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Amore genitoriale, amore erotico e amore fraterno universale.

L’amore che un figlio riceve (o dovrebbe ricevere) dai propri genitori (specie quello della madre) è, in genere, un amore incondizionato; non condizionato da alcunché; un amore – potremmo dire – addirittura “immotivato”, un amore a prescindere, inscritto nella natura, nei cromosomi.

I genitori, infatti, tranne rari casi degeneri, amano i loro figli non per le loro qualità, ma perché sono “i loro figli”.

Un proverbio napoletano rende molto bene questo sentimento, questa realtà relazionale: “ogni scarrafone è bell’ ‘a mamma soja” (ogni scarafaggio è bello per la sua mamma).

L’amore che un uomo e una donna ricevono in età adulta dal loro amante è, invece, un amore per sua natura condizionato, quindi non scontato, come lo è al contrario, in genere, quello dei genitori nei confronti dei “loro” figli.

Condizionato ad alcune caratteristiche: la bellezza, la simpatia, l’intelligenza, le qualità morali e chi più ne ha più ne metta.

L’amore – dice Lacan, che in questo caso, a mio avviso, si riferisce chiaramente e direi esclusivamente all’amore erotico – è sempre “amore per un nome proprio”, cioè per certe caratteristiche particolari che sono di una persona e non di altre.

Senza queste caratteristiche, che attraggono e provocano il desiderio che si prova per l’altro, l’amore erotico manco nascerebbe.

E’ quindi un amore allo stesso tempo più fragile e più forte di quello che danno (in genere) i genitori ai loro figli; più motivato e, quindi, più narcisisticamente ambito.

E’ più fragile perché può venire meno in qualsiasi momento, se vengono meno le qualità che hanno spinto il nostro amante a innamorarsi di noi, a provare attrazione per noi.

O se nel tempo cambiano i suoi gusti, per cui quelle che una volta erano delle qualità ad un certo momento diventano per lui oggetto di indifferenza o, addirittura, di repulsione e rifiuto.

E’, però, allo stesso tempo un amore più forte e narcisisticamente più ambito perché – come nessun altro – rinforza la nostra fiducia in noi stessi, ci fa sentire speciali, meritevoli di amore per delle ragioni particolari, singolari, e non semplicemente per il fatto di essere venuti al mondo.

E’ questa d’altronde la caratteristica principale che contraddistingue questo amore, l’amore erotico, dall’amore universale, il cosiddetto amore fraterno, che predicano alcune religioni, specie quella cristiana.

L’amore universale fraterno si riferisce e indirizza ad ogni uomo, a prescindere dal sesso, dal colore della pelle, dell’etnia, del carattere, del modo di pensare e comportarsi dell’individuo a cui viene indirizzato.

E’ un amore motivato dal “semplice” fatto che l’altro è un uomo come me, è un mio simile, non dal fatto che ha determinate caratteristiche e qualità particolari.

L’amore erotico è, invece, come (l’ho già ricordato) ha detto Lacan, “amore per il nome proprio”, per quello che l’altro è nella sua singolarità, anzi nella sua unicità.

E’ un amore che posso provare solo per lui/lei, per come è fatto lui/lei, e non posso provare per altri.

Per questo è un amore così ambito da ciascuno di noi, che rinforza come nessun altro il nostro Io.

Anche se è un amore così fragile e precario, a rischio incombente di logoramento e, persino, di esaurimento.

© Giovanni Lamagna

Omologazione e integrazione nei rapporti.

É mia ferma convinzione che una cosa sia la tendenza a cercare l’integrazione tra due persone in un rapporto, altra cosa sia la tendenza di una delle due ad omologare, assimilare, l’altra a sé.

L’integrazione per me dovrebbe essere l’obiettivo scontato di ogni rapporto, nei desiderata di tutti quelli che avviano una qualsiasi relazione.

Non credo, infatti, che quando due persone si incontrano e decidono di frequentarsi desiderino o siano destinate a restare ognuna di loro uguale a come era prima dell’incontro e della frequentazione.

O, meglio, possono pure restarlo, ma in questo caso non ci sarà stato nessun vero incontro tra di loro e non ne sarà nata una vera relazione.

L’incontro, infatti, c’è davvero e la relazione si instaura effettivamente solo quando si verificano due condizioni.

La prima è che le due persone siano attratte l’una verso l’altra perché ciascuno/a trova nell’altro/a ciò (o, almeno, una parte di ciò) che desiderava e che gli serviva per completare sé stesso/a.

La seconda è che ciascuna delle due si impegni a “prendere” dall’altro/a ciò che lo ha attratto verso di lui/lei e che (spesso inconsciamente) desiderava per integrare, cioè per completare, sé stessa.

Non (come molti sono portati a pensare) per diventare uguale a lui/lei, ma per accogliere (fin dove le riesce) le sue caratteristiche nel suo modo personale di essere, per avvicinarsi a lui/lei, pur restando pienamente sé stesso/a.

In questo consiste per me l’integrazione; che è cosa ben diversa dall’omologazione.

