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Sui concetti di laicismo e di illuminismo
Io mi considero un laico a tutto tondo. Per il quale la libertà di pensiero e della sua espressione è un valore sacro. Memore della celebre frase: “Non condivido le tue idee, ma darei la vita perché tu le possa affermare liberamente”.
Ma non penso che il laicismo sia sinonimo di supponenza e presunzione, tale da portarmi a considerare (per fare un esempio calzante con alcuni recenti avvenimenti) tutti coloro che hanno fede in Dio come dei poveri diavoli, ai quali sia normale mancare continuamente di rispetto per la loro “superstiziosa ignoranza”.
Ora – sia chiaro- con queste mie affermazioni non voglio giustificare affatto (anzi li condanno senza se e senza ma; e penso che vadano perseguiti e puniti severamente dalla legge i loro autori) le quattro uccisioni avvenute in questi ultimi giorni in Francia da parte di alcuni fanatici islamici.
Credo, però, che vada compreso – proprio in nome di una laica e quindi direi scientifica razionalità – il contesto nel quale esse sono avvenute, se non si vuole ulteriormente avvelenare il clima dei rapporti tra culture ed etnie diverse e favorire così il ripetersi di altri episodi criminali simili.
Da questo punto di vista ritengo sia un dato obiettivo (difficilmente controvertibile) che una certa supponenza laica (presunta illuminista, in realtà stupida perché – se non intollerante – quanto meno inopportuna) le abbia in qualche modo oggettivamente provocate (nel senso letterale del termine: di “chiamate a sé”).
Chi non si rende conto che determinate sue affermazioni, fossero pure perfettamente razionali e irreprensibili sul piano del costume e della morale occidentale, sono invece inopportune e fuori luogo (anche in società laiche e non confessionali come le nostre), perché poco rispettose di una cultura altra, non è un vero illuminista, ma solo uno sciocco, perché presuntuoso, irresponsabile.
Una cosa è argomentare e criticare anche severamente le idee diverse dalle nostre (e questo è “illuminismo”, sano e del tutto legittimo, anzi sacrosanto), altra cosa è disprezzare e irridere le idee diverse dalle nostre, fosse pure utilizzando “l’arma” della satira (e questo, almeno per me, è il contrario dell’illuminismo, perché è una forma di intolleranza speculare, anche se opposta, a quella che si vuole criticare).
© Giovanni Lamagna
Sull’idea di comunità.
Nel numero 6/2018 di MicroMega Paolo Flores d’Arcais, in un suo articolo, sostiene: “La logica della comunità… è la logica del ghetto, dell’apartheid, della separazione, dell’identità costruita sulla esclusione dell’altro, della convivenza fittizia fondata sull’assemblaggio di gruppi chiusi, autoritari e dogmatici.
Una logica che annienta proprio quel ciascuno che tutti noi siamo, esistenze singolari e irripetibili intorno a un nucleo di opinione irriducibilmente libera. E in nome di cui nessuna collettività, nessuna ipostasi, può parlare, senza ridurre l’individuo a mera replica. Per cui, parafrasando Marx, andrà sempre ricordato che una comunità può essere libera senza che liberi siano gli individui che la compongono”.
Ora, a mio avviso, tali affermazioni sono senz’altro vere e condivisibili, se riferite ad alcune tesi politiche attuali, quali ad esempio quelle sovraniste oggi tanto in voga, in primis quelle portate avanti dalla Lega (ex Nord) di Matteo Salvini.
Non lo sono, se riferite alla nozione stessa di “comunità”, quale categoria filosofica, sociologica e finanche religiosa, se per religione intendiamo una visione del mondo, più e prima che la sua incarnazione storica in una Chiesa.
Vorrei provare, quindi, a confrontarmi con le affermazioni di Flores, contestandole e smentendole in buona sostanza, almeno in alcuni loro passaggi.
Partendo da una domanda: la logica della comunità è davvero solo “la logica del ghetto, dell’apartheid, della separazione, dell’identità costruita sulla esclusione dell’altro, della convivenza fittizia fondata sull’assemblaggio di gruppi chiusi e autoritari e dogmatici”?
La mia risposta è: dipende da che cosa intendiamo, quando pensiamo al concetto di “comunità”. Perché ci sono comunità e comunità: non tutte le comunità concretamente esistenti (o esistite) sono, infatti, da far rientrare nella stessa categoria filosofica e perciò astratta di “comunità”.
Se per comunità intendiamo un gruppo chiuso, che si fonda sulla condivisione di credenze inossidabili, ritenute verità rivelate e perciò dogmatiche, dunque assolute, eterne e indiscutibili, sulla presunzione di possedere la Verità da trasmettere o perfino imporre a color che ne sono ritenuti privi, sulla fede e obbedienza ad un’autorità a cui si attribuiscono poteri sacri o addirittura derivati da Dio stesso, sulla emarginazione dal gruppo di colui o coloro che si permettano anche solo minimamente di avanzare dubbi, riserve, critiche, perplessità riguardo sia ai valori fondanti del gruppo che alle “autorità” che quei valori sono chiamati a custodire, sulla appartenenza alla stessa etnia o, perfino, nei casi estremi sui soli legami di sangue, se per comunità intendiamo, quindi, un gruppo che vive sulla difensiva o, in alcuni casi, sulla competizione e, perfino, sulla guerra con i gruppi “stranieri”, allora la “comunità” effettivamente è quello che dice Flores d’Arcais, cioè un ghetto.
