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Il modo di vestire.

Non è del tutto vero che “l’abito non fa il monaco”.

Il modo di vestire di una persona dice di lei molte cose.

Ancor prima di sentirla parlare e vederla agire.

Si può dire che è la sua carta di presentazione.

© Giovanni Lamagna

Ancora sull’erotismo.

L’erotismo non è un abito che si indossa una volta ogni tanto, in occasioni speciali.

Come si fa con certi abiti: quelli della domenica, dei giorni di festa o di Carnevale.

L’erotismo è un abito mentale, interiore prima che esteriore.

Si indossa, quindi, sempre.

Anzi, più che un abito, è come una seconda pelle.

© Giovanni Lamagna

Amore e attrazione

Per Victor Frankl non sono le caratteristiche individuali, fisiche e psichiche, della persona che amo a rendercela amabile, ma è il mio amore che le rende “degne di essere amate” (da “Logoterapia e analisi esistenziale”; Morcelliana 2001; pag. 167).

Francamente non condivido per nulla questa tesi.

Secondo tale pensiero, infatti, (a volerlo portare alle sue estreme conseguenze) ciascuno di noi potrebbe allora innamorarsi di una persona qualsiasi, perché tanto non sono le sue caratteristiche individuali a rendercela amabile, ma, al contrario, è l’amore che le portiamo a farcela desiderare.

Sulla base di questa premessa – che per me è tautologica: io amerei una persona perché la amo – ovviamente Frankl non assegna alcun valore all’aspetto estetico della persona e, meno che mai, al suo abbigliamento.

Fino ad arrivare a scrivere: “Non un abito da sera può fare veramente effetto su un uomo, ma solo se a indossarlo è la donna amata” (ibidem; p.167).

Cosa anche per me ovvia: certo, non si può amare una persona per l’abito che indossa e, a maggior ragione, non si può amare l’abito in sé, a prescindere dalla persona che lo indossa!

Frankl, però, omette di dire che l’abito che indossa può aggiungere un valore estetico e, quindi, attrattivo alla persona per la quale provo già attrazione; attrazione che genera, provoca, il mio amore, senza la quale non ci sarebbe il mio amore.

In altre parole, a me sembra che Frankl neghi totalmente il valore che gioca la dinamica dell’attrazione nell’amore, almeno in quel tipo particolare di amore che siamo soliti definire erotico.

In buona sostanza a me sembra che Frankl dica: trovo attraente una persona perché la amo. Io, invece, sostengo esattamente il contrario: io amo (eroticamente) una persona perché la trovo attraente.

Naturalmente qui sto parlando (lo ripeto ancora una volta) dell’amore erotico. E però è proprio di questo tipo di amore che stava parlando anche Frankl: sono certo di non aver frainteso il suo pensiero.

Non stava parlando di altri tipi di amore: quali quello tra genitori e figli, quello fraterno o quello universale, definito dai Greci col termine “agape”, per i quali l’elemento attrattivo è del tutto secondario: in questi casi – anche per me – l’amore sussiste a prescindere dalle caratteristiche individuali e precipue delle persone coinvolte.

E’ notorio il detto napoletano “ogni scarrafone è bell’ a mamma soia” (“ogni scarafaggio è bello per la mamma sua”). Che vale per l’amore dei genitori per i figli, ma potrebbe valere anche per l’amore dei figli verso i genitori o per quello tra fratelli o per quello che prova il filantropo anche verso il più spregevole degli esseri umani.

Già questo discorso non vale più per quel tipo di amore che definiamo “amicizia” (philia). Perché anche nel caso dell’amicizia l’amore si basa su quelle che sono determinate e specifiche caratteristiche individuali dell’amico, origina da esse.

In altre parole, non si può essere “amico” a prescindere, non si può essere amici di tutti. Si può essere amici solo di determinate persone con ben precise caratteristiche: non si può essere amici di persone che non troviamo attraenti.

