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Sulla felicità

Traggo spunto per questa riflessione dalla lettura delle pag. 15-17 di un libro scritto da Diego Fusaro, “Caro Epicuro” (Piemme; 2020), dedicate al tema della felicità.

Che cosa è dunque la felicità per me? Ammesso che essa esista, che sia possibile sperimentarla a noi umani.

Per rispondere a tale domanda distinguerei questa parola da altre nozioni, concetti, che spesso vengono evocati quando si tratta di felicità, quasi ne fossero sinonimi o quantomeno fossero a lei contigui, se non proprio affini.

Questi concetti sono quello di piacere, quello di assenza di dolore e quello di pienezza dell’essere (che vengono, non a caso nominati, nel breve testo di Fusaro); ai quali io aggiungerei quello di gioia e quello classico, tipico dell’antica Grecia, cioè quello di “eudaimonia”.

Cercherò allora per ciascuno di essi di ragionare se e in che misura hanno a che fare con il concetto, anzi con l’esperienza della felicità.

Per Epicuro, come non manca di ricordarci Diego Fusaro, felicità e piacere sono sostanzialmente sinonimi.

Qui è appena il caso di evidenziare che Epicuro non parla di un piacere smodato e senza limiti, quello che Lacan definirà “godimento mortifero”, ovverossia il godimento dei viziosi, che finiscono per affogare e infine perire nella loro ricerca del piacere.

Il piacere di cui parla Epicuro è un piacere misurato, che mira ad eliminare il dolore. E’, ad esempio, il piacere che dà il bere che elimina il dolore della sete, quello del mangiare che elimina il dolore della fame.

Non è quindi il bere che provoca ubriacatura, né il mangiare che provoca vomito. Ubriacatura e vomito, infatti, hanno ben poco a che fare col piacere.

Sembrerebbe allora che per Epicuro la felicità consista nell’assenza del dolore, ovverossia nel piacere che elimina il dolore.

E qui giustamente Fusaro si interroga: è vero che la felicità sta in questo, nell’assenza di dolore?

E risponde: no, la felicità trova nell’assenza del dolore una sua condizione imprescindibile, la sua condizione negativa per sussistere, ma non può identificarsi con la semplice assenza del dolore.

Infatti (e questo lo aggiungo io) quante persone non sono affatto in una condizione di dolore (ovverossia di privazione, almeno apparente) e non sono affatto felici, almeno non lo sembrano affatto.

Ci sono perfino ricchi, che vivono in una condizione di abbondanza di beni, conducono una vita da sbafo, eppure affondano nella noia più profonda, se non addirittura nell’angoscia mortale.

Quanti ricchi arrivano perfino a suicidarsi, perché infelici!

Diverso dal concetto di piacere è quello di gioia.

Il piacere ha che fare principalmente col materiale, col corporeo: ci procura piacere ciò che ci procura sensazioni di benessere fisico.

La gioia, invece, ha a che fare più con lo psichico: ci procurano gioia quelle situazioni che ci donano un benessere psicofisico, delle emozioni e dei sentimenti di benessere.

Il piacere, insomma, in estrema sintesi, ha a che fare con le sensazioni, la gioia con le emozioni e i sentimenti.

A mio avviso le gioie sono più affini all’esperienza della felicità di quanto non lo siano i piaceri.

E’ difficile, infatti, che la gioia si accompagni alla noia e meno che mai all’angoscia.

Mentre, come abbiamo visto, talvolta noia e perfino angoscia si accompagnano ai piaceri.

E però manco la gioia può essere definita sinonimo di felicità.

Infatti, i sentimenti ed ancora di più le emozioni che possiamo definire “gioie” hanno un che di transeunte, di passeggero: ora ci sono e dopo qualche istante non ci sono più.

La felicità, invece, è una condizione esistenziale che noi associamo non al singolo istante o a singoli momenti distanziati tra di loro, ma a un insieme di momenti, anzi ad una intera e prolungata condizione di vita.

A questo punto allora potremmo chiederci: esiste la felicità? può esistere la felicità?

La mia risposta a questa domanda è netta, drastica: no, non esiste, non può esistere.

L’uomo, ciascuno di noi uomini, può sperimentare singoli momenti di felicità, ma non può ambire a una condizione perpetua, costante, indefinita e indeterminata di felicità.

Può aspirare alla gioia, a momenti di gioia, non può pretendere di essere felice.

Le gioie, infatti, nella condizione in cui è stato “gettato” l’uomo al momento della nascita, si alterneranno fatalmente con momenti di dolore sia fisico che psichico.

Quindi non potranno mai garantire quella che pensiamo idealmente, astrattamente, concettualmente, come felicità.

