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Il ruolo dell’Ego nella vita psichica dell’uomo.

Vorrei trarre spunto per questa mia riflessione da tre affermazioni di Massimo Recalcati, che ho trovato nel suo “La legge della parola” (Einaudi 2022); affermazioni da cui dissento in maniera alquanto significativa.

In tutte e tre le affermazioni Recalcati affronta il problema del ruolo dell’Ego (o dell’Io) nella vita psichica dell’uomo, traendo spunto da alcune parole o da episodi della Bibbia; ne trarrò pretesto per affermare la mia posizione in proposito.

Cominciamo dalla prima: a pag. 263 del suo libro Massimo Recalcati sostiene che il “serpente… sospinge i primi umani – Adamo ed Eva – ad assimilarsi a Dio, dunque a non accontentarsi di essere umani.”

Io non sono per niente d’accordo con tale affermazione, la mia posizione è del tutto diversa.

Nell’Eden (da cui poi saranno scacciati dopo aver commesso la “colpa” di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male) Adamo ed Eva non erano affatto umani, come sostiene Recalcati, ma (io direi) pre-umani.

In altre occasioni (vedi “Elogio della disobbedienza a Dio”; 2016 Guida editori) ho avuto modo di dire che Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre erano beati, ma anche beoti, cioè ignoranti, incoscienti, nel senso letterale dei due termini.

Diventeranno umani proprio grazie alla loro disobbedienza al comandamento divino.

Che non è affatto, come invece sostiene Recalcati, un atto di “ambizione sconfinata”, figlio della pretesa inconsistente di “volersi comparare a Dio”, ovverossia secondo la “Torah… la versione più propria del carattere perverso del desiderio umano” (pag. 262).

Ma bensì un atto di legittima affermazione della loro natura, alla quale li aveva destinati il loro stesso creatore, chiamandoli a vivere “non come bruti”, ma “per seguire virtute e conoscenza”.

In altre parole ad essere come Lui, come Dio.

D’altra parte Dio non li aveva creati “a sua immagine e somiglianza”?

La seconda affermazione di Recalcati che io contesto si trova anch’essa a pag. 263; qui Recalcati sostiene che “… lo sfondo di ogni malattia mentale non è l’indebolimento dell’Io ma il suo eccessivo potenziamento, la sua smodata amplificazione, l’attaccamento narcisistico a sé stesso.”.

Mi permetto – anche qui – di non essere del tutto d’accordo; perché qui Recalcati fa una generalizzazione a mio avviso inesatta dell’origine delle malattie mentali, estendendo indebitamente questa diagnosi a tutte le malattie mentali, senza distinzioni.

Io invece ritengo che ci siano indubbiamente malattie mentali che trovano la loro più profonda eziologia nell’eccessiva esaltazione dell’Io, nella “sua smodata amplificazione”, nel suo narcisismo, come sostiene Recalcati.

Ma che ce ne siano altre che hanno una eziologia esattamente opposta e speculare alla prima.

Malattie che trovano la loro radice proprio in un eccessivo indebolimento dell’Io, in alcuni casi nella sua totale o grave inconsistenza, nella mancanza di ogni sia pur minima stima e considerazione di sé.

Nell’io che vive alla deriva, privo di un “centro gravitazionale”, sballottato di qua e di là, tra le opposte sponde dell’Es (istinti, impulsi, passioni, desideri…) e il Super-io (censure, divieti, paure, sensi di colpa…).

La terza affermazione di Massimo Recalcati, che non mi trova d’accordo, si trova a pag. 264 del libro già citato: sulla scorta dell’insegnamento di Qohelet, egli ritorna sullo stesso tema affrontato in precedenza, sostenendo che “… la riduzione dell’infelicità è la castrazione del proprio Ego e delle sue passioni smodate e idolatriche”.

Anche qui mi permetto di non condividere del tutto l’affermazione di Recalcati: il termine “castrazione” mi sembra esagerato; “castrazione” per me è sinonimo di taglio, eliminazione, annullamento.

Mentre per me non si tratta di annullare, eliminare il proprio Ego, quanto di limitarlo, di sottoporlo al principio di realtà.

D’altra parte lo stesso Freud, con la sua celebre affermazione “Dove c’è l’Es ci sarà l’Io”, ci indica che l’obiettivo della possibile crescita umana non deve essere affatto la “castrazione” dell’Io, ma semmai il suo rafforzamento.

Ciò che dovrà indebolirsi è tutt’al più l’Es, cioè l’insieme delle pulsioni libidiche vissute allo stato brado, selvaggio, cioè nella forma delle “passioni smodate e idolatriche”.

Ma anche qui sento il bisogno di precisare meglio il concetto di “passione”, secondo il mio punto di vista.

Non si tratta, infatti, a mio avviso, di rinunciare alle passioni e ai desideri, come ad esempio afferma una certa versione (primitiva e radicale) del buddhismo, che non a caso, opportunamente, Recalcati cita nella nota che si trova a pag. 263.

Quanto piuttosto di limitare, contenere, tenere sotto controllo e mai annullare del tutto le passioni e meno che mai i desideri.

D’altra parte non ci ha più volte avvertito lo stesso Recalcati (sulla base dell’insegnamento del suo maestro, Lacan) che il più grave peccato che l’uomo possa commettere è quello di “cedere sul proprio desiderio”?

In estrema sintesi e per concludere, mi sembra di poter affermare che:

1. la sete di conoscenza del bene e del male nell’uomo non risponde affatto ad un moto perverso e inconsistente di superbia, che fatalmente lo perderebbe, ma ad un naturale e positivo desiderio di trascendere la sua natura animale per avvicinarsi a quella divina, cui del resto lo aveva destinato la stessa volontà del suo Creatore;

2. c’è malattia sia in un eccessivo potenziamento dell’Io, sia in un suo eccessivo indebolimento; l’Io, come ci ha insegnato Freud, il padre della psicoanalisi, svolge, infatti, un importante funzione nella vita psichica dell’uomo, quale punto insopprimibile di equilibrio tra il “principio del piacere” e il “principio della realtà”.

3. non si tratta affatto di “castrare” le proprie passioni e i propri desideri, ma tutt’al più di dare loro un limite, di tenerle sotto controllo, per non farsene travolgere nella ricerca di un godimento illimitato, che diventerebbe fatalmente (in questo caso, sì!) dissipativo, dissoluto e, quindi, mortifero, come ci ha insegnato Lacan.

© Giovanni Lamagna

Due questioni a proposito del libro “Il gesto di Caino” di Massimo Recalcati

La lettura del recente saggio di Massimo Recalcati “Il gesto di Caino” (Einaudi editore) offre, come sempre quando si legge un libro di questo psicoanalista/filosofo (o filosofo/psicoanalista?), numerosi e importanti spunti di riflessione e di meditazione, anche quando non si è del tutto d’accordo con il suo autore.

Qui in particolare vorrei approfondire due questioni, che a partire dalle analisi sempre stimolanti e interessanti di Recalcati, mi hanno impegnato in una specie di colloquio virtuale con lui, anche perché questa volta (e di solito non è così) mi hanno visto su posizioni (parecchio) diverse dalle sue.

1 La prima questione inerisce un tema enorme, uno di quelli centrali della riflessione filosofica e insieme psicoanalitica.

La definisco così, in termini molto sommari e anche un po’ rozzi: l’uomo nasce fondamentalmente cattivo, aggressivo, distruttivo, addirittura crudele? o, al contrario, è fondamentalmente buono, cooperante, costruttivo, compassionevole e amorevole.

Mi pare che la posizione di Recalcati in proposito venga fuori chiara, netta (tra l’altro non è la prima volta che la dichiara, l’ha già fatto numerose altre volte nei suoi precedenti saggi): l’uomo è animato in prima battuta da una spinta distruttrice.

In questo saggio emerge subito già dall’esergo del primo capitolo, costituito da una frase de “Il disagio della civiltà” di Sigmund Freud: “E’ vero che coloro che preferiscono le fiabe sono sordi quando si parla della tendenza dell’uomo alla “cattiveria”, all’aggressione, alla distruzione, e quindi alla crudeltà”.

Ora io questa posizione teorica, che per Recalcati trova ispirazione e validazione non solo nel pensiero del fondatore della psicoanalisi, ma anche in quella del suo principale maestro Jacques Lacan, non la condivido.

E non perché sia portato a preferire le fiabe, come insinua sarcasticamente mastro Freud. Ma perché preferisco vedere l’uomo come un essere profondamente, radicalmente, strutturalmente ambivalente, contraddittorio e non definibile univocamente, in termini drastici e unilaterali, tipo bianco o nero.

Pertanto riconosco nell’uomo la tendenza che vede Freud, cioè la tendenza “alla “cattiveria”, all’aggressione, alla distruzione e, persino, alla crudeltà”.

