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L’amore è per sempre?

Massimo Recalcati, nel suo “Mantieni il bacio” (pag. 32), afferma che, nel momento in cui io dico ad una persona “ti amerò per sempre”, il mio amore è veramente per sempre, io mi prometto veramente e sinceramente per l’eternità.

Anzi, sostiene Recalcati, l’amore DEVE essere per sempre. L’amore – per sua natura – è eterno. Altrimenti non è vero amore.

Il che non vuol dire (sembra quasi costretto a dover ammettere lo stesso Recalcati) che l’amore poi duri effettivamente per sempre, in eterno, come io avevo promesso.

Come si spiega allora questo paradosso (che io condivido), potremmo dire anche questa contraddizione, evidente nelle parole di Recalcati?

Come posso promettere amore eterno, addirittura sostenere che l’amore non è vero amore se non è eterno (almeno nelle intenzioni), se poi molti, tanti, esiti amorosi sembrano contraddire questa realtà, la realtà dell’ “amore per sempre”?

Recalcati la risolve così: la persona che ad un certo punto della relazione dice “non ti amo più” non è la stessa persona che in un tempo precedente, più o meno remoto, aveva detto “ti amerò per sempre”.

Non è la stessa persona. Perché ognuno di noi col tempo cambia, non rimane mai la stessa persona.

Questa cosa l’aveva già sostenuta, come tutti sappiamo, a suo tempo Eraclito, affermando come l’uomo non potesse “mai fare la stessa esperienza per due volte, giacché ogni ente, nella sua realtà apparente, è sottoposto alla legge inesorabile del mutamento”.

E, però, a me sembra, francamente, che la soluzione trovata da Recalcati sia piuttosto debole, che nasconda un trucco, un trucco logico-dialettico.

Infatti, è senz’altro vero che, nel momento in cui giuro alla mia amata amore eterno, io sono del tutto sincero. E, quindi, nessuno potrà accusarmi di essere stato spergiuro, quando e se il mio amore ad un certo punto dovesse esaurirsi.

Però è anche vero (a meno di non essere ammalato di infantilismo o di vivere nelle nuvole o, peggio, di confondere la realtà con la pura e sdolcinata retorica romantica) che, nel momento in cui dico “ti amerò per sempre”, io sono perfettamente consapevole che nulla e nessuno potrà garantire che i miei sentimenti rimangano intatti nel tempo; addirittura eterni.

Allora, forse, non sarebbe più onesto e corretto dire al proprio amato, nel momento in cui gli/le si dichiara il proprio amore, parole diverse dalle classiche e un po’ retoriche “Ti amerò per sempre!”?

Ad esempio, parole come queste: “Io in questo momento ti amo con tutto il mio cuore, tutte le mie forze e tutta la mia intelligenza.

E farò di tutto per non far sfiorire, depauperare, distruggere, evaporare, lo stato dell’anima, che in questo momento sto provando.

Non ti giuro, però, amore eterno, perché non posso giurare su quello che mi accadrà e su quello che sarò in futuro.

Posso solo prometterti che, se il sentimento di amore che in questo momento provo per te dovesse venire meno, non verrà meno il profondo rispetto che provo assieme all’amore e che ti dovrò anche se e quando dovesse venir meno l’amore.

Sarò sempre sincero con te e mai ti ingannerò sullo stato reale della nostra relazione.

Tu saprai sempre da me cosa io provo realmente verso di te, fosse anche il venir meno dell’amore che in questo momento provo per te”.

Mi rendo perfettamente conto e sono pienamente consapevole che questa dichiarazione è molto meno romantica, nel senso di emotivamente coinvolgente, anzi travolgente, e che soprattutto non ha l’efficacia sintetica, direi da “baci Perugina”, di quella che si esprime nella frase classica “Ti amerò per sempre!”.

E, tuttavia, ritengo che essa sia molto più realistica e, quindi, matura, vera e responsabile di quella classica, romantica dell’amore per sempre.

E riesca a conciliare il naturale, istintivo, desiderio di durata che ognuno di noi (compreso il sottoscritto) sinceramente vorrebbe dare al proprio sentimento d’amore, quando esso nasce, con la consapevolezza della sua inevitabile e strutturale precarietà: la precarietà intrinseca in tutto ciò che è umano.

