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Dio (o la mancanza di Dio) e l’angoscia della morte.

Pierre Hadot (nel suo “La filosofia come modo di vivere”, p. 144) afferma che nella filosofia contemporanea “non si cerca, come nell’Antichità, di eliminare l’angoscia della morte”.

A suo dire “questa coloritura angosciosa”, che la filosofia contemporanea non si pone il problema di (o non sa come) curare, è “del tutto assente in Spinoza, Epicuro, gli stoici e Platone”.

Ora io credo che questa angoscia, che caratterizza così profondamente la filosofia contemporanea, sia strettamente legata alla “morte di Dio”, alla solitudine tragica in cui l’uomo si è venuto a trovare dopo questa “morte”.

Perché sicuramente anche gli antichi (lo afferma pure Hadot) provavano il “brivido di fronte all’Ungeheure, il terribile, il prodigioso o il mostruoso”.

Solo che gli antichi, di fronte a questo brivido, erano, bene o male, confortati dalla presenza del divino (nelle molteplici e variegate forme che esso assumeva) nelle loro vite.

I contemporanei, invece, (di fronte al terribile, al prodigioso e al mostruoso che continua ad essere ben presente anche nelle loro vite) sono rimasti soli, sono tragicamente soli.

Di qui, a mio avviso, l’angoscia che caratterizza la filosofia contemporanea, “a partire da Goethe, Schelling, Nietzsche”, come mette ben in evidenza Hadot.

© Giovanni Lamagna

Non c’è alcun futuro per una visione religiosa dell’esistenza?

L’umanità (o, meglio, questa parte dell’umanità di cui faccio parte, l’umanità dell’Occidente “avanzato” e “progredito”, l’umanità del Primo Mondo, a evidenziare e sottolineare l’esistenza di una gerarchia tra diversi mondi, gerarchia stabilita ovviamente da chi si sente orgogliosamente, anzi presuntuosamente, diciamo pure narcisisticamente, parte del Primo Mondo) ha stabilito ad un certo punto (a partire decisamente dalla fine del 1800, ma il percorso che ha portato a questo esito era iniziato già tre o quattro secoli prima) che, tenuto conto dei progressi delle scienze e delle filosofie, che avevano evidenziato con un sufficiente grado di attendibilità l’inesistenza di Dio o, quantomeno, l’impossibilità di una dimostrazione razionale della sua esistenza, non solo le religioni storiche tradizionali non avevano più senso, che erano poco più che delle credenze mitologiche o, addirittura, superstiziose, ma che non aveva neanche più senso un qualsiasi atteggiamento religioso nei confronti del mondo e della vita.

Il mio pensiero, molto deciso e forte, è che un tale convincimento (almeno quello più radicale: il senso e lo spirito religioso non hanno oramai più alcuna prospettiva di sopravvivenza e nessun diritto di cittadinanza nelle nostre società “progredite”) non ha nessun serio fondamento, né teorico né, tantomeno, pratico.

A meno che l’umanità, perlomeno questa umanità, di questa epoca e di questa parte del mondo, questa umanità di cui anche io mi sento parte e che allo stesso tempo sento aliena, non voglia infilarsi non tanto in un vicolo cieco (cosa che ha già fatto, come dicevo, da tempo, cioè oramai da almeno un secolo e mezzo), ma in una via senza più ritorno, che la porterebbe all’annichilimento (qui il riferimento al “nichilismo” di tanta parte della filosofia contemporanea è consapevole e voluto), ovverossia all’autodistruzione insieme teorica e morale e, quindi, quasi sicuramente, come sua ovvia e tragica conseguenza, anche fisica e materiale.

