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Solitudine e Sè.

Chi cerca e vuole trovare sé stesso deve scendere nel fondo più profondo di sé stesso, laddove rimarrà solo, completamente, al primo impatto anche desolatamente, solo, come chi si avventura in abissi marini, senza alcuna compagnia ed assistenza.

Nella solitudine più totale, quando più nessun appiglio per rimanere a galla ci rimane, tocchiamo un fondo oltre il quale non possiamo più scendere.

Questo fondo è il nostro Sé; o, meglio, lì troviamo il nostro Sé, siamo messi a confronto con il nostro vero Sé.

Che poi, se ci pensiamo bene, è in realtà un Altro-da-sé, un Alter-ego, qualcuno con cui il nostro Ego è costretto da quel momento in poi a confrontarsi, a dialogare.

Solitudine (la solitudine più assoluta e radicale, non quella provvisoria e, quindi, un po’ finta, che tutti abbiamo sperimentato o sperimentiamo di tanto in tanto) e Sé (o Altro-da-sé) fanno la pariglia, sono, dunque, la stessa cosa, sono (quasi) sinonimi.

Non possiamo trovare il secondo, il Sé (o l’Altro-da-sé), se non sperimentiamo (fino in fondo) la prima (la solitudine).

Fin qui ho parlato di solitudine; bisogna dire, però, che, superato il primo impatto e nel momento in cui incontriamo l’Altro-da-sé, questa solitudine, non è più tale, perché in realtà non siamo più veramente soli, ma siamo in compagnia di qualcuno che, se vorremo, non ci abbandonerà mai, ