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Natura, bisogno, piacere, ragione e desiderio.

“La natura, maternamente, ha stabilito che le azioni che ci ha imposto per il nostro bisogno fossero anche piacevoli per noi, e ci invita ad esse non solo con la ragione, ma anche col desiderio: è un’ingiustizia alterare le sue regole.” (Montaigne; “Saggi”; Libro III; cap. XIII; pag. 1039-1040).

Io aggiungo: non sempre è così; anche se non poche volte – per fortuna – è così.

Ci sono (non pochi) momenti in cui ragione e sentimento (il desiderio ha a che fare col sentimento più che con la ragione) vanno in rotta di collisione.

Per cui direi che la nostra crescita spirituale e, quindi, umana, sta tutta in questo tentativo/ricerca di mettere il più possibile in accordo e in armonia la nostra parte razionale con quella desiderante.

Di mettere d’accordo, in altre parole, il “principio del piacere” con il “principio della realtà”: avrebbe detto Freud.

O il desiderio con la Legge: avrebbe detto Lacan.

© Giovanni Lamagna

Svuotare la mente e liberarla dai desideri?

Per me – al contrario di quello che sostiene la cultura un tempo egemone nel lontano Oriente – non si tratta di “svuotare la mente, liberarla dal desiderio…”, come ci ricorda ancora oggi Byung-Chul Han nel suo “Il profumo del tempo” (pag. 69).

Io ritengo, infatti, che sia impossibile svuotare la mente dai suoi pensieri. Anche volendolo.

Cercare di farlo, quindi, come ci suggeriscono gli orientali, è un tentativo vano.

La mente, infatti, è i suoi pensieri. Per eliminare i pensieri bisognerebbe eliminare la mente. Cosa impossibile! Perché l’uomo è non solo mente, ma anche mente, non solo pensieri, ma anche pensieri.

Per eliminare mente e pensieri bisognerebbe dunque eliminare l’uomo stesso, uccidendolo o costringendolo a suicidarsi.

L’uomo può, tutt’al più, far fluttuare i pensieri, non inseguirli per metterli immediatamente in una sequenza logica, come di solito è abituato a fare in nome del primato della ragione su tutte le altre dimensioni della psiche.

Può farli galleggiare liberamente come palloncini che si librano nell’aria, in un gioco di libere associazioni, che generano altri pensieri e, soprattutto, emozioni, sentimenti, intuizioni, nuove visioni prospettiche.

E questo può essere sicuramente un modo creativo di utilizzare la mente e i pensieri: è l’esperienza della contemplazione, dell’arte e quella della psicoanalisi.

E, però, mai e poi mai l’uomo potrà liberarsi totalmente dei pensieri, svuotare totalmente la mente, come pretenderebbe un certo pensiero orientale.

…………………….

Ancora di più è vano, anzi è insano, liberare la mente dai desideri.

Il desiderio, infatti, – lungi dall’essere un male, fonte addirittura dell’infelicità umana, come sostiene un certo pensiero orientale, ad esempio il buddhismo – è forza vitale, è energia, è sangue che scorre nelle vene della vita psichica.

Spegnerlo avrebbe come effetto quello di togliere linfa alla vita stessa.

Si tratta, semmai, di coordinare i desideri, spesso contraddittori tra loro, di incanalarli, per non disperdere in mille rivoli la loro energia, di dare loro una direzione unitaria, laddove essi affiorano in noi il più delle volte senza un progetto coerente.

E si tratta soprattutto di aver coscienza del limite, quella che Lacan chiama “legge della castrazione” e, prima di lui, Freud aveva definito “principio della realtà”.

Non tutti i nostri desideri, infatti, potranno avere immediata soddisfazione, non tutti i nostri desideri potranno essere pienamente realizzati.

Ma, se quanto sopra è vero, è altrettanto vero che solo attraverso i desideri noi possiamo scoprire prima e trovare la forza poi di realizzare il nostro daimon, cioè il destino per il quale un giorno siamo venuti al mondo.

Aveva ancora una volta ragione, dunque, Lacan a sostenere che il peccato maggiore per ognuno di noi è quello di tradire “il proprio desiderio”. Altro che liberare la mente dai desideri!

Perché senza desideri la nostra vita è destinata tristemente a spegnersi. Come sanno bene i depressi, per i quali nessun desiderio ha valore, nessun desiderio anima e dà senso alla loro vita.

Per cui essi vivono (fisicamente) ma come se fossero morti (psichicamente).

Giovanni Lamagna

Due modi (opposti) di vivere il piacere.

Ci sono due modi – molto diversi, potremmo anche dire opposti – di vivere il piacere.

Il primo è il modo aggressivo, violento, predatorio, veloce di vivere il piacere. Fatto di un mordi e fuggi. Come se fosse incapace di reggere per troppo tempo la tensione, l’adrenalina, che sempre sono connesse alle situazioni di piacere.

E’ l’atteggiamento di chi è attratto, come è ovvio, dal piacere, ma, allo stesso tempo, ne è turbato. Vive quindi nei confronti del piacere un sentimento ambivalente e contraddittorio.

Per costui/costei il piacere, quindi, deve essere breve, veloce. Intenso, ma non troppo prolungato. Il godimento deve accompagnarsi ben presto al momento della sua risoluzione, con relativa latenza del desiderio.

Un piacere troppo esteso o prolungato è quindi vissuto con imbarazzo, se non addirittura con disgusto. In questo caso il desiderio può trasformarsi nel suo opposto: in un sentimento di fuga dal piacere, di rifiuto delle sensazioni ad esso collegate. Che non sono manco più piacevoli, ma diventano (soggettivamente, ma molto realmente) sgradevoli.

In questo caso il piacere si accompagna sempre a un più o meno latente senso di colpa, che si manifesta o attraverso un senso del pudore eccessivo a attraverso una vera e propria vergogna del proprio agire.

Chi vive il piacere in questo modo alterna spesso momenti di euforia e di eccitazione a momenti di stanca malinconia, se non di conclamata depressione.

Chi vive il piacere in questo modo si accompagna anche a persone diverse a seconda del modo di vivere il piacere. Frequenta alternativamente persone che lo aiutano a vivere il piacere e altre che lo immalinconiscono o addirittura lo buttano in depressione.

Le seconde gli servono a bilanciare le prime. Come se frequentare solo le prime fosse troppo. Costasse sensi (innaturali e illogici, eppure ben reali) di colpa. E quindi abbisognasse di pagare pedaggio ai momenti di piacere. Come se frequentare le une e le altre servisse a trovare uno strano e paradossale equilibrio, utile a gestire sia il piacere che i sensi di colpa.

Ovviamente chi vive il piacere in questo modo non potrà mai crescere nei suoi livelli di piacere. Dovrà sempre accontentarsi di una certa soglia di piacere, oltre la quale non potrà mai andare.

C’è poi un altro modo di vivere il piacere, che si distingue dal primo fondamentalmente perché, al contrario del primo, è vissuto senza significativi sensi di colpa. Oppure è in grado di riconoscere i sensi di colpa connessi al piacere che si sta vivendo e li sa gestire, controllare e, infine, superare.

E’ in grado, quindi, di viversi il piacere senza significative contraddizioni. E’ perciò capace di viverlo in maniera prolungata e distesa senza eccessive e avide voracità, ma anche senza inutili e “sprucide” avarizie.

E’ capace di avventurarsi in nuovi territori dello stesso piacere, senza troppe angosce, ma anzi col gusto dell’esplorazione e della sperimentazione, se non della vera e propria trasgressione.

E’ capace di sfidare perfino le convenzioni sociali, i tabù consolidati nel pensiero comune, quando si rende conto, diventa consapevole che il piacere desiderato non fa danni a nessuno, anzi procura maggiore benessere a se stesso e a colui/colei/coloro con cui esso viene condiviso.

Chi vive il piacere in questo modo ha un buon rapporto con il suo inconscio e , quindi, con le sue pulsioni libidiche. Ha ridotto al minimo l’influenza del Super Ego e tiene conto, nel porre limite ai suoi desideri, solo del principio (ovviamente fondamentale) della realtà.

Soffre di rado di sbalzi di umore. Vive una situazione stabilizzata e placida di benessere psicofisico, che ogni tanto viene piacevolmente “turbata” da picchi di godimento, ma non sprofonda mai (o quasi mai) negli abissi del dispiacere e della malinconia. Non sa manco cosa sia la depressione.

Tende a frequentare persone che come lui/lei sono altrettanto gaudenti, nel senso che vivono un rapporto positivo col piacere. E ad evitare, al contrario, le persone che hanno un rapporto complicato col piacere. A maggior ragione si tiene lontano da quelle che propendono verso il masochismo.

Giovanni Lamagna

Nevrosi e relazioni affettive.

6 ottobre 2016

Nevrosi e relazioni affettive.

La nevrosi, come tutti sappiamo, è essenzialmente una scissione. Una scissione tra due o più parti di sé.

Ad esempio, tra il principio del piacere e quello della realtà, tra le pulsioni del corpo e le istanze della mente, tra le esigenze dell’istinto e l’esigenza di controllare l’istinto.

Tutti quanti noi – chi più e chi meno – nasciamo scissi e dobbiamo confrontarci – prima o poi – con qualche scissione interiore.

Ma alcuni impegnano tutta la loro vita a ricomporla. Con risultati più o meno positivi e apprezzabili.

Altri, invece, preferiscono (o si rassegnano a) conviverci, “godendosi” il suo “vantaggio secondario”.

C’è sempre, infatti, un vantaggio secondario in ogni nevrosi. Un vantaggio che compensa il disagio, la sofferenza, l’insoddisfazione.

Fosse anche il vantaggio di non cambiare la via vecchia per la nuova, di non affrontare i rischi, le incognite che il cambiamento, necessario per uscire dalla scissione che ci fa soffrire, comporterebbe.

Alcuni, ad un certo punto della loro vita, riescono a liberarsi della propria scissione originaria o a trovare una soddisfacente unità interiore.

Ma può capitare che non riescano a liberarsi, invece, dalla scissione di coloro che li circondano, in modo particolare di quelli ai quali sono legati da rapporti affettivi, verso i quali hanno (o sentono) doveri di compassione e di solidarietà.

Questa scissione (presente nel contesto relazionale che li circonda) talvolta pesa su di loro quasi come quella interna, dalla quale almeno in parte magari si sono liberati.

E’ come se fosse il prolungamento della loro personale scissione (nevrosi) originaria, una nevrosi che potremmo definire in questo caso ambientale, che li perseguita, quasi come se fosse una maledizione da cui non riusciranno mai totalmente e pienamente a liberarsi.

Essa può manifestarsi nella loro madre o nel loro padre, in un fratello o in una sorella, nel compagno o nella compagna di vita o, addirittura, in un figlio o in una figlia. Perfino in un amico o in un’amica.

Quando si crea questa situazione si pone il problema di cosa fare di queste relazioni: interromperle perché esse fanno stare male? O limitare il danno, delimitando i tempi della frequentazione e della condivisione, senza rompere del tutto il rapporto, per non venir meno ai doveri della solidarietà e dell’affetto?

Scelta non facile da effettuare: in entrambi i casi peseranno condizionamenti e sensi di colpa, a volte molto acuti e profondi.

Giovanni Lamagna