Qualcosa che si avvicina alla felicità, ma che comunque non coincide con essa, è quella che viene definita ed è stata definita da Fusaro “pienezza di essere”; ovverossia la condizione di una “vita piena”.

In cosa consiste questa condizione?

Non certo nell’assenza totale di dolori, sofferenze e pene; sappiamo bene che a nessun uomo è destinata una simile condizione esistenziale.

Essa consiste allora nel fatto che l’uomo sente profondamente di stare a realizzare o di aver realizzato, quando la sua vita si avvia al tramonto, la sua vocazione fondamentale, il compito (per usare un termine caro a Victor Frankl) a cui era stato chiamato quando era nato.

Questa condizione di fondamentale soddisfazione dell’essere (che i Greci definivano di “eu-daimonia”, cioè di sostanziale accordo con il proprio “buon demone” interiore) è forse la condizione umana più vicina a quella che immaginiamo sia la felicità.

Essa però si accompagna pur sempre a dolori e fatiche.

E, quindi, pur dandoci una qualche esperienza di cosa sia o potrebbe essere la felicità, ne è comunque ben distinta, anzi distante.

La felicità, in altri termine, non è una condizione possibile all’uomo; perlomeno non lo è in questo mondo; in un altro mondo, se esistesse, dopo questa vita, chissà, forse…

© Giovanni Lamagna

L’essere umano e la dimensione religiosa della vita

Mi sto facendo sempre più convinto, con gli anni, che l’uomo senza una qualche forma di sensibilità e di pratica religiosa non possa stare bene, non possa vivere bene.

In altre parole, che la dimensione religiosa è strutturale, congenita all’essere umano. Così come il respirare, l’aver bisogno di cibo, del dormire.

Il bisogno religioso è dunque un bisogno fondamentale come gli altri bisogni. Ancora più del sesso, che in realtà non è manco un vero bisogno, ma qualcosa al confine tra bisogno e desiderio.

Per cui, a mio avviso, si può vivere (e anche abbastanza bene) senza sesso, mentre non si può vivere, perlomeno non si vive bene, senza soddisfare il bisogno religioso che alberga in ognuno di noi.

A questo punto però sento la necessità di chiarire bene cosa intendo io per bisogno religioso, per dimensione religiosa della vita.

Chiarisco in premessa: nulla che abbia a che fare necessariamente con l’adesione ad una determinata fede e ad una religione storicamente date. Anche se queste possono essere intese come risposte (alcune delle risposte possibili) al bisogno religioso, che – come dicevo prima – è connaturato all’uomo, nasce con lui.

Allora quali sono le caratteristiche (in positivo) del bisogno religioso?

Io direi che la prima caratteristica è data dal bisogno che ha l’uomo di trascendersi, di andare oltre il puro dato materiale dell’esistenza.

L’animale, oltre al bisogno di procurarsi da bere, del cibo, una tana o un nido (soprattutto per i suoi cuccioli), di accoppiarsi per riprodurre la sua specie, di giocare di tanto in tanto, di riposare e dormire il tempo necessario riprendere le forze, non ha altre ragioni per vivere. In altre parole possiamo dire che l’animale vive per sopravvivere.

L’uomo no. Le ragioni puramente biologiche che bastano agli altri animali, a lui non bastano. Egli ha bisogno di trovare un senso, di dare un senso alla sua vita. Ha bisogno dunque di andare oltre la pura sussistenza, oltre la dimensione puramente materiale della vita, ha bisogno dunque di trascendere la sua natura animale.

E che cosa può dare un senso e un significato alla vita dell’uomo, capaci di farlo trascendere, andare oltre il puro dato biologico?

Una prima risposta può essere questa: il successo, la fama, la gloria, il riconoscimento sociale, il potere.

Una seconda risposta è la ricchezza, la “roba”, l’accumulo e il possesso di quanti più beni materiali è possibile.

Questi fattori (il successo, la fama, il potere, il prestigio sociale, la ricchezza…) possono essere considerati a tutti gli effetti dei “valori”, cioè realtà a cui gli uomini (almeno alcuni uomini) danno grande valore Quindi in grado di fondare una vera e propria religione; una religione del tutto laica ovviamente, ma pur sempre una religione.

Religione da questo punto di vista è un qualsiasi orientamento esistenziale che si unifica, concentra attorno a dei valori fondamentali, che in una ipotetica gerarchia hanno più peso degli altri.

La religione del successo sociale e della ricchezza è una religione che assume come suo carattere fondante quello della competizione, anche esasperata, tra gli esseri umani.

Il mio successo, infatti, dipende dal tuo insuccesso, dalla tua sconfitta. Così la mia maggiore ricchezza dipende dal tuo impoverimento. Si potrebbe anche dire che questa è la religione dell’ “homo homini lupus” e del “mors tua vita mea”.

