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Dopo aver letto (e riletto) “Al di là del principio di piacere” di Sigmund Freud.
Giudizio sintetico e complessivo: a me pare che in questo saggio Freud faccia più il biologo che lo psicologo.
Nel senso che tende a ricavare delle ipotesi, più che delle vere e proprie tesi (lui stesso, infatti, le presenta con molta circospezione, dichiarando la sua disponibilità a rivederle in presenza di argomenti contrari evidenti), sul funzionamento della psiche umana, a partire dall’osservazione del funzionamento biochimico degli organismi, sia unicellulari che pluricellulari.
Se questa mia impressione è giustificata (come credo che sia), allora mi chiedo subito: è fondato scientificamente un tale approccio? E rispondo: no, non mi sembra fondato!
E perché? Perché la psiche umana, pur non potendo – questo è indubbio – essere separata dal soma e, quindi, da fattori che hanno a che fare con la biochimica, non si riduce ad essi, ma in qualche modo (anche se in un modo che non riusciamo – almeno al momento – a spiegare) li trascende.
Per cui le sue pulsioni (termine, che, detto tra parentesi, mi sembra inappropriato attribuire – come fa qui Freud – alle dinamiche e alle tendenze degli organismi elementari, meno che mai a quelli unicellulari) non possono essere spiegate – io ritengo – con lo stesso metodo di osservazione e quindi, meno che mai, con lo stesso linguaggio delle scienze naturali.
Ho l’impressione che Freud, nato medico, abbia inventato un metodo di analisi della psiche che si distaccava nettamente e radicalmente da quello neurologico e psichiatrico tradizionale; pagando per questo prezzi (almeno iniziali) molto elevati all’ambiente scientifico nel quale si era formato ed a quello professionale nel quale esercitava il suo lavoro.
Ma che col tempo (siamo nel 1920 quando pubblica questo suo saggio: era quindi al culmine della sua parabola scientifica e professionale) anche a causa di una weltanshaung che in lui era rimasta sostanzialmente positivista, abbia recuperato un metodo di analisi di tipo più tradizionale, che dava molto peso alle indagini di laboratorio, di natura empirica e naturalistica.
In questo saggio ha, infatti, cercato di sovrapporre e intrecciare i due piani, ma la mia valutazione è che ci sia riuscito poco e male, che abbia fatto più confusione che chiarezza.
La mia tesi è che i fenomeni psichici per loro natura tendano a sfuggire alla logica di quelli somatici, altrimenti manco si potrebbe e dovrebbe parlare di una distinzione tra i due.
Freud, invece, mi pare che qui abbia cercato di spiegare i primi coi secondi, come se essi camminassero in parallelo.
Io credo, invece, che essi camminino su due binari completamente diversi, se non (come pure avviene in certi casi) opposti.
Credo, ad esempio, che mentre il corpo (il soma) viaggi in direzione della morte, per meccanismi interni legati alla pura biologia, l’anima (la psiche), tranne casi particolari, di natura patologica, aspiri piuttosto a quella che potremmo definire immortalità (termine che non ho difficoltà o esitazione ad usare qui, visto che anche Freud, in qualche passaggio del suo libro, lo utilizza).
Credo che, quindi, sia del tutto improprio parlare di “pulsione di morte”, come fa Freud, se per pulsione intendiamo una spinta, una carica energetica, che è più di natura psichica che somatica.
Dovremmo parlare, piuttosto, di una “tendenza organica e costitutiva verso la morte” (manco di istinto; l’istinto è un meccanismo biologico che mira alla conservazione della vita, non certo alla morte), che è insita nel soma, già nel momento in cui esso nasce, anzi nel momento stesso in cui esso viene concepito.
E questa “tendenza”, essa sì, obbedisce totalmente alle logiche della biochimica.
Ma tale nozione, a mio avviso, non può essere applicata alla vita psichica degli esseri umani, in quanto la vita psichica tende alla conservazione di sé stessa e dello stesso soma, anzi se ne avesse il potere tenderebbe addirittura alla sua immortalità.
Solo in un caso (e solo in senso metaforico) forse è possibile parlare di “pulsione di morte”; nel caso in cui la vita psichica di un individuo si ammala e, perciò, va contro sé stessa, contro la propria stessa natura.
Ma in questo caso la genesi di un tale genere di pulsione (di morte – ripeto – in senso del tutto metaforico) non può certo essere ricercata in fattori biochimici; ma va ricercata in cause del tutto diverse, di natura ambientale e storica.
E’ la storia, la vicenda umana della persona “ammalata” (nevrotica o psicotica che sia) a spiegare, in questo caso, una tale pulsione (come, del resto, la psicoanalisi ci ha ottimamente insegnato), non certo la biochimica.
© Giovanni Lamagna
Dio, gli uomini, il senso della nudità. (Genesi 3, 21 – 3, 24)
29 ottobre 2015
Dio, gli uomini, il senso della nudità. (Genesi 3, 21 – 3, 24)
3,21 Dio il SIGNORE fece ad Adamo e a sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì.
