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Invidia del pene?

Ogni essere umano vive una mancanza, si sente mancante di qualcosa: è normale!

“Mancanza”, però, non è sinonimo di “mutilazione”; né sul piano psicologico, né, tantomeno, su quello fisico.

Quindi ha senso, ha un suo fondamento, affermare – come ha fatto Freud – che le donne avrebbero “l’invidia del pene”.

A patto, però, di ipotizzare – per analogia – che anche gli uomini hanno invidia di qualcosa; ad esempio, “l’invidia del seno”.

Come sembra dimostrato – in modo inequivocabile – dalla conversazione tra Marco e Paola di qualche giorno fa: “Mamma, vorrei avere anche io le tette come le hai tu; perché non sono nato femmina?”

© Giovanni Lamagna

Potere di seduzione.

Le donne hanno un grande potere di seduzione sugli uomini.

Per carità, anche gli uomini lo hanno sulle donne.

Ma il potere di seduzione delle donne risalta di più rispetto a quello dell’uomo.

Perché è un potere tutto e solo psicologico, anche quando si avvale del corpo (ad esempio, della bellezza del corpo), perché non può, anche se volesse, fondarsi sulla forza, predominanza fisica.

Mentre il potere dell’uomo si fonda da sempre, storicamente, innanzitutto, sulla forza, si avvale anche (e, in certi casi, soprattutto) di un’oggettiva maggiore forza fisica rispetto a quella della donna.

© Giovanni Lamagna

Rivoluzione e ribellione.

Giustamente Maurizio Bettini nel suo recente saggio “A sinistra da capo” (Paper FIRST 2022) fa notare che “chiedere in questi momenti la “buona educazione” appare quantomeno “peloso”. La calma e la ragionevolezza sono il privilegio di chi sta in alto; che ha il tempo di pensare e poi deliberare” (pag. 15).

Sta parlando (come era facile intuire) dei momenti, che segnano la Storia, in cui gli oppressi si ribellano agli oppressori, in genere in maniera violenta e spesso cruenta, talvolta ricorrendo persino al terrore.

Concordo pienamente, prendendo atto di quella che pure a me sembra una realtà che ci viene consegnata dalla Storia.

E però mi chiedo: sono davvero rivoluzionari momenti come questi? O non sono destinati fatalmente a riproporre molte volte, anche se in forme diverse, gli stessi soprusi ai quali essi avevano provato a ribellarsi?

Qui mi sovviene la distinzione che già altre volte ho fatto tra il concetto di “ribellione” e quello di “rivoluzione”.

Nella “ribellione” prevale nettamente, se non esclusivamente, la pars destruens; l’abbattimento del sistema considerato ingiusto; senza andare troppo per il sottile quanto ai mezzi e ai modi.

Nella “rivoluzione” (in una vera rivoluzione) c’è indubbiamente una “pars destruens”, ma allo stesso tempo è già ben presente anche una “pars construens”, che presuppone (o, meglio, presupporrebbe) “calma” e “ragionevolezza” anche da parte di chi sta sotto e si ribella a chi sta in alto.

Proprio la “calma” e la “ragionevolezza” definiscono per me la rivoluzione.

Di cui, invece, fa sempre a meno la ribellione, che le considera un lusso, che non ci si può permettere, se si vogliono raggiungere determinati obiettivi di cambiamento.

Per questo io non credo alle cosiddette rivoluzioni violente; alle “rivoluzioni” intese come evento; anche quando nascono e sono animate in partenza dalle migliori intenzioni.

Per me la vera rivoluzione è quella che si realizza un poco alla volta, attraverso riforme progressive dell’esistente, facendo ricorso appunto alla “calma” e alla “ragionevolezza”, avendo “il tempo di pensare e poi deliberare”.

Per me la rivoluzione è un processo, non un evento; è tutt’al più una catena di eventi legati tra di loro che, in maniera graduale e mai improvvisa, realizzano il cambiamento.

E’ una categoria concettuale (oltre che una concreta realtà psicologica o sociale) più affine a quella di “evoluzione” che a quella di “ribellione”.

Aggiungo, per chiudere questa riflessione, che ciò che vale in ambito politico-sociale per me vale – pari, pari – anche in ambito psicologico- individuale.

I veri e profondi cambiamenti dentro di noi non avvengono mai all’improvviso e in base ad un singolo fattore.

Sono sempre il frutto dell’accumularsi, intrecciarsi, sedimentarsi di una molteplicità complessa di elementi.

Che possono anche esplodere in forma vistosa ed eclatante in un singolo momento, ma non si riducono mai semplicisticamente a questo.

© Giovanni Lamagna

Esistere e desistere.

Penso che il termine col significato opposto a quello di “esistere” sia quello di “desistere”.

L’atto di “esistere”, infatti, non corrisponde al semplice “vivere” (o, meglio, sopravvivere), ma ad una precisa, determinata volontà/decisione/scelta di vivere, di “stare” (anzi re-stare) in questo mondo.

Espresse significativamente dal prefisso “ex”, che sta a significare una volontà di uscire dal semplice “stare”.

Che è, invece, un trovarsi qui, nel mondo, dopo esservi stato “gettato” per caso col nascere, ma restandoci senza fare una scelta, bensì per semplice inerzia, dunque sopravvivendo e non vivendo.

Il “desistere” esprime, invece, l’atto esattamente opposto a quello di “esistere”: è quasi un dimettersi dallo stare qui, nel mondo.

E’ un uscire (di fatto) dallo stato del vivere (se non in senso fisico, quantomeno in senso psicologico), espresso molto bene dal prefisso “de”.

© Giovanni Lamagna