Questa religione, però, a pensarci bene non è molto diversa da quella che indubbiamente ad altri livelli e in altre forme, praticano anche gli animali. Anche tra gli animali, infatti, c’è quello che tende a prevalere sugli altri, ad accaparrarsi le femmine migliori e le porzioni di cibo più abbondanti. Anche tra gli animali insomma vige la “legge del più forte”.

La religione del successo e della ricchezza si situa quindi ad un livello basso della scala evolutiva dell’homo sapiens. E’ propria dell’homo sapiens, che si è ben poco trasceso rispetto ai primi ominidi da cui deriva per via evolutiva e in fondo anche dalle altre specie animali.

L’uomo, però, nel corso dei secoli, anzi dei millenni (non si capisce bene perché, però è questo un dato di fatto da registrare) ha sentito il bisogno di trascendersi ulteriormente, di passare da una religione fondata sui valori della lotta e della competizione ad una fondata sui valori della pace, della solidarietà, della compassione verso il più debole, della fraternità non solo verso i consanguinei che è propria di ogni specie animale, ma verso l’uomo in quanto uomo, cioè della fraternità universale…

In nome della consapevolezza che ciascuno di noi è parte di un Tutto e che, quindi, le varie parti del Tutto non possono stare bene (raggiungere il benessere spirituale, ma a volte anche quello fisico) se il bene dell’una parte va a scapito dell’altra.

In nome della consapevolezza, insomma, che la mia vita non solo non si oppone quella degli altri, ma anzi è profondamente connessa con la loro. Altro che “mors tua vita mea”! Secondo questa visione religiosa del mondo, dunque, “mors tua etiam mors mea”, mentre “vita tua etiam vita mea”.

Sono questi i valori (chi più e chi meno, coniugati in forme e modi diversi) che, non a caso, caratterizzano la maggior parte delle religioni che si sono affacciate nei vari punti del pianeta nel corso della Storia.

Ma sono ancora questi i valori che hanno caratterizzato le varie forme di religiosità laica che hanno caratterizzato alcune culture che abbiamo conosciuto, soprattutto in questi ultimi cinque/sei secoli: in modo particolare, l’Umanesimo, l’Illuminismo e il Socialismo.

Per coltivare tali valori, gli uomini hanno dovuto sviluppare quella che di solito si definisce “la vita interiore”. Che non è una vita altra e alternativa rispetto a quella bio-fisiologica, ma è una vita distinta, che non si riduce alla prima.

La vita interiore, che altro non è che la vita dello spirito, ha, infatti, bisogno, per essere coltivata, di alcune condizioni, potremmo dire anche pratiche o abitudini, così come la vita del corpo ha bisogno degli alimenti, del riparo dalle intemperie, del riposo e del sonno giornaliero e, quando si ammala, delle giuste medicine.

Quali sono le pratiche di cui ha bisogno la vita interiore? Ne elenco alcune e so di dimenticarne altre. Indico quelle che a me sembrano le più importanti. La vita interiore o spirituale che dir si voglia ha bisogno di:

-silenzio e raccoglimento, laddove l’uomo, che vota la sua vita al successo e all’accumulo di beni, preferisce il chiasso e lo stordimento del mondo esteriore;

– di letture, riflessioni, meditazione, perché la pratica di certi valori non è spontanea, ma abbisogna di un esercizio continuo che in qualche modo va contro gli impulsi spontanei e gli istinti;

– di riti individuali ma anche collettivi, che rafforzino il sentire comune e condiviso dei valori scelti a livello individuale.

Non a caso queste tre pratiche spirituali sono presenti in tutte le forme di religiosità che l’uomo ha finora conosciuto nella sua storia, perfino in quelle che non si riconoscono esplicitamente come espressione di religiosità, ma che per me in qualche modo comunque lo sono, anche se sono forme di religiosità del tutto laiche.

Per concludere e riepilogare, sono convinto che:

1) l’uomo non possa prescindere dal formarsi una sua visione del mondo, una sua weltanshaung, quindi una sua visione religiosa del mondo;

2) questa visione del mondo può essere fondamentalmente di due tipi: o competitiva o solidaristica;

3) la prima assicura (talvolta) un benessere immediato ed effimero, ma allo stesso modo (e più spesso) procura ansie e perfino angosce nel lungo periodo;

4) la seconda, invece, non garantisce il benessere immediato e materiale, ma assicura un benessere interiore di lungo respiro e molto superiore alla prima;

5) per operare secondo i principi di questa seconda visione del mondo, l’uomo ha bisogno di silenzio interiore, raccoglimento, meditazione, di riti individuali e, soprattutto, collettivi.

© Giovanni Lamagna