3,22 Poi Dio il SIGNORE disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male. Guardiamo che egli non stenda la mano e prenda anche del frutto dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre».
3,23 Perciò Dio il SIGNORE mandò via l’uomo dal giardino d’Eden, perché lavorasse la terra da cui era stato tratto.
3,24 Così egli scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino d’Eden i cherubini, che vibravano da ogni parte una spada fiammeggiante, per custodire la via dell’albero della vita.
Dopo aver condannato Adamo e sua moglie Eva e averli cacciati dall’Eden, la prima preoccupazione del Signore Dio è quella di vestirli, di coprire le loro nudità.
In questo caso il pudore, la vergogna per la nudità, non è degli uomini che si scoprono nudi, ma di Dio stesso, che non sopporta di vederli nudi.
C’è qualcosa evidentemente nella nudità degli uomini che spaventa Dio. E, infatti, Egli dice: “Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male. Guardiamo che egli non stenda la mano e prenda anche del frutto dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre”.
Questo ci dice che c’è un evidente nesso tra la nudità e la conoscenza del bene e del male e, perfino, tra la nudità e l’albero della vita, il cui frutto può dare l’eternità. Dio ha paura che l’uomo gli rubi il mestiere, che diventi come lui.
Già mangiando dall’albero della conoscenza si è appropriato di una delle sue facoltà principali: quella di discernere il bene dal male.
Adesso c’è il rischio che mangiando dall’altro albero, quello della vita, si appropri dell’altra facoltà divina, quella dell’immortalità. E Dio questo non può permetterlo. Per questo lo copre, nel senso che gli dà il pudore, il senso della vergogna, per aver osato sfidare il potere di Dio.
Ma da questo momento in poi il destino dell’uomo è implicitamente segnato: egli dovrà liberarsi anche di questa seconda paura e della vergogna ad essa collegata. Dovrà sfidare Dio anche su questo secondo terreno. Dovrà tornare insomma alla sua nudità, cioè alla sua innocenza, iniziale. Dovrà affrontare i suoi sensi di colpa e superarli.
Anche se sulla sua strada incontrerà i cherubini, che con le loro spade fiammeggianti cercheranno di impedirgli l’accesso all’albero della vita.
Chi sono i cherubini? Sono angeli, cioè entità puramente spirituali, le più simili a Dio. Quindi alleati di Dio contro l’uomo.
L’uomo nella sua lotta contro gli angeli dovrà appropriarsi della sua natura divina, cioè spirituale, ma, al contrario degli angeli, senza negare la sua natura animale, materiale, corporea, che è simboleggiata (appunto) dalla sua nudità.
L’uomo insomma dovrà riappropriarsi della sua nudità, se vorrà trovare la sua piena umanità, che non è puramente spirituale, ma è fatta di spirito e carne, allo stesso livello, con pari dignità, senza nessun primato dell’uno sull’altra o viceversa.
L’uomo, in altre parole, dovrà diventare come Dio (cioè un essere pienamente spirituale), pur continuando a restare pienamente uomo ( cioè un essere materiale, corporeo).
(14, fine)
Giovanni Lamagna
Recensione del film “Adaline”.
27 ottobre 2015
Recensione del film “Adaline”.
Ho appena visto Adaline. Un bel film americano di quest’anno (2015).
Racconta una storia fantastica, in parte favola in parte fantascienza. Che si basa, infatti, su una trovata senza nessun fondamento realistico, del tutto inventata, ma sulla quale si sviluppa un racconto che incrocia i temi (molto realistici e concreti, invece) dell’innamoramento, dell’amore, del passare del tempo, dell’invecchiamento.
La trovata è questa: Adaline, nata nel 1908, a ventinove anni ha un tremendo incidente d’auto, che le procura un trauma misteriosissimo: il suo corpo smette improvvisamente (dopo l’incidente) di invecchiare e si mantiene intatto attraverso gli anni.
Il fatto è noto solo all’unica figlia (il marito le è morto in un incidente sul lavoro qualche anno prima), figlia che, infatti, nel film appare molto più vecchia della madre.
La vita di Adeline ne risulta sconvolta: il risultato è che non riesce a legarsi a nessuno, è sempre in fuga, ogni dieci anni cambia lavoro, città e anche identità anagrafica.
Quando un giorno (a 107 anni di vita vissuta, ma a soli 29 realmente dimostrati) incontra un uomo che si innamora perdutamente di lei e che le fa provare antiche sensazioni e sentimenti, in tanti anni sempre da lei rimossi e allontanati, sia pure con grande dolore.
Questa volta, però, dopo un fatto sconvolgente (che qui non racconterò, per non svelare completamente la trama del film), decide di non scappare più, di fermarsi, di lasciarsi andare e assecondare i suoi sentimenti.
La storia si conclude, quindi, come tutte le grandi storie romantiche, con un (però) non scontato “… e vissero felici e contenti”.
Detta così, può sembrare perfino banale, oltre che irrealistica e quindi incredibile.