Ma vedo in lui anche la tendenza opposta: quella verso la “bontà”, la cooperazione, la costruzione, la compassione, in certi momenti addirittura verso l’amore.

Per me, se è vero che ciascuno di noi porta in sé un Caino (come afferma Recalcati soprattutto nelle pagine centrali del saggio: 39-40), è pure vero che ciascuno di noi porta in sé anche un Abele.

Il che vuol dire – per uscire dalla metafora – che in ciascuno di noi è radicata la pianta del “male”, della cattiveria, ma è radicata anche la pianta del “bene”, della bontà.

E che le nostre azioni sono sempre il risultato di una dialettica, a volte di un vero e proprio conflitto, tra il “bene” e il “male”.

In alcuni casi prevale il “bene”, in altri il “male”. In alcuni uomini è prevalente il “bene”, in altri è prevalente il “male”. In nessun uomo, però, c’è o solo il male o solo il bene.

Non sono d’accordo in altre parole con la tesi che sia la violenza a “fondare” l’umano.

Ovverossia che – come dice Massimo Recalcati a pag. 40 – “il primo atto dell’uomo fuori dal giardino dell’Eden” sia “quello della violenza fratricida”; e “non l’amore per il prossimo, non la gratitudine verso Dio o per il creato, non la solidarietà e la fratellanza, non l’amicizia e l’amore”.

Perché, se è vero che all’origine della storia c’è Caino, è vero che c’è anche Abele; se è vero che esiste la violenza di Caino, è vero che esiste anche la mitezza di Abele.

Anzi questa, se proprio vogliamo estremizzare i giudizi e le valutazioni, viene prima di quella, se è vero che è proprio la mitezza di Abele (tanto apprezzata dal Creatore) a suscitare (come racconta il mito biblico) l’invidia di Caino e a provocare la sua violenza.

E non per questo mi riconosco in “una rappresentazione retorica e idealizzata dell’uomo” (pag. 40), come si dice oggi “buonista”, delle relazioni tra gli umani.

So benissimo, infatti, che all’amore si accompagna sempre una quota di odio più o meno grande, che alla benevolenza e alla simpatia si uniscono sempre quote parti di invidia e di gelosia; perfino nei rapporti umani più intimi e più armoniosi.

Ma questo, molto semplicemente, non mi porta a concludere che l’uomo sia fondamentalmente e originariamente cattivo, violento, “lupo” e che “la spinta alla distruzione” in lui preceda “ quella della dedizione amorosa” (pag. 42).

Per me nell’essere umano – lo ribadisco ancora una volta– c’è sia Abele che Caino, come figure quasi archetipe. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, non ci sarebbe stato Caino (come archetipo della violenza e della cattiveria umane) se non ci fosse stato prima ancora Abele (come archetipo della mitezza e della bontà).

Per concludere, su questa prima questione posta da Massimo Recalcati, la mia opinione è che l’odio compare nell’uomo non come dato genetico, costitutivo cioè della sua stessa natura fondamentale, primigenia. L’odio sopravviene piuttosto come figlio/frutto di un amore sbagliato o mancato.

Nel caso specifico l’odio di Caino si comprende solo come esito di un rapporto fusionale, incestuoso, quindi sbagliato, che lo lega a sua madre Eva.

Se non ci fosse stato questo amore possessivo (da “madre coccodrillo”) di Eva nei confronti del figlio primogenito, probabilmente Caino non avrebbe vissuto la nascita e l’esistenza del fratello Abele come una intrusione e, quindi, non si sarebbe scatenato in lui l’impulso fratricida.

D’altra parte questo lo lascia intendere molto bene – e qui concordo pienamente – lo stesso Recalcati, quando a pag. 51 scrive: “Il carattere traumaticamente intrusivo della nascita di Abele si comprende solo sullo sfondo di questo legame fusionale che lega Caino a sua madre.”

O quando a pag. 55 Recalcati approfondisce ulteriormente questa analisi: “All’origine della violenza umana troviamo l’esperienza del non riconoscimento. La delusione della domanda di riconoscimento – il suo essere respinta – è spesso all’origine del ricorso umano alla violenza. Il suo divampare può facilmente scaturire dall’assenza di ascolto, di accoglimento e di riconoscimento. Se la dialettica del riconoscimento è ostruita, bloccata, distorta, la violenza può essere un suo esito possibile.

Queste parole mi sembra confermino la tesi che fin qui ho provato a sostenere: la violenza non è affatto un dato fondamentale, primario e originario, costituente della natura umana, ma è un dato secondo, conseguente ad un “torto” subito (vero o presunto, reale o fantasmatico: qui ha un’importanza secondaria).

La violenza è, in genere, quasi sempre, l’esito o di un “eccesso di riconoscimento” (amore sbagliato, perché incestuoso, fusionale, simbiotico, come era stato quello di Eva nei confronti del primogenito Caino) o di una “carenza di riconoscimento” (amore mancato, non ricevuto, come non fu il caso di Caino, ma è il caso di molti figli, che da adulti diventano poi quasi fatalmente soggetti borderline).

2. La seconda questione su cui vorrei riflettere qui è quella che Recalcati affronta a partire dal capitoletto intitolato “La trasgressione della Legge”(da pag. 15 a pag. 36) quando analizza il mito di Adamo ed Eva che mangiano il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male disobbedendo ad un’esplicita proibizione divina.

Qui non mi convince l’interpretazione che dà Massimo Recalcati del cosiddetto “peccato originale”. Io (mi scuso per l’immodesta citazione) ne ho data tutta un’altra, direi opposta, nel mio “Elogio della disobbedienza a Dio” (Guida Editori; 2015), dove la espongo in maniera diffusa: qui ne farò solo rapidi accenni.

Per Recalcati nel desiderio di Adamo ed Eva di mangiare il frutto dell’albero del Bene e del Male c’era non solo la spinta a voler sapere il sapere di Dio, ma addirittura l’hybris a voler essere come Dio, a diventare Dio. (pag. 21).

Per me, invece, ciò che domina nella disobbedienza di Adamo ed Eva è l’aspirazione del tutto legittima, tipicamente umana, a trascendersi, ad uscire da una condizione di inconsapevolezza (di chi, appunto, non conosce la differenza tra il Bene e il Male), tanto beata quanto beota, per acquisire piena coscienza e quindi vera possibilità di scelta.

Inoltre è vero ciò che dice Recalcati: l’uomo tende come “sua inclinazione fondamentale” (pag. 18) a trasgredire la Legge. Ma è anche vero che l’uomo (unico tra tutti gli animali) si è dato la Legge.

Non l’ha certo trovata fuori di sé, né Qualcuno gliel’ha imposta contro il suo volere. Questo è quello che racconta il mito della Genesi (Dio impone la Legge), ma non è certo una ricostruzione realistica di come sia nata la Legge.

In altre parole nell’uomo esiste certamente un’inclinazione fondamentale a fare il male (trasgredire la Legge). Ma esiste anche, allo stesso tempo, un’inclinazione a fare il bene (dandosi dei limiti, imponendosi da solo una Legge).

Anzi la seconda io la considero ancora più fondamentale della prima, perché, se l’uomo non si fosse dato una Legge, non avrebbe potuto poi neanche trasgredirla.

Chi non conosce la differenza tra il bene e il male (ad esempio, i bambini) non può neanche essere accusato (e, meno che mai, punito) per aver fatto del male.

D’altra parte Lacan non ha individuato due polarità all’interno delle quali si pone la vita di ogni essere umano: il Desiderio e la Legge?

E non è vero che privilegiare unilateralmente l’una o l’altra squilibra la vita, la sbilancia, perché la priva di una delle sue due dimensioni fondamentali, essenziali?

Qui, invece, mi pare che Recalcati faccia proprio questo: privilegiare la Legge a scapito del Desiderio; e che finisca, in qualche modo, quasi per contraddire il suo maestro Lacan.

Per concludere su questa seconda questione: per me Adamo ed Eva non avevano altra opzione, dovevano per forza disobbedire.

Se non avessero disobbedito avrebbero “scelto” unilateralmente la Legge a scapito del Desiderio; avrebbero quindi “tradito” il loro desiderio. Che è proprio quello che Lacan definisce (e Recalcati questo me lo ha insegnato) il più grande peccato che un uomo possa commettere.

Solo dopo aver scelto il loro desiderio hanno potuto prendere consapevolezza della necessità di darsi dei limiti, cioè della necessità della Legge. Della necessità di contemperare Desiderio e Legge.

Anche da questo punto di vista io ritengo che la loro fu una “felix culpa”. Sebbene il mio punto di vista – ne sono perfettamente consapevole – sia molto diverso da quello di s. Agostino, che per primo usò tale espressione a proposito del “peccato originale” dei nostri antichi progenitori.

© Giovanni Lamagna