A dare poi ancora più forza alla sua asserzione iniziale Frankl aggiunge che è solo l’ “amore spirituale” a rendere “degno” l’amore erotico. Situando così l’amore spirituale su un piano che per me è troppo astratto e non ha nessun riscontro nella realtà.

Nessun essere umano, infatti, – suppongo manco Frankl – si innamorerà mai di una persona a prescindere dalle sue caratteristiche concrete, che sono poi essenzialmente di tre tipi: fisiche, caratteriali ed intellettuali.

La categoria dell’ “amore spirituale” di cui parla Frankl è di natura astratta e del tutto generica, perché vuota di contenuti; è dunque puro “flatus vocis”.

Non esiste l’amore spirituale, perché l’uomo non è un essere spirituale, ma un essere fatto in primo luogo di carne e di ossa e poi dotato anche di emozioni, affetti ed idee, che però senza il corpo non avrebbero alcuna possibilità di sussistere.

Io arrivo a dire che non esistono i “valori spirituali” in senso stretto. Perché la parola spirituale è un contenitore vuoto, a cui non corrisponde nessuna realtà concreta, e perciò è un termine letteralmente insignificante, cioè “senza significato”.

Quando si innamora e quando ama, l’uomo dunque ama innanzitutto un corpo e poi il suo carattere e poi la sua intelligenza. Non ama altro.

Ciò che chiamiamo “spirito” per me è null’altro che l’armonizzazione equilibrata di caratteristiche fisiche, caratteriali e intellettuali; non altro.

Armonizzazione che non è affatto scontata o particolarmente diffusa in natura.

Infatti, ci sono persone che sono belle dal punto di vista fisico, ma non lo sono affatto dal punto di vista del carattere o da quello dell’intelligenza.

Come ci sono persone che sono simpatiche e gradevoli dal punto di vista del carattere, ma brutte fisicamente e insignificanti sul piano intellettuale.

Infine, ci sono persone di grande intelligenza e di alto livello culturale, ma sgradevoli o decisamente brutte sul piano fisico e sgraziate dal punto di vista del carattere.

E’ l’insieme armonioso, integrato, delle caratteristiche intellettuali, caratteriali e perfino fisiche di una persona che costituisce la sua spiritualità.

Non ci si innamora, dunque, della pura spiritualità di una persona, che in sé non esiste, ma di certe sue determinate caratteristiche fisiche, caratteriali e intellettuali, molto concrete, che ce la rendono attraente e, per certi versi (almeno nella fase dell’innamoramento), addirittura unica.

L’attrazione, dunque, contrariamente a quanto sostenuto da Victor Frankl, pesa (eccome!) nelle relazioni erotiche.

© Giovanni Lamagna

Cosa è per me un rapporto?

Come immagino io un rapporto di coppia, anzi un rapporto in generale, che è poi sempre un rapporto di coppia, in quanto caratterizzato dalla relazione tra un Io e un Tu che nel rapporto formano un Noi, anche se in genere si tende a definire “di coppia” solo quel rapporto in cui si fa “anche” sesso, come se il sesso e solo il sesso caratterizzasse un rapporto di coppia?

Io lo immagino essenzialmente come un’avventura interiore, come un cammino, un viaggio spirituale che due persone fanno assieme, in cui non sono importanti (o, perlomeno, non sono prioritarie) le cose che si “fanno” assieme, ma conta piuttosto il movimento interiore (il cammino spirituale, appunto!) che caratterizza (se c’è; e, purtroppo, solo in pochi rapporti c’è) lo stare insieme.

Insomma, per me, un rapporto (un qualsiasi rapporto) o è basato su un minimo di intesa, una qualche sintonia, un cammino spirituale almeno parzialmente condiviso o non è un vero rapporto; è solo un’apparenza di rapporto.

Non sono, dunque, le cose che si fanno o il tempo che si trascorre assieme che lo fanno rapporto, ma il modo con cui si fanno le cose o si trascorre il tempo assieme.

Le attività, le azioni, il tempo condiviso costituiscono solo la rappresentazione esteriore, potremmo dire anche la veste, l’immagine sociale, di un rapporto. Non ne costituiscono la sostanza profonda.