Ma la comunità è solo questo? O, meglio, dato per scontato che alcune (molte) comunità sono quello che sostiene Flores, nel concetto di comunità rientra solo questo? Per comunità dobbiamo intendere solo lo scenario che ne ha descritto Flores, anche se esso è effettivamente e indubbiamente un’esatta e precisa descrizione di alcune (molte) comunità?
Io dico di no. Io dico che ci può essere, anzi c’è, un’altra idea di comunità. E che questa (in parte almeno) è stata non solo teorizzata ma anche praticata (e tuttora viene praticata) in alcune realtà. Realtà magari piccole, minoritarie, ma che non per questo vanno ignorate o escluse dal vocabolario che definisce il concetto di “comunità”.
Per “comunità” noi possiamo intendere anche altro. Io personalmente così la intendo. La comunità è innanzitutto un luogo, un gruppo che mette insieme le persone non certo in base alle etnie e manco in base ai legami familiari, ma sulla base di una scelta, di una decisione/adesione libere e consapevoli (quindi senza nessuna forma di coartazione, né fisica né psicologica, né plateale né subliminale), del singolo individuo. Altro che individuo, quindi, come “mera replica” del gruppo!
Per comunità, inoltre, possiamo intendere un gruppo di persone che si mettono insieme sulla base di alcuni interessi, opinioni, convinzioni, intenzioni, valori condivisi.
Parliamoci chiaro: nessun gruppo nasce, potrebbe nascere, senza un denominatore comune, costituito appunto da interessi, opinioni, convinzioni, intenzioni, valori condivisi.
Ma, rispetto alla logica della comunità-ghetto, questi interessi, opinioni, convinzioni… possono anche non avere nulla di dogmatico e di rigido. Bensì aperti al confronto con interessi, opinioni, convinzioni… diversi di altri gruppi.
La comunità che intendo io è una comunità fondata sul dialogo con le diversità, sulla collaborazione e sulla cooperazione e non sulla competizione e sulla ostilità della comunità-ghetto.
E’ una comunità che ha sposato convintamente il motto (erroneamente attribuito a Voltaire, in realtà di una sua amica-discepola, la scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall): “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”.
E’, insomma, una comunità aperta al pluralismo delle idee e niente affatto integralista.
E’ un gruppo che, come tutti i gruppi, ha una sua leadership, ma essa è di natura democratica e per nulla autoritaria. Il leader è tale per le sue qualità umane, cioè caratteriali, relazionali, intellettuali, spirituali. Viene riconosciuto quindi come tale dal gruppo e non investito dall’alto e subìto dal gruppo.
Tanto è vero che, nel momento in cui egli non dovesse più esprimere il sentire e la volontà della comunità, questa prevede (formalmente o informalmente) meccanismi piuttosto semplici, fluidi e rapidi per la sua sostituzione con altra persona ritenuta più adeguata alla funzione.
In questo tipo di comunità il leader è un “primus inter pares” e la struttura psicodinamica del gruppo è circolare e non verticale, come invece lo è nelle comunità-ghetto, di cui parlava Flores.
Infine, la comunità, per come la intendo io, è tenuta insieme dal sentimento caldo e affettuoso dell’amicizia fraterna e non dalla condivisione di una fede fanatica, che lascia in realtà estranei gli uni agli altri i membri della comunità-ghetto.
La comunità di cui parlo io è un gruppo, nel quale si pratica concretamente, non solo a parole, ed è quindi realizzato il motto del 1789: “Libertà, uguaglianza e fraternità”.
E’ un gruppo nel quale l’individuo lungi dall’essere sacrificato e mortificato (come avviene nelle comunità-ghetto dei paesi sottosviluppati, ma anche nelle società-massa dei paesi cosiddetti ipersviluppati) è esaltato al massimo, è considerato una persona umana e non un soggetto anonimo.
E’ un gruppo allora che realizza pienamente, almeno nel micro, gli ideali che la rivoluzione francese avrebbe voluto realizzare nel macro e che in realtà non furono mai portati a compimento, perché realizzati solo in minima parte; certamente molto poco (o per niente) per quanto riguarda la dimensione della fraternità.
E’, quindi, in qualche modo, la prefigurazione micro di una società “altra” rispetto a quella macro nella quale pure è inserita.
Una realtà micro, fondata sui principi-ideali della libertà individuale, della laicità, del pluralismo, della tolleranza, della democrazia, dell’uguaglianza, della solidarietà umana, della fraternità, che aspira (perché no?) a diventare macro.
Ma senza coltivare alcun fanatismo, senza teorizzare alcuna prevaricazione e, soprattutto, senza praticare nessuna forma di violenza, ma utilizzando esclusivamente gli strumenti e le vie della democrazia formale e sostanziale.
© Giovanni Lamagna