La mia idea convinta è:

 1) che le scienze e le filosofie hanno indubbiamente dimostrato che non è possibile argomentare (al contrario di quanto riteneva la maggior parte dei filosofi nell’antichità e fino al Medioevo) razionalmente l’esistenza di Dio;

 2) che anzi non sia più possibile credere seriamente, sulla base cioè di convinzioni filosofiche aggiornate e non di vecchie filosofie oramai superate, nell’esistenza di un Dio personale, di un mondo ultraterreno e di una vita futura dopo la morte, come, invece, le religioni tradizionali vorrebbero ancora farci credere;

 3) ma che questo non comporti affatto il tramonto definitivo dell’idea stessa di “religione”; o, meglio, che questo dato di realtà non debba comportare affatto la rinuncia a, la dismissione di quell’atteggiamento spirituale di fronte al mondo e alla vita che per millenni abbiamo definito come “religioso”.

Questa mia idea forte e convinta si basa:

 1) sulla constatazione inoppugnabile che tutte le culture, almeno fino a due secoli fa, hanno elaborato e professato un credo religioso e praticato riti, cerimoniali e regole morali a quel credo collegati;

 2) sulla deduzione, semplice ed evidente, che da questa constatazione deriva: evidentemente le religioni non nascono a caso, non sorgono per un capriccio della storia, ma perché corrispondono a bisogni profondi dell’umanità.

Certo, al bisogno profondo di trovare conforto contro le paure e le angosce dell’esistenza, in primis contro le forze per lungo tempo misteriose della natura, di cercare quindi protezione in figure mitiche paterne o materne e, soprattutto, di esorcizzare l’idea angosciosa della morte con la speranza di una vita post mortem.

Ma anche al bisogno altrettanto profondo di trovare un senso alla propria esistenza individuale e di regolare la vita sociale, con delle norme il più possibile condivise, rese convincenti, persuasive, anche attraverso il ricorso a simbologie, mitologie, rituali e cerimoniali dal forte impatto emotivo-affettivo.

Ora è mia idea forte, salda, che il progresso scientifico e l’evoluzione del pensiero filosofico abbiano dato indubbiamente grosse picconate negli ultimi cinque secoli alle risposte che le religioni tradizionali (soprattutto quelle teiste; non tutte le religioni, come sappiamo sono teiste; ad esempio, il buddhismo non lo è) avevano fornito al primo bisogno di cui sopra.

E’ mia idea forte che la modernità abbia, in altre parole, demolito i miti su cui la maggior parte delle religioni storiche, tradizionali, si fondavano; e che quindi sia impossibile oggi continuare a dar credito a certe credenze religiose, a meno di non voler rimanere fermi (“fissati” direbbe Freud) ad uno stadio evolutivo primitivo, mi verrebbe di dire infantile, della storia dell’umanità.

Ma è mia idea altrettanto forte che il progresso scientifico e l’evoluzione del pensiero filosofico non abbiano affatto dato delle risposte migliori di quelle date, fino a quattro-cinque secoli fa, dalle religioni, al secondo bisogno da cui quelle religioni nascevano: il bisogno di senso, di significato, di una motivazione al vivere.

Con la conseguenza che, mentre il progresso scientifico ha almeno in parte rassicurato l’essere umano rispetto ad alcune sue paure ancestrali e fornito “farmaci” adeguati al riguardo, il pensiero filosofico (almeno quello prevalente ed egemone) lo ha deprivato dei fondamenti metafisici, su cui si basavano le sue antiche sicurezze, senza però offrirgliene altri; con esiti che sono stati fatalmente (e non potevano non esserlo) nichilisti.

Così che la tecnologia (figlia, anche se parecchio degenere, delle scienze) è diventata – come ci hanno fatto vedere benissimo due pensatori, tra molti altri, quali Martin Heidegger e Gunther Anders – la nuova religione del tempo contemporaneo, sottraendosi, sfuggendo – in maniera che, a mio avviso, ci porterà prima o poi al disastro – al controllo e alla guida del pensiero filosofico.

Un po’ come (sia detto per inciso) l’economia o, per meglio dire, i poteri economici forti sfuggono oramai al controllo e alla guida della politica; una politica che, senza una visione del mondo e quindi senza un pensiero filosofico alle spalle, diventa cieca e muta e, perciò, impotente nei confronti dell’economia.

Qual è allora la conclusione, dopo questa lunga premessa, della riflessione che ho fin qui svolto?

