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Maternità e femminilità.

Leggo da Massimo Recalcati (“Le mani della madre”; Feltrinelli 2015; p. 52-53):

Per ogni bambino è fondamentale far esperienza tanto della presenza della madre quanto della sua assenza.

Senza sperimentare l’alternanza dell’assenza e della presenza della madre, la presenza può acquisire tratti persecutori, diventando soffocante, mentre l’assenza può suscitare vissuti depressivi e abbandonici…

… è necessario che si possa fare il lutto della madre simbolizzando la sua assenza.

Per Melanie Klein è questa la condizione a fondamento della creatività e della sublimazione; solo se si apre il vuoto, solo se si sperimenta e si simbolizza la perdita dell’oggetto – l’assenza della madre – diventa possibile il gesto creativo.”

E mi chiedo: quante madri – dopo aver vissuto l’esperienza della maternità – sono capaci di recuperare pienamente il loro ruolo di donna, anzi la dico tutta, utilizzando un termine ancora più forte e ricco di significato in questo contesto: il loro ruolo di femmina?

In modo da alternare l’assenza e la presenza della loro figura nel rapporto coi figli.

Quante donne, in altre parole, hanno risolto il loro attaccamento alla figura materna, avendo superato l’angoscia legata al fantasma dell’abbandono da parte della loro madre?

E sanno (o, meglio, sono consapevoli) che, quindi, l’assenza momentanea non è sinonimo di abbandono di un figlio; e che, pertanto, non causerà nessuna angoscia particolarmente traumatica nel figlio, dal quale ci si separa per un qualche tempo.

Quante madri, in altre parole, non hanno mai superato l’angoscia dell’abbandono provato nella separazione – anche momentanea, dovuta alle inevitabili, molteplici incombenze della vita – dalle loro madri e la trasferiscono poi – pari, pari – nel rapporto coi loro figli, cercando il più possibile – in una sorta di delirio di onnipotenza – di evitargliela?

Ho il sospetto che, ancora oggi, ben poche donne riescano a risolvere questo legame originario, quasi ombelicale, anche se oramai solo simbolico, con le loro madri.

E ciò è causa di seri problemi nelle loro dinamiche familiari.

In quelle coi figli, innanzitutto, che – come dice molto lucidamente Massimo Recalcati – vivranno la presenza materna come indispensabile ma anche come soffocante; incapace quindi di promuovere in loro l’autonomia e la sublimazione del bisogno di attaccamento, che sono premessa di ogni gesto creativo.

E poi (cosa non meno grave) – aggiungo io – per il legame coniugale che lega queste donne al loro compagno di vita.

Legame che, non a caso, va spesso in crisi, perché relegato ad un ruolo secondario e subordinato, quasi fosse scontato e si mantenesse in vita da solo, senza bisogno di “alimento” (fisico e spirituale) dopo la nascita di un figlio; a maggior ragione dopo la nascita di più figli.

© Giovanni Lamagna

Paura e desiderio nei rapporti

21 maggio 2015

Paura e desiderio nei rapporti.

Ci sono persone che nei rapporti (anche e, forse, specie in quelli più significativi) passano più tempo e consumano più energie a schivarsi, a nascondersi, a fuggire dall’altro che ad aprirsi, a mettersi in gioco, a farsi mettere in discussione dall’altro.

E lo fanno in diversi modi, tutti tipici, sintomatici, abbastanza trasparenti per chi ha l’occhio appena un po’attento e addestrato a riconoscerli: evadono discorsi appena iniziati, quando diventano un poco più approfonditi e impegnativi; parlano di altro o di altri e non di sé o di quello che riguarda il rapporto in cui sono coinvolti; si danno impegni (per carità, encomiabili, altruistici, generosi) a volte perfino faticosi e impegnativi, ma non hanno mai (o quasi mai) tempo da dedicare a momenti più piacevoli e rilassati di intimità (ad esempio, sessuale).