© Giovanni Lamagna

Il narcisismo e il suo superamento.

In ognuno di noi è presente, fin dalla nascita o, perlomeno, fin dai primi anni della nostra vita, una componente narcisista, che è una potente spinta all’azione, forse la più potente che esista.

Ora questa componente è vero che costituisce l’energia necessaria, anzi indispensabile, per mettere in moto la nostra spinta ad agire. Ma è anche vero che, se resta la motivazione dominante di essa, la inquina (e a volte gravemente) sia nelle sue modalità che nei suoi esiti finali.

Occorre, quindi, che noi lavoriamo (spiritualmente e psicologicamente: i due termini per me sono quasi sinonimi) sul nostro narcisismo.

E’ necessario che lo mettiamo in conto e che non ce ne sentiamo in colpa al punto da farcene paralizzare.

Ma è anche necessario che non ci arrendiamo passivamente ad esso, né tantomeno che ce ne crogioliamo, come se esso fosse l’equivalente omologo dell’assertività e della giusta volontà di affermare noi stessi.

Occorre che lavoriamo su noi stessi per purificare la motivazione iniziale del nostro agire (fatalmente e inevitabilmente narcisista) e farla coincidere il più possibile con una motivazione oggettiva, quasi impersonale, una specie di chiamata (vocatio) che ci viene rivolta dall’esterno a realizzare un determinato compito, anzi il compito stesso (complessivo) della nostra vita.

In questo modo usciamo da noi stessi, dal nostro Ego (inevitabilmente narcisista) e guardiamo al di fuori di noi, all’Alter Ego, che ci stimola e ci spinge all’azione.

Non perché questo ci fa belli, ci rende piacenti agli altri e ci rimanda il loro gradimento, il loro consenso o, addirittura, il loro amore.

Ma perché ciò è giusto, è bello, è vero, è utile in sé, a prescindere dal nostro immediato tornaconto, interesse, piacere immediato.

Nella consapevolezza, però, che, se è giusto, bello, vero e utile in sé, non può non esserlo, in fondo, anche per noi in quanto singoli individui.

In quanto ognuno di noi è parte di un tutto. E o si identifica con il tutto o non potrà mai stare veramente bene.

A pensarci bene sta proprio qui la differenza tra chi è narcisista e chi narcisista non è.

Il narcisista sente e pensa che il mondo coincida con il proprio Sé. Che al di fuori di sé non ci sia nulla. Perlomeno nulla che abbia una qualche importanza e valore.

Chi non è narcisista sa e sente che fuori di sé c’è tutto un mondo che è altro da sé. E che in fondo è suo interesse profondo non rimanere chiuso in se stesso, ma aprirsi il più possibile al mondo che è fuori di sé.

Fino a, in qualche modo e il più possibile, far coincidere se stesso con il mondo fuori di sé.

Il narcisista è indifferente al bene-essere dell’Altro da sé. Convinto, anzi, che non ci sia un Altro da sé.

Per lui vale la regola: “Pensa solo a te e fregatene degli altri”.

Il non narcisista è consapevole che non ci può essere il bene-essere per sé, se non in connessione e in comunione con l’Altro da sé.

Per lui vale la regola d’oro: “Non fare agli altri ciò che non vorresti gli altri facessero a te e fai agli altri ciò che vorresti gli altri facessero a te”.

Nessuno all’inizio della sua vita è in grado di applicare questa regola. Infatti, il bambino è naturalmente, strutturalmente narcisista.

E, forse, nessuno, sarà mai in grado di applicarla integralmente, fino in fondo, neanche da adulto.

Si può uscire dal narcisismo solo con l’educazione e con uno sforzo personale e graduale, figlio della consapevolezza che il narcisismo protratto oltre l’infanzia diventerebbe una vera e propria malattia.

Purtroppo alcuni rimangono narcisisti, quindi bambini, per tutta la loro vita. Manco si rendono conto che il loro infantilismo non ha più niente a che fare con la bellezza e il candore che sono propri dei bambini.

Giovanni Lamagna