In realtà il film non è affatto banale, perché a partire da un artifizio indubbiamente fantastico, diventa e induce una bella riflessione su tutta una serie di temi a cui ho già fatto cenno prima e che vorrei adesso provare ad approfondire un po’.
Innanzitutto il tema dell’invecchiamento. A tutti noi sembra scontato che, se potessimo, fermeremmo il tempo; che, potendo scegliere, ognuno di noi deciderebbe di restare sempre giovane.
Ma la vicenda del film induce, invece, a riflettere e a mettere in discussione questi che di primo acchito sembrerebbero un sentimento e un desiderio scontati.
E’ proprio vero, infatti, che a noi piacerebbe vedere invecchiare i nostri figli mentre noi ci manterremmo sempre giovani?
E’ proprio vero, inoltre, che saremmo contenti di restare eternamente giovani, mentre il nostro partner e tutte le persone care accanto a noi invecchierebbero secondo natura?
Non credo che le risposte a queste domande sarebbero tanto scontate, né che sarebbero sicuramente affermative.
Segno che la condizione di un’eterna giovinezza (o, addirittura, di immortalità) corrisponde sì a un desiderio profondo e intimo di ogni essere umano (tanto è vero che si sono anche costruiti dei miti su di essa), ma solo se fosse condivisa dagli altri nostri simili e non vissuta in (a questo punto, più tragica che piacevole) solitudine.
Un altro tema centrale del film è poi (come è ovvio) l’amore e, prima ancora, l’innamoramento. Potenze sconvolgenti, che neanche il passare del tempo ha la capacità di annullare del tutto.
Infatti, la memoria di un innamoramento vissuto alcuni decenni prima ha il potere di scuotere profondamente la vita tranquilla di un anziano signore felicemente sposato da 40 anni e sinceramente devoto della sua altrettanto anziana consorte.
L’amore di Adaline per il giovane uomo, che la corteggia e spasima per lei, ha la potenza di sconfiggere le infinite paure, che pure in passato avevano sempre vinto sul suo desiderio di una vita normale e felice.
Segno che l’amore non ha età e che è la forza più potente che muove l’universo. Anche se l’amore, l’amore vero ha poi bisogno di basi reali, concrete (di cui, ad esempio, l’invecchiare insieme è parte) e non solo di sogni e proiezioni fantastiche (quale può essere l’attrazione per un corpo immaginato come eternamente giovane).
In conclusione la morale della favola raccontata da questo film mi sembra la seguente (e niente affatto banale): meglio invecchiare con l’amore e nell’amore, che restare eternamente giovani ma in solitudine e senza amore.
Giovanni Lamagna
L’utile, il bello, il vero, il buono, la vocazione umana all’immortalità. (Genesi 2, 9)
9 settembre 2015
L’utile, il bello, il vero, il buono, la vocazione umana all’immortalità. (Genesi 2, 9)
“2,9 Dio il SIGNORE fece spuntare dal suolo ogni sorta d’alberi piacevoli a vedersi e buoni per nutrirsi, tra i quali l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.”
Gli alberi che il Signore fa spuntare nel giardino dell’Eden sono non solo “buoni per nutrirsi” ma anche “piacevoli a vedersi”.
Che cosa ci dice questo versetto con queste parole?
Che l’uomo sin dal primo momento in cui è venuto al mondo ha avuto bisogno non solo di ciò che è “utile” (buono per nutrirsi), ma anche di ciò che è “bello” (piacevole a vedersi); non solo di ciò che è utile, necessario alla sua sopravvivenza materiale, ma anche di ciò che è utile, necessario alla sua sopravvivenza spirituale.
Questo versetto ci dice poi che tra gli alberi piantati dal Signore ce ne sono due speciali, diversi da tutti gli altri, unici nella loro particolarità: l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male.
Il primo sta a dirci che l’uomo ha una speciale vocazione alla vita, starei per dire all’immortalità. L’uomo, nel momento stesso in cui nasce, comincia (fisicamente) a morire. Eppure egli è chiamato a fare di tutto per ritardare questo momento, anzi per opporsi ad esso.
L’albero della vita è il simbolo, la metafora di questa vocazione umana a lottare con la morte, sia in senso fisico (per quello che potrà) ma, soprattutto, in senso spirituale (con tutte le opere dello spirito che sarà capace di realizzare e che in qualche modo lo renderanno immortale).
L’albero della conoscenza del bene e del male sta a significare che l’uomo ha bisogno non solo di ciò che gli è materialmente necessario per sopravvivere, non solo della bellezza (che è la prima condizione per sopravvivere spiritualmente), ma anche della conoscenza, cioè della ricerca della “verità” (che è la seconda condizione per sopravvivere spiritualmente).
E la conoscenza gli è utile, anzi necessaria, per distinguere il bene dal male (che è la terza condizione indispensabile alla sua vita spirituale).
L’uomo dunque, per sopravvivere o, meglio, per vivere come gli si addice, ha bisogno indubbiamente e in primo luogo del cibo, ma subito dopo e necessariamente ha bisogno del bello, del vero e del buono.
(2, continua)
Giovanni Lamagna