Queste persone nel rapporto utilizzano sempre (o quasi sempre) una maschera o (peggio) una corazza, per cui si mantengono sempre a una certa distanza (potremmo dire di sicurezza), in modo da non essere coinvolti mai fino in fondo, da non mettersi mai completamente a nudo.

Non sanno cosa si perdono!

Verrebbe da chiedersi, allora, perché continuano a stare nel rapporto, ad essere interessate ad esso, perché ne avvertano il bisogno (a volte perfino ossessivo e compulsivo), se poi (come istanza fondamentale) se ne difendono, in qualche modo se ne tengono a distanza.

La risposta sta, secondo me, nel fatto che il rapporto (anche questo tipo di rapporto) comunque corrisponde a un bisogno, se non a un vero e proprio desiderio: il bisogno di sicurezza, di protezione, di compagnia, di vicinanza, di conferma, di rassicurazione, di riconoscimento, di esorcizzazione della paura della solitudine.

Ovviamente, ridotto solo a questo, non soddisfa l’altro bisogno implicito che c’è in ogni rapporto: il bisogno della scoperta, della ricerca in comune, dell’arricchimento reciproco, della crescita di sé attraverso l’altro, del cambiamento e dell’innovazione.

Ogni rapporto, infatti, oltre che dare rassicurazione (anzi proprio perché dà rassicurazione) contiene in sé anche una sfida implicita: la sfida ad uscire dal proprio guscio, dalla propria corazza protettiva, a gettare la maschera, alla ricerca del proprio Sé più vero, a trasgredire (nel senso letterale dell’andare oltre), a non accontentarsi di ciò che si era e di ciò che si è.

Ecco cosa si perdono le persone che nel rapporto si rintanano, come in una cuccia, invece di trovare il coraggio e l’energia per uscire allo scoperto: rinunciano alle avventure, alle scoperte (e, quindi, alle gioie) sempre nuove che la vita non mancherebbe certo di offrire loro, se vincessero le paure che le attanagliano, che le paralizzano.

Alle volte (mi verrebbe di dire: spesso) i nostri rapporti non ci aiutano e non ci spingono a superare queste paure, ma anzi le confermano, le cronicizzano, talvolta addirittura le consolidano, acuiscono.

Ci andiamo a cercare le persone che, anziché aiutarci e stimolarci in un cammino di crescita e di liberazione, fanno proprio il contrario: ci confermano, ci fermano, ci “fissano” nei nostri antichi complessi, mantenendo aperte (anziché guarirle) e, in certi casi, addirittura aggravandole le nostre antiche ferite.

Alle volte facciamo questo addirittura con la scelta del nostro terapeuta. Ci andiamo a cercare un terapeuta che, anziché prenderci di petto e “aggredire” i nostri problemi, le nostre nevrosi, ci gira attorno senza mai coglierne il cuore, asseconda in questo modo le nostre difese e le nostre resistenze, ne diventa complice, invece di aiutarci, stimolarci a “vederle” e a liberarcene.

Agisce (solo) come una madre amorevole e premurosa: ci “accarezza” , ci conforta, ci rassicura, ci conferma (tutto è ok!), ci dà (finalmente!) l’affetto che ci è sempre mancato e che non riusciamo a trovare fuori (dal setting terapeutico).

Per cui la terapia diventa una lagna infinita e interminabile. Un rimestare continuo, senza nessun costrutto ed elaborazione reali, gli antichi vissuti. Una terapia sostanzialmente inutile, anzi (forse) persino dannosa.

In questo caso i rapporti (anche quello psicoterapeutico) realizzano la loro funzione, il loro “compito”, solo a metà. Sono rapporti in cui prevale (o è presente solo) la dimensione materna, privi o poveri della dimensione paterna.

Sono rapporti, quindi, monchi, bambini, che non riescono a crescere, a realizzare tutto il loro potenziale.

Giovanni Lamagna