L’anima di un rapporto è data, invece, da ciò che succede nella psiche delle due persone a causa del (o, meglio,  grazie) al loro stare in relazione.

O queste due persone camminano insieme (e la condizione prima è ovviamente che ciascuna delle due sia disposta a “camminare”; la seconda è che ciascuno/a condivida la direzione di marcia dell’altro/a).

Oppure quello che sembra essere un rapporto non lo è per davvero, è solo apparenza, una maschera, un abito, buoni per presentarsi in società e spendersi l’immagine di coppia, ma non una effettiva realtà.

@ Giovanni Lamagna

Recensione al libro di Raffaele Morelli Il talento; edizioni Riza

Recensione al libro di Raffaele Morelli Il talento; edizioni Riza

Non è un grande libro. Eppure alcuni spunti di riflessione comunque me li ha offerti. Quali?

1) Esiste un modo di scrivere (secondo me, il migliore, perché si avvicina alla creatività dell’artista) che è più da spettatore che da attore. Consiste, infatti, nell’aspettare che la scrittura si faccia da sé, quasi che essa in qualche modo preesistesse all’azione dello scrivere. Lo scrivere, in questo caso, è un eseguire ciò che un impulso interiore (quella che, appunto, gli artisti chiamano ispirazione) ci spinge a fare. E’ uno scrivere senza sforzo, dice Morelli; quasi come sotto dettatura, dico io.

2) Il talento non ha a che fare con la mente; o, meglio, non ha a che fare solo o soprattutto con la mente. Ha a che fare di più con l’intuizione, che è una facoltà legata all’esercizio della contemplazione più che del pensiero. La contemplazione è un pensiero caldo, è la sintesi di pensiero ed emozione, di pensiero e sentimento, di mente ed affettività. Il talento può essere colto in sé e sviluppato solo da chi ha un’attitudine contemplativa. Altrimenti rimane allo stadio di pura potenzialità. Ognuno di noi nasce con dei talenti. Ma non tutti li sviluppano. Perché non tutti diventano contemplativi, non tutti ricevono il dono della contemplazione o si aprono ad esso.

3) L’alchimista è colui che separa il sottile (mercurio) dallo spesso (piombo). Allo stesso modo l’uomo spirituale (che è l’unico uomo veramente realizzato) è colui che riesce a liberarsi il più possibile dai molteplici condizionamenti familiari e sociali e a esprimere la sua vera natura, quella primordiale, il talento, appunto.

4) La persona talentuosa è come un bambino, sempre pieno di curiosità, sempre aperto alle sorprese.

E’ il contrario della persona amante della routine, che ragiona per luoghi comuni, esponente del pensiero dominante. E’ altra cosa da come lo hanno fatto e voluto la famiglia di origine e il contesto sociale in cui è cresciuto. E’ l’uomo artefice di se stesso , che si è fatto da sé.

5) Per questo sarebbe bello, positivo, significativo che ognuno di noi ad un certo punto della propria vita potesse cambiare nome, cambiare il nome che ci hanno dato i nostri genitori ed acquisire, scegliersi un nome nuovo, quello più corrispondente alle proprie inclinazioni, quello che esprime meglio il proprio talento potenziale, perché esso diventi viatico dell’altro da sé che ognuno di noi è destinato a realizzare. Non è un caso, infatti, che, nei riti di iniziazione, i Maestri danno ai loro discepoli un nome nuovo.

6) Non si tratta di realizzare fini esterni a sé, né tanto meno di obbedire a comandi divini. Si tratta di diventare ciò che si è già in potenza, allo stesso modo di come il seme diventa pianta, magari passando per il marcire a cui lo costringe l’inverno.

7) Non si può scoprire la propria natura originaria, il proprio talento, se si ha paura del caos, del disordine primordiale, se, in qualche modo, non si è disposti a entrarci in contatto. Chi nella propria vita cerca solo l’ordine e la stabilità, sfuggendo il rischio e le tempeste, è destinato a rimanere ciò che lo hanno fatto i “suoi”, cioè la famiglia e l’ambiente d’origine. E’ destinato, quindi, a rimanere un prodotto di serie, senza il marchio della unicità e della originalità.