Lo dico con molta nettezza e chiarezza: bisogna recuperare sul piano filosofico le ragioni e i fondamenti (certo, quelli possibili, razionali, del tutto immanenti e non più metafisici) di una visione religiosa del mondo.

Senza dubbio, tenendo conto di alcune acquisizioni (anche per me irreversibili) del pensiero scientifico e filosofico moderno!

Ma senza buttare (come ha fatto invece una buona parte della filosofia moderna e contemporanea, senza grandi eccezioni, soprattutto a partire da Feuerbach e Marx per arrivare a Nietzsche e infine a Cioran) il bambino con tutta l’acqua sporca.

Occorre che la filosofia ridia in altre parole speranza e fiducia all’umanità; altrimenti ci sarà presto o tardi (più presto che tardi) la fine del pensiero filosofico e con esso la fine della stessa umanità.

© Giovanni Lamagna

Corpo e anima (2)

L’uomo è composto indubbiamente (credo che anche il più radicale dei materialisti possa riconoscerlo) da un corpo/soma (realtà visibile) e da un’anima/psiche (realtà invisibile).

Intendiamoci, non penso certo, come si è inteso, per almeno un paio di millenni, da parte della maggior parte dei filosofi dell’antichità e di quelli medievali, che anima e corpo siano due entità separabili e che la prima sopravvivrà alla seconda.

Penso anche, però, e su questo non ho ombra di dubbio, che anima e corpo siano due entità concettualmente distinguibili, per quanto concretamente inseparabili; che il corpo (soma) abbia certe caratteristiche e l’anima (la psiche) altre.

Il corpo, ad esempio, può essere considerato un oggetto come gli altri (con dei meccanismi bio-chimico-fisici di natura del tutto materiale), con un suo spazio ben definito (se il corpo è qui, non può essere altrove), limitato, potremmo dire anche costretto, nel tempo (il corpo vive solo nel presente: per il corpo il passato non è più ed il futuro non è ancora).

L’anima (o, meglio, la psiche, a voler usare un termine più in voga oggi, per quanto inventato dai filosofi greci) è una realtà molto più complessa del corpo, se non altro perché può superare, andare oltre (trans-ire), quindi trascendere, i confini del tempo e dello spazio.

L’anima/psiche, infatti, ha la possibilità di ricordare/memorizzare il passato ed è in grado di immaginare/progettare, addirittura inventare, il futuro.

L’anima/psiche ha, inoltre, la possibilità di navigare, viaggiare, con l’immaginazione in altri luoghi; di abitare, stare, vivere in spazi diversi da quelli in cui sta, abita e in quel momento vive il suo corpo.

Può immaginare di trovarsi addirittura in spazi extra o ultra terrestri.

Poi, per carità, anche io penso che l’anima, al di fuori del corpo al quale è collegata, non abbia possibilità alcuna di vita; in altre parole che l’anima/psiche nasca col corpo e muoia col corpo.

O, al massimo, si trasformi in altro; come, del resto, succede al corpo.

E tuttavia non ci sono dubbi che, sul piano concettuale e della nostra conoscenza/riflessione sulla natura dell’uomo, corpo e anima siano due realtà che vadano distinte.

Che non possano essere confuse e che vadano studiate in ambiti differenti: l’anatomia, la fisiologia, la biologia, la chimica da un lato; la filosofia, la psichiatria e la psicologia dall’altro.

Per quanto poi le due realtà siano indissolubilmente interrelate e interconnesse.

Infatti, ciò che succede nel corpo influenza ciò che succede nell’anima/psiche; e su questo nessuno ha dei dubbi, ciò sta sotto gli occhi di tutti: se il corpo sta male e soffre, è difficile che l’anima/psiche possa invece stare bene e non soffrire pure lei.

Ma è vero pure il contrario: quello che succede nell’anima/psiche ha nelle ricadute anche nel corpo; e questo non tutti, tra i materialisti, sono disposti a riconoscerlo; e per me sbagliano di grosso; perché ci sono alcune evidenze che stanno a dimostrarlo.

Per cui i due ambiti scientifici, pur distinti, devono poi collaborare, interfacciarsi ed integrarsi; non possono l’uno negare i contributi e le conoscenze dell’altro; ma, bensì, devono servirsene reciprocamente; come ha compreso bene la psicosomatica.

© Giovanni Lamagna

La nozione di “conversione” in Hadot e in Foucault.

In una conversazione con Sandra Laugier e Arnold I. Davidson, contenuta nel libro “La filosofia come modo di vivere”, Pierre Hadot così si esprime (pag. 256-257) a proposito dei suoi rapporti con Michel Foucault:

Foucault mi disse un giorno che era stato influenzato anche dal mio primo articolo , che ho dedicato alla nozione di conversione, in cui distinguevo due forme di conversione: l’epistrophe, che era ritorno a sé, e la metanoia, che era trasformazione di sé. Da questo punto di vista, c’è una vicinanza evidente tra noi.

Ma c’è forse una differenza: Foucault ha incentrato la sua idea di pratiche di sé più su un certo atteggiamento dell’individuo, che ha chiamato “estetica dell’esistenza” e che consiste, in definitiva, nel far sì che la propria esistenza sia bella.

Rimprovero quindi un po’ a Foucault quello che ho chiamato il suo “dandismo”. I grandi uomini di Foucault sono spesso dandy, come Baudelaire – persone che hanno cercato anzitutto di avere una bella esistenza.

Io avrei, invece, più la tendenza a essere meno interamente “etico” e più sensibile alla nozione che ho studiato attraverso l’Antichità, dal “Timeo” fino alla fine dell’Antichità, della fisica come esercizio spirituale.

Sono più interessato all’aspetto cosmico della filosofia – forse a causa delle esperienze particolari che ho avuto, come quella di un “sentimento oceanico”. Auspico quindi che il filosofo si situi più nella prospettiva dell’universo, o dell’umanità nella sua totalità, o dell’umanità come altro.

Sicuramente la differenza di cui parla Hadot esiste: Foucault propone una “estetica dell’esistenza”, Hadot propende più per quella che potremmo chiamare una “etica dell’esistenza” (anche se lui non la definisce così e prende le distanze dal termine “etico”, preferendo usare piuttosto l’espressione “sentimento oceanico”.

E, però, le due proposte (entrambe esistenziali), a “leggerle” bene, non sono poi così diverse come sembra. In ogni caso sono, aa mio avviso, del tutto complementari.

Cos’è, infatti, l’estetico, il bello, anzi “la vita bella”, cui tende Foucault, se non l’etico, il “buono”, anzi “la vita buona”, cioè la vita vissuta in armonia con l’Universo e con l’Umanità tutta, di cui parla e a cui tende Hadot?

D’altra parte non erano stati gli antichi Greci ad usare (già a partire dal V secolo a. C.) l’espressione kalokagathìa (in greco antico καλοκαγαθία) per indicare l’ideale di perfezione fisica e morale dell’uomo?

E che cos’è la “kalokagathìa” se non la sintesi, appunto, del “bello” (kalòs; καλός), cioè della vita bella, e del “buono” (agatòs, ἀγαθός), cioè della vita buona?

Per i Greci, infatti, la bellezza morale, spirituale, non è altra cosa dalla bellezza sensibile, materiale, del corpo. Per cui “bellezza” e “bontà” coincidono.

Fu Platone per primo a sostenere che “Chi si dedica alla ricerca scientifica o a qualche altra intensa attività intellettuale, bisogna che anche al corpo dia il suo movimento, praticando la ginnastica, mentre chi si dedica con cura a plasmare il corpo, bisogna che fornisca in compenso all’anima i suoi movimenti, ricorrendo alla musica e a tutto ciò che riguarda la filosofia, se vuole essere definito, giustamente e a buon diritto, sia bello sia buono” (dal “Timeo”).

Ne deduco che le due proposte esistenziali di cui stiamo parlando, quella di Foucault e quella di Hadot, possono benissimo integrarsi e, nel momento in cui avvenisse questa integrazione, riuscire perfino a coincidere.

© Giovanni Lamagna