Questa integrazione, a mio avviso, è necessaria, anzi indispensabile, in ogni rapporto degno di questo nome, in ogni rapporto che non voglia sussistere solo in apparenza; la sua mancanza sancisce l’inesistenza sostanziale o l’esaurimento del rapporto.

L’omologazione è tutt’altra cosa: è la pretesa di arrivare ad essere “unum” da parte di uno dei due (o anche di entrambi) che stanno nel rapporto, di rendere uno dei due uguale, simile all’altro, e, quindi, plagiato, dipendente dall’altro.

Un rapporto in cui c’è omologazione potrà anche durare molto, perfino tutta la vita, ma non per questo sarà un rapporto funzionale, che farà stare bene le due persone impegnate nella relazione.

La sua durata, in questo caso, dipenderà da una forma di dipendenza reciproca, di natura morbosa, e non dall’autentico e sano desiderio, che cerca l’altro senza dipendere dall’altro.

Ma anche un rapporto, in cui manchi la voglia, il desiderio di integrarsi, “contaminarsi”, “meticciarsi”, reciprocamente, funzionerà male, non consentirà alle persone che lo vivono di stare bene insieme; sarà un rapporto solo apparente.

Un rapporto per essere funzionale, sano, deve dunque tendere necessariamente all’integrazione reciproca: un processo attraverso il quale ciascuno si arricchisce delle qualità dell’altro restando comunque diverso da lui, restando cioè sé stesso.

Un processo, questo dell’integrazione tra due persone, unite da un rapporto d’amore o anche di semplice amicizia, destinato a non finire mai, a proseguire fin quando durerà il rapporto; questo renderà il rapporto vero, sano, generativo.

© Giovanni Lamagna

Libertà e libertinaggio

Con questa riflessione voglio chiarire un possibile equivoco, che può essere facilmente ingenerato da alcune mie posizioni nei riguardi delle relazioni erotiche e sessuali, quando non vengono correttamente intese.

L’ipotesi della “coppia aperta”, di cui mi sono dichiarato più volte fautore, si pone, regge, ha valore, solo nel caso di un rapporto che funziona, di un rapporto cioè in cui è ancora vivo il desiderio reciproco.

Non certo nel caso di un rapporto nel quale ognuno dei due partner oramai ignora completamente l’altro, si fa i cavoli propri, vive una vita del tutto sganciata da quella dell’altro/a.

Non ha senso, quindi, nel caso di un rapporto che è oramai morto nei fatti o, perlomeno, è del tutto disfunzionale; di quale “coppia aperta”, infatti, si potrebbe parlare, nei casi in cui la coppia di fatto non esiste più?

Fatta questa premessa, io sono convinto però che una coppia, per funzionare bene, ha bisogno – come condizione base per la sua esistenza – della libertà reciproca dei suoi due membri, allo stesso modo di cui i polmoni hanno bisogno dell’aria per respirare.

Ma, anche qui intendiamoci bene, la libertà è altra cosa – smontiamo quest’altro equivoco – dal libertinaggio.

Il libertinaggio, infatti, (quasi sempre) è unilaterale e viene imposto da uno dei due partner all’altro; la libertà, invece, è bilaterale, è una scelta, consapevole e persino formale, fatta da entrambi i partner.

Mi rendo conto, sono pienamente consapevole, che non è facile condividere questa visione dei rapporti amorosi; e che è ancora meno facile metterla in pratica.

Ma l’esperienza mi insegna che, se il rapporto non viene vissuto in questo modo, quasi inevitabilmente (se non inevitabilmente) finisce nelle secche della routine.

Che è, poi, l’anticamera dell’esaurimento sostanziale, se non anche formale, di una relazione erotico-sessuale.

Basta vedere come vivono la maggior parte (non tutte, ma la maggior parte, sì) delle coppie, dopo un certo numero di anni.

Nella migliore delle ipotesi i due membri della coppia sono diventati amici fraterni; nella peggiore si sopportano appena e con molta fatica; in alcuni casi arrivano addirittura ad odiarsi e, perfino, alla violenza.

Certo – anche di questo sono ben consapevole – la maggioranza di noi non è disposta ad accettare questa realtà dei fatti e si ostina a credere nel mito/sogno dell’amore romantico; cioè dell’amore esclusivo, se non anche eterno.

E così i più vanno a sbattere, magari più volte nella loro vita, contro la realtà che – dura come roccia – smentisce quel mito e quel sogno.

Per cui la maggior parte delle società (anche quelle contemporanee, anche quelle culturalmente più evolute, secondo gli schemi della cultura occidentale) continuano (non so se più ipocritamente o più stupidamente) a confermare quel mito e quel sogno.

Oppure a praticare (se non proprio a teorizzare) una libertà di costumi, che vale (ancora, come già in epoche passate) solo per i maschi e non (come sarebbe giusto che fosse) per entrambi i sessi.

Donde la domanda che mi pongo da tanto tempo e la cui risposta a me pare oramai scontata: è sana una società che vive sulla ipocrisia di valori a cui non riesce a mantenersi fedele e sulla ingiustizia di una millenaria disparità tra maschi e femmine?

© Giovanni Lamagna