8) Quando non sai cosa decidere, non ti mettere a pensare, abbassa la soglia della coscienza, lascia che il tuo cervello vaghi quasi sonnambulo, bighellona, magari mettiti a passeggiare, sciogli il tuo corpo, allenta le tensioni…e vedrai che la soluzione, la scelta da fare ti apparirà all’improvviso, la voce interiore, come per magia, ti suggerirà la parola da pronunciare, il gesto da compiere, l’azione da fare…

9) Quando un essere vivente evolve, anche tutti gli altri esseri evolvono…il mio comportamento contribuisce a migliorare o peggiorare il mondo, come se esso avesse un’anima. (Morelli)

10) Il talento emerge quando mettiamo in discussione i nostri equilibri precedenti, quando abbandoniamo qualche falsa sicurezza nella quale ci siamo rifugiati, quando superiamo antiche paure. Se, invece, ci aggrappiamo alle vecchie sicurezze, se non siamo capaci di affrontare le paure con cui siamo stati allevati e cresciuti, rimaniamo dei mediocri.

11) Scrive Jung: In ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo e se non la realizziamo, la vita è sprecata. Questa essenza ha assunto, nelle varie tradizioni culturali, i nomi più diversi: volontà intelligente, guida o voce interiore, centro di sé, intelligenza innata, demone o genio ispiratore, anima, angelo custode, Maestro Interiore.

E’ il Talento, una “sostanza” che circola dentro ognuno di noi e che troppe volte ignoriamo di possedere. Peggio ancora, che molte volte ostacoliamo. Un po’ come se ci mettessimo in mente di impedire al sangue di circolare e a una pianta di fiorire…(Morelli)

12) Al talento si addice il silenzio. Il silenzio gli è congeniale. Infatti, il Maestro non parla o parla poco. Parla di più il suo silenzio. Egli ha fiducia che il talento dell’allievo si sviluppi da solo, magari nel caos, nel disordine, generato dal caos e dal disordine. Il Maestro, il vero Maestro non ha paura del caos e del disordine, perché sa che questi sono materia viva, pulsante, da cui solo può germogliare il talento del discepolo. Chi sa non parla; parla chi non sa… (Lao Tze)

13) Per incontrare la luce ci vuole l’abito adatto. Il mattino dovremmo vestirci lentamente, in modo consapevole, senza giudicarci, senza avere in mente modelli e…lasciarci vestire dal nostro stilista nascosto (Bauer)

14) L’entrare in contatto con la nostra essenza, con la nostra voce interiore non richiede sforzi particolari, anzi forse presuppone che molliamo le tensioni, un eccesso di controllo e di autocontrollo, presuppone che facciamo fluire la nostra energia interna. I sogni possono costituire dei luoghi privilegiati per entrare in contatto con l’ispirazione, con l’essenza di noi stessi.

15) Più cerchiamo di essere come gli altri, più cerchiamo di essere come gli altri ci vorrebbero, più la nostra natura, la nostra vera essenza cessa di parlare e allora cominciamo a stare male, cominciamo a soffrire.

16) Un tempo i Maestri ragionavano con l’intelligenza sintetica della natura, con quella che chiamerei l’intelligenza contemplativa, trasformavano le loro ricerche e le loro esperienze in concetti. Oggi tendiamo sempre più a separare la testa, la ragione dall’esperienza, siamo sempre meno in un atteggiamento contemplativo di fronte all’esistenza e sempre più in un atteggiamento filosofico e intellettuale.

