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Due bei film: “Domani è un altro giorno” e “Momenti di trascurabile felicità”.

Nelle ultime settimane mi è capitato di “recuperare” al cineforum due film, entrambi incentrati sul tema della morte: “Domani è un altro giorno” (2019; regia di Simone Spada) e “Momenti di trascurabile felicità” (2019; regia di Daniele Luchetti).

Mi sono entrambi piaciuti (soprattutto il primo) e perciò vorrei commentarli, per mettere a fuoco emozioni e pensieri che mi sono stati provocati dalla loro visione. Mi piace farlo poi nel giorno in cui, per antica tradizione, si commemorano i morti.

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Recensione del film “Domani è un altro giorno”.

Il film racconta la storia di Giuliano, attore romano, esuberante ed estroverso, di mezza età (interprete Marco Giallini), che da un anno combatte con un male incurabile: gli restano oramai poche settimane di vita.

L’amico di una vita, Tommaso, ombroso ed introverso (interprete Valerio Mastandrea), quando lo viene a sapere, si precipita a Roma dal Canada, dove vive e lavora da tempo, per trascorrere quattro giorni assieme a Giuliano.

Il tempo di tentare di convincere l’amico a intraprendere un’ultima disperata chemioterapia, che potrà allungargli l’esistenza, ma solo di poco. Giuliano rifiuta con decisione: ha già lottato abbastanza e non se la sente più.

Il film racconta i quattro giorni nei quali i due amici in pratica si danno l’estremo saluto. Potrebbero essere giorni tristi. E senz’altro lo sono, velati come sono di intensa e commovente malinconia.

Ma i due amici, abituati ad un rapporto di grande confidenza e familiarità, di grande ironia e ilarità, fatto di continui sfottò reciproci, perfino di duro sarcasmo, non si rassegnano alla cupezza.

Vivono gli ultimi istanti del loro rapporto, prima di salutarsi definitivamente, in un clima di grande tenerezza, che in certi attimi fa sbocciare addirittura l’allegria, la gioia di essersi incontrati, frequentati e di aver vissuto tanti bei momenti assieme.

Il film, insomma, anche se racconta una vicenda su cui incombe l’ombra nera della morte, è un inno alla gioia della vita e ad una delle sue manifestazioni più luminose: l’amicizia.

Infine, è un vero e proprio elogio all’autodeterminazione del fine vita: questione oggi di estrema attualità.

Sembra dire: dopo che si è vissuta una esistenza tutto sommato serena e allegra, se non proprio felice, è giusto che ad ognuno di noi venga lasciata la libertà di decidere le terapie da affrontare o non affrontare, di decidere i tempi e i modi della propria morte.

Questo ad evitare che gli ultimi giorni della nostra esistenza si trasformino in una lenta e atroce agonia, che offuscherebbe penosamente l’allegria e la serenità che ci hanno magari caratterizzato per una intera vita. Quale ne sarebbe il senso?

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Recensione del film “Momenti di trascurabile felicità”.

Questo film ha in comune con il primo il tema della morte. Anche qui la morte incombe. Si può addirittura dire ne sia la protagonista.

Ma mentre nel film di Simone Spada la morte è una minaccia ben reale, qui (anche se solo alla fine) si rivela come una minaccia solo immaginata, quasi sognata.

Ben reale, però. Al punto da far intravedere al protagonista del film, Paolo (interpretato da Pif) un altro modo di vivere la propria vita, un’altra scala di valori.

Anche qui, insomma, come nel film precedente, la morte è vista e raccontata quasi in funzione della vita, come un fatto, una realtà, che possono darci uno sguardo nuovo e (si potrebbe dire anche) più sano sulla vita.

Paolo è un ingegnere palermitano, quarantenne, sposato con due figli.

Vive una vita abbastanza distratta, tutta presa dal lavoro, dagli amici con i quali cazzeggia al bar, dalle numerose e farfallanti avventure extraconiugali e dal brivido del rischio: quello di passare col rosso, a bordo del suo motorino, proprio nell’attimo (fatto di decimi di secondo) in cui è rosso per lui, ma è ancora rosso per i veicoli che provengono dalla strada trasversale alla sua.

Un giorno, mentre fa il suo solito attraversamento spericolato, evidentemente sbaglia i tempi per una frazione di secondo e viene investito da un grosso autoveicolo. Si ritrova in Paradiso, dove però, in base ad un algoritmo calcolato da uno degli angeli (interpretato da Renato Carpentieri), che selezionano gli accessi, si scopre che egli ha diritto ancora ad un’ora e mezza di vita sulla terra.

Paolo, allora, ridiscende sulla terra per viversi il pochissimo tempo che ancora gli resta come uomo vivo. E qui il film diventa il racconto, tra il serio e il faceto, di come la vita di una persona, sotto lo sguardo consapevole del destino che tutti ci attende, prima o poi, cioè la morte, possa totalmente, radicalmente cambiare.

Paolo si rende conto di quanto la sua vita sia stata fino ad allora estremamente superficiale, di quanto narcisismo abbia dominato i suoi comportamenti di maschio italiano, per giunta siculo, di quanto poco tempo ed attenzione abbia dedicato alla moglie (interpretata da Thony) e ai suoi due figli, cioè ai suoi affetti più veri.

Insomma si rende conto che la vita (e potremmo dire ciò che poi in fondo le dà senso) è fatta di tanti momenti che, quando li viviamo, ci appaiono magari insignificanti e quindi trascurabili, ma che, invece, vissuti alla luce di una maggiore consapevolezza potrebbero darci vera e autentica felicità.

E questa maggiore consapevolezza può venirci (è brutto e triste doverlo riconoscere, ma è anche la realtà) può sopravvenire in noi se ci rendiamo conto che la nostra vita non è eterna, non ha un tempo infinito a sua disposizione, che essa è destinata a terminare prima o poi. Perché questo pensiero ridisegna immediatamente per noi (e senza neanche molto sforzo da parte nostra) la vera e giusta scala dei valori.

Insomma il pensiero della morte, lungi dall’incupirci, può aiutarci a vivere meglio, come accade a Paolo, il protagonista del film del regista Daniele Luchetti, che ne ha scritto anche la sceneggiatura, assieme a Francesco Piccolo, traendo spunto da un libretto omonimo dello scrittore casertano.

Film che nel primo tempo si muove leggero, quasi frivolo, figlio dello stile a volte insopportabile dello scrittore dalla cui opera trae spunto. Nel secondo, invece, decolla, diventa un po’ più serio e meno superficiale, fino a toccare, in qualche momento, persino la poesia.

Giovanni Lamagna

Recensione del film “The place”.

Ho appena visto al cineforum un bel film, un film che mi è piaciuto molto E’ “The place”, uscito a novembre 2017, girato dal regista romano Paolo Genovese (anni 52, autore di altri lungometraggi, tra i quali quello che ricordo meglio e con più piacere è “Perfetti sconosciuti”).

Paolo Genovese è un regista fondamentalmente brillante, autore di commedie, che però non evita nei suoi film passaggi drammatici, che in alcuni casi sfociano in vera e propria tragedia. E’, insomma, un regista che vuole far divertire, i cui toni sono apparentemente leggeri, ma che allo stesso tempo intende far riflettere. E, a mio avviso, ci riesce molto bene.

Il cast di questo film annovera tra i migliori attori italiani di questi anni. In primis Valerio Mastandrea, l’assoluto, intenso, superbo, protagonista. E poi, a seguire, uno più bravo/a dell’altro/a: Marco Giallini, Alba Rohrwacher, Vittoria Puccini, Rocco Papaleo, Silvio Muccino, Silvia D’Amico, Vinicio Marchioni, Alessandro Borghi, Sabrina Ferilli e Giulia Lazzarini.

Il film è tutto girato in un ristorante romano: “The place”, appunto. E’ un’opera, quindi molto statica, la cui “azione” (per modo di dire!) si svolge in un solo posto (l’allusione al nome del ristorante è evidente) e perciò ha bisogno di una sola scena, assomiglia per questo più ad un lavoro teatrale che cinematografico.

In cosa consiste la trama? Il film non ha una vera e propria trama. Descrive la giornata di un uomo di mezza età, piacente ma piuttosto malinconico, in buona salute ma allo stesso tempo stanco, come uno che si porta appresso un peso misterioso, piuttosto chiuso e poco comunicativo.

L’uomo in questione trascorre gran parte della sua giornata seduto ad un tavolo del ristorante (sempre lo stesso): ogni tanto sorseggia un caffè (si scola molti caffè al giorno), beve una bibita, mangia qualcosa. Ma soprattutto riceve persone (una alla volta, tranne nel caso di una coppia), che vanno da lui per manifestargli un desiderio e per riceverne un compito: se realizzeranno il compito, si realizzerà anche il loro desiderio.

E così il film ci racconta la girandola delle persone che vengono ricevute dall’uomo seduto al tavolo: uno va via ed un altro gli subentra, in una sequela interminabile, quasi parossistica, a tratti spassosa e divertente, a tratti dura e conflittuale.

Perché l’uomo (tra il santone, il mago e un confessore laico) ascolta impassibile, prende appunti su una vecchia e corposa agenda e, seguendo una specie di logica algoritmica, infine, lapidario, impartisce compiti e talvolta consigli.

Ma i clienti non sempre sono soddisfatti del compito ricevuto, che in genere è cinico e spietato (del tipo: fare una rapina, uccidere una bambina, violentare una donna, insabbiare una denuncia, mettere una bomba in un locale, perdere la propria verginità, tradire il marito…).

Come se il messaggio di fondo che l’uomo misterioso volesse passare ai suoi interlocutori fosse: “ mors tua, vita mea”; ovverossia: per realizzare un tuo desiderio occorre che paghi dei costi oppure bisogna farlo pagare a qualcun altro, fosse anche un estraneo.

Come se il mondo vivesse in un precario equilibrio omeostatico: per realizzare una situazione di benessere e di piacere in un posto e per qualcuno occorre sottrarlo o toglierlo da qualche altro posto o a qualcun altro: per far guarire tuo figlio da un cancro devi uccidere un’altra bambina, per far guarire tuo marito dall’alzheimer devi mettere una bomba e far morire decine di persone…

Una visione cinica del mondo che può apparire (ed è) perversa, ma che, se ci pensiamo bene, non è molto distante da quella che guida le azioni di molti uomini, se non della maggioranza di essi, compresi (forse) noi stessi.

La prima cosa che sorprende è che l’uomo viene preso sul serio, tremendamente sul serio da coloro che si rivolgono a lui, nonostante le resistenze e le ribellioni iniziali. A cosa può spingere la disperazione!

La seconda cosa sorprendente è che, come quando si ricostruisce un puzzle, le vicende di coloro che si rivolgono all’uomo seduto al tavolo un poco alla volta vengono a intrecciarsi, a ricomporsi, in certi casi pacificamente e armoniosamente, in altri attraverso conflitti irresolubili. Come appunto succede spesso nella vita.

La terza cosa che il film sembra suggerirci è che per conoscere il mondo in fondo non occorre poi viaggiare tanto. Basta stare fermi in un posto e rimanere aperti ad ascoltare gli uomini che ti girano attorno: il mondo viene lui da te.

E, infatti, alla fine il protagonista (Valerio Mastandrea) sembra stanco, molto stanco, come se venisse da un lungo viaggio, come se il suo “lavoro” fosse non quello di uno che sta sempre fermo allo stesso posto, ma quello di un commesso viaggiatore.

Allora, finalmente, cede alle lusinghe e alla corte gentile e amorevole della cameriera del ristorante (una brava Sabrina Ferilli), che da tempo gli gira attorno, un po’incuriosita dal suo mistero e un po’ innamorata.

L’uomo misterioso, infine, sembra scendere dal treno sul quale ha lungamente (e metaforicamente) viaggiato e si accasa. Finalmente si lascia andare ad un sorriso e sembra abbandonare il suo cinismo e il suo disincanto per sposare un po’ di amore.

Giovanni Lamagna

Recensione del film “Euforia”

Ho appena visto un bel film: “Euforia”. Regia di Valeria Golino. Attori protagonisti Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea. Attori non protagonisti Isabella Ferrari e Jasmine Trinca.

E’ un film sulla malattia, il dolore che ne consegue e la fratellanza. Non capisco, quindi, il titolo, che gli è stato dato; titolo che, a mio avviso, c’entra poco (o niente) con le problematiche centrali del film.

Matteo (Scamarcio) ed Ettore (Mastandrea) sono due fratelli molto diversi tra di loro, quasi opposti.

Il primo è un manager, molto ricco, superattico nel centro storico di Roma, auto di lusso, estroverso, dinamico, omosessuale, cocainomane, vita disordinata, oltre le righe (forse sono questi i dati che hanno dato lo spunto al titolo del film, ma senza per me giustificarlo).

Ettore, insegnante di scienze, introverso, perfino un po’ depresso, tutto dedito agli studi, stile di vita modesto, quasi trasandato, sposato, ma da poco separato (la moglie è interpretata da Isabella Ferrari), con un figlio di pochi anni, vive una nuova storia di amore con una collega di scuola (Jasmine Trinca).

I due, pur essendo stati fratelli molto uniti e affiatati quando erano piccoli, hanno intrapreso da adulti percorsi molto diversi, che li hanno allontanati, per cui si vedono poco e ancora meno sono abituati a parlare delle loro cose intime.

Il film comincia con la notizia che Ettore ha un tumore al cervello, incurabile, inoperabile, gli restano solo pochi mesi di vita. Della cosa è informato solo Matteo, che ne viene sconvolto. Per cui la sua vita assume una direzione completamente nuova.

Prende il fratello a casa sua e prova a stringergli attorno un cordone sanitario. Ettore non deve sapere niente della gravità della sua malattia, sa soltanto che ha una cisti al cervello, che essa sarà ridotta con le radioterapie e che presto sarà operato per asportarla.

Non devono saperne nulla manco la loro madre e ovviamente il piccolo figlio di Ettore. L’unica a saperne è la moglie da cui Ettore si è da poco separato.

Sulle prime ed in apparenza la vita di Matteo continua come prima. Affida il fratello al suo autista personale che lo accompagna in ospedale per le terapie. Lavora normalmente, frequenta gli amici e i locali da sballo abituali, tira coca.

Apparentemente. Perché in realtà la presenza in casa del fratello, la percezione concreta e violenta della sua sofferenza fisica, l’idea che presto Ettore non ci sarà più e, forse, anche il fatto che è lui solo a saperlo e che non può condividere la cosa con nessuno, gli cambia la vita.

Innanzitutto incomincia a passare molto più tempo in casa per stare col fratello. Questo consente loro di parlare, di aprirsi, su cose che da tempo non erano più abituati a dirsi. Entrambi riscoprono, quindi, una fratellanza che avevano smarrito, di cui avevano perso il linguaggio.

Tanto è vero che io avrei dato a questo film il titolo di “Fratellanza”, che sarebbe stato a mio avviso molto più esplicativo della sua trama e del suo contenuto di quanto non lo sia quello di “Euforia”, che del film coglie aspetti piuttosto superficiali e secondari.

Fratellanza qui non vuol dire che tra Matteo ed Ettore scompaiano le diversità e i conflitti, meno che mai gli attriti e le incomprensioni. Anzi l’intimità appena ritrovata li fa ad un certo punto esplodere all’ennesima potenza, soprattutto in una scena molto violenta, nella quale i due fratelli arrivano addirittura alle mani e se le danno di santa ragione.

E però, come spesso succede, il conflitto emerso e liberato, anziché far saltare, ammazzare il rapporto appena rinato, lo sblocca definitivamente e pienamente: alla ferocia della violenta litigata succede, infatti, la tenerezza dell’abbraccio di riappacificazione.

Il film è tutto giocato su due fattori fondamentali, che ne spiegano ampiamente la riuscita:

– le emozioni forti del dolore, della sofferenza, della tenerezza, dell’amore, perfino della (momentanea e saltuaria) allegria. La storia ci fa vivere momenti di grande tensione emotiva, ma non scade mai nel patetico e nel sentimentalismo. Ed è questo il grande merito della Golino, che si dimostra qui una bravissima regista dopo aver dimostrato di essere una grande attrice nei molti film girati in precedenza.

– la splendida interpretazione di Scamarcio e di Mastandrea, entrambi in grande forma, coppia affiatatissima al livello delle grandi coppie della storia del cinema, credibilissimi nei panni dei personaggi loro affidati, sciolti, naturali, brillanti, emozionali al punto giusto, tanto è vero che nelle (quasi) due ore del film riescono a coinvolgerci intensamente come poche volte succede a cinema.

Giovanni Lamagna

Dopo aver visto il film “Perfetti sconosciuti”.

