento”, che fino a poco tempo prima era annebbiata, confusa e, quindi, bloccata.

Da questo tipo di nevrosi si può guarire: trattasi di “nevrosi noogena”, per usare un’espressione utilizzata proprio da Frankl, cioè una nevrosi che ha la sua radice nella “nous”, nella mente.

C’è però un secondo tipo di nevrotico: questi non ha solo le idee confuse, ma, a mio avviso, ha realmente una volontà impotente.

Anzi, ha le idee confuse – anche e forse soprattutto – perché la sua volontà è impotente; e, quindi, lo fuorvia, gli prospetta davanti strade sbagliate.

Questo tipo di nevrotico – hai voglia di indicargli la strada giusta – imboccherà sempre quella sbagliata.

E non perché non veda o sia incapace di vedere qual è la strada giusta, ma perché la sua “volontà” è incapace di tenere dietro alla strada giusta, che pure la ragione è stata capace di indicargli.

E’ incapace di operare scelte e compiere azioni conseguenti a ciò che la ragione gli ha indicato. E’, appunto, una volontà debole, fiacca.

Quindi il nevrotico di cui stiamo parlando qui non è che “sottovaluti” la sua volontà, come sostiene Frankl. No, a me non pare così.

E’ che la sua volontà è davvero debole, è realmente incapace cioè di “giungere a una determinata meta”, anche dopo averla chiaramente intravista.

In questo caso ci troviamo in presenza di una “nevrosi psicogena”, per usare un’altra definizione a cui fa ricorso Frankl.

Una nevrosi che, al contrario di quella precedente, non ha le sue radici nella “nous” (mente), ma nella struttura psicoaffettiva profonda (e in larga misura inconscia) del soggetto nevrotico.

Da questo tipo di nevrosi è molto più difficile uscire, guarire, che da quella noogena. E, in parecchi casi, è del tutto impossibile uscire guariti.

Il soggetto afflitto da una nevrosi psicogena si lamenterà continuamente della sua paralisi emotiva, darà l’impressione (ma solo l’impressione) di adoperarsi in tutti i modi per guarirne, farà ricorso perfino alla psicoterapia e, in alcuni casi, a più psicoterapie, dopo il fallimento di quelle precedenti.

Ma in molti casi lo farà solo per salvarsi l’anima, per dire a se stesso “ci ho provato in tutti i modi”.

In realtà i suoi tentativi si riveleranno tutti fallimentari; perché, quando si arriverà al dunque, al momento di operare delle scelte di cambiamento (in altri tempi si sarebbe detto di “conversione”), si tirerà indietro.

La sua volontà imbelle gli impedirà di compierle e resterà tristemente nel pantano delle sue contraddizioni.

© Giovanni Lamagna

L’uomo è libero o no?

Il vero destino – come dice giustamente Victor Frankl nel suo “Logoterapia e analisi esistenziale” (pg. 119) – è ciò che sta alle nostre spalle; è ciò che è avvenuto.

E, infatti, non è un caso (forse) se c’è assonanza tra il termine “fatum” (destino) e il termine “factum” (ciò che è stato fatto, è avvenuto, è trascorso).

Il futuro mai e poi mai potrà apparirci come oggetto del destino, perché si profila davanti a noi come oggetto di scelta tra varie possibilità.

Il futuro è, quindi, la dimensione temporale della libertà, mentre il passato lo è della necessità, del fato, appunto.

La vita dell’uomo, dunque, si dipana tra queste due opposte polarità, teoricamente inconciliabili: ciò che è avvenuto non poteva che essere come è stato (factum, fatum); ciò che avverrà sarà come noi decideremo che sia, frutto di nostre scelte (almeno in apparenza, almeno noi così “sentiamo e crediamo” che sia).

A questo punto, come al solito quando si inizia una riflessione simile, si pone la domanda: l’uomo è libero oppure no?

E la mia risposta è: l’uomo non è libero; ma è condannato a vivere come se lo fosse.

Sartre (soprattutto il primo Sartre, quello de “L’essere e il nulla”) di questa affermazione prendeva come vera solo la seconda parte.

E, secondo me, sbagliava.

E, forse, lo stesso Sartre, il secondo Sartre, quello delle biografie su Genet, Baudelaire, Flaubert, ad un certo punto se ne è reso conto ed ha corretto, almeno in parte, certe sue affermazioni de “L’essere e il nulla”.

Come ha dimostrato Massimo Recalcati nel suo saggio “Ritorno a Jean-Paul Sartre” (2021).

Per me, infatti, le affermazioni di cui prima (“l’uomo non è libero; ma è condannato a vivere come se lo fosse”) sono vere entrambe.

Assurdamente, antinomicamente vere entrambe.

Come già aveva sostenuto Kant, che – a mio avviso – era filosofo molto più profondo e rigoroso di Sartre.

© Giovanni Lamagna