17) Il nome che scegliamo è importante, è decisivo…”ad ogni persona che viene da me chiedo sempre se ha un secondo nome oltre a quello con cui si presenta…oppure un nome con cui le piacerebbe essere chiamata. Nei gruppi di autostima ho imparato che cambiare nome può portarci a compiere azioni che ci sembrerebbero impensabili da realizzare, con il nostro nome vero.” (Morelli)

18) Non bisogna sottovalutare mai il giorno del compleanno. Ogni compleanno in fondo rinasci, in fondo attivi il tuo embrione. (Bauer) Il giorno migliore in cui gli Dei possono venire a trovarti è quello in cui il tuo embrione, la tua vera natura, si riaccende, si riattiva. La festa di compleanno è una buona occasione per risvegliare gli dei sopiti dentro di noi.

19) Spesso desiderio e panico convivono, nello stesso istante.

20) Se puoi contraddirti, se puoi accettare in te la presenza di entrambi i lati delle cose, allora quello è un gran giorno: non ragioni più come gli altri, non stai da una parte o dall’altra come fanno tutti, incominci a trovare il baricentro. (Bauer)

21) Quando giri a vuoto i tuoi luoghi comuni, i tuoi pregiudizi, la tua visione della vita sfocano e, in quel momento, spesso ti senti perduto. Non sai che questo, spesso, è il buio che precede l’alba…Abbiamo bisogno di girare a vuoto perché la nostra mente è troppo ordinata: e allora un amico nascosto ci vuole distrarre dalle illusioni in cui ci siamo calati, ci vuole restituire la nostra essenzialità per riportarci a casa…Anche se il tuo lavoro di tutti i giorni raggiunge il successo che auspichi, ma tu sei diventato unilaterale, allora è il momento di cominciare a girare a vuoto, di perdere tempo, altrimenti il tuo talento si irrita, si offusca, la tua vera natura si offende. (Morelli)

22) L’atto più attivo è in fondo la contemplazione. (Bauer)

23) Per comprendere se una persona è sulla via giusta o sulla via sbagliata, chiediti se ogni giorno si stupisce un po’, se in qualche modo si lascia sorprendere. (Bauer)

Come i bambini, che hanno sempre lo sguardo stupito, perché per loro è sempre tutto novità.

24) E’ il compito che spetta ad ognuno di noi: liberare l’Altro che è in noi, il nostro vero volto nascosto, la nostra natura. (Morelli)

25) Vi (è) un luogo in cui tutti gli eventi sono tra loro legati, in cui, quando diventiamo consapevoli, quando non ci facciamo oscurare dalle cose inutili, la nostra natura più intima vibra con l’essenza dell’Universo. (Morelli)

26) Da che cosa nasce il dolore? Dalla resistenza che facciamo a lasciar fluire la nostra vera natura. Il talento non è qualcosa che deve dare per forza risultati pratici…è lo scorrere puro e libero della nostra energia creativa…E’ la resistenza del nostro Ego che ci rende difficile l’incontro con ciò che in noi è naturale. (Morelli)

27) …dobbiamo varcare per qualche istante la paura della solitudine, del vuoto perché l’inaccessibile diventi il nostro conduttore, il nostro Mentore. (Morelli)

28) Se tu sei troppo ordinato, prima o poi una crisi arriva per mettere in discussione il mondo che hai costruito fuori di te. Ma che cos’è la crisi? E’ il caos che, rimettendo in disordine, cerca di annientare la forma che hai costruito e di farti ritrovare la forma che hai seppellito. Quando ci arrendiamo, il talento sgorga senza azione…Il talento non può parlare se sei prigioniero dei tuoi modelli, dei luoghi comuni: quando ti sei disidentificato, allora può emergere la pura tendenza, la direzione della tua natura. ( Morelli)

29) E’ la coscienza lineare che abbiamo di noi stessi che ci porta a ripetere sempre gli stessi meccanismi, gli stessi incontri, la stessa visione del mondo. E’ l’atmosfera familiare del nostro Io che bisogna staccare, perché la nostra identità si allarghi…Ripetiamo gli schemi del mondo familiare, dell’ambiente esterno che si fissano dentro di noi e diventano loro i veri protagonisti. Siamo trascinati dalle immagini collettive – della cultura, della tradizione, dei media – verso mete che non ci appartengono. (Morelli)

Giovanni Lamagna