16 aprile 2016

Dopo aver visto il film “Perfetti sconosciuti”.

“Perfetti sconosciuti” (nelle sale italiane dall’11 febbraio di quest’anno) è un bellissimo film. Nella tradizione delle migliori commedie all’italiana.

Bellissimo e affiatatissimo cast (Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Giuseppe Battiston, Marco Giallini, Kasia Smutniak, Anna Foglietta, Edoardo Leo). Buonissima recitazione (sciolta, leggera, sempre coi tempi giusti, a tratti ironica e divertente a tratti dolente e, perfino, drammatica). Buona regia di Paolo Genovese. Ma, soprattutto, bel soggetto e bellissima sceneggiatura (dello stesso Genovese, di Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini, Rolando Ravello), che stimola molte riflessioni su di noi, sulla nostra vita e sulle nostre relazioni.

La trama si può raccontare in poche parole: quattro coppie di amici si riuniscono a cena a casa di una di loro. Ad un certo punto della serata la padrona di casa propone un gioco: mettiamo tutti i nostri cellulari sul tavolo e quando arriveranno sms o telefonate leggiamoli o ascoltiamole insieme.

All’inizio la proposta ingenera qualche turbamento e quindi una certa resistenza. Poi tutti/e i convitati accettano di mettersi in gioco. Il film vive tutto su quello che le telefonate e gli sms che via arrivano a ciascuno/a degli otto protagonisti rivelano della loro vita (quella segreta, tenuta nascosta perfino ai rispettivi partner).

Ovviamente (non è difficile immaginarlo) la vita segreta degli otto amici è legata essenzialmente al sesso. Per cui il film diventa una specie di panoramica sulle fantasie e sulle (piccole) trasgressioni sessuali oggi più diffuse.

E’ anche facile immaginare le reazioni di ciascuno/a dei protagonisti della storia: all’inizio soprattutto di sorpresa di fronte alle scoperte che ciascuno/a fa sull’altro/a, poi (per lo più) di grande smarrimento e confusione emotiva, infine di rabbia, invidia, gelosia, in certi casi e momenti perfino di grande, violenta aggressività.

Uscendo dal cinema e mentre tornavo a casa, ho fatto le considerazioni e mi sono posto le domande che provo a raccontare.

E’ senz’altro vero che “ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta” (il trailer del film attribuiva questa frase a Gabriel Maria Marquez).

E, forse, è inevitabile che nelle nostre vite sussista questa tripartizione. E, quindi, una buona dose di ipocrisia e di insincerità.

Ma non sarebbe bene che ognuno di noi lavorasse su di sé, per rendere sempre meno estesa la terza vita e sempre più pubblica e trasparente (come in una casa di vetro) anche la seconda?

Non sarebbe meglio se nessuno di noi avesse segreti per gli altri?

E che ognuno di noi potesse comunicare tranquillamente le proprie fantasie e desideri di evasione/ trasgressione senza ingenerare traumi, paure, angosce di abbandono?

Non sarebbe meglio se nessuno di noi considerasse l’altro come una sua proprietà esclusiva e che considerasse normale che si possa desiderare (e perfino amare) una persona e contemporaneamente amarne anche un’altra?

Non vivremmo tutti/e una vita più semplice, serena e felice, se abbandonassimo le nostre gelosie ed invidie e fossimo disposti a rendere pubblica anche la nostra vita segreta e quella privata?

Non ci eviteremmo angosce e patimenti inutili?

Se la nostra vita segreta (più o meno quella di tutti/e) è fatta anche (perché negarlo?) di simili fantasie ed esperienze, perché considerarle ancora tabù e non sdoganarle come normali modi di essere e di comportarsi?

Non ne guadagneremmo in onestà e sincerità e, quindi, nella qualità delle relazioni?

Non ci liberemmo del fardello inutile di faticose e dispendiose (in termini di energia psichica) ipocrisie?

Forse queste mie riflessioni e domande sono frutto di utopie e di sogni.

Ma non è bello uscire da un cinema sognando? Non è nato il cinema proprio per farci sognare?

E non sono le utopie che fanno progredire l’umanità? Non sono gli uomini che hanno osato immaginare un mondo diverso che hanno poi contribuito a trasformarlo davvero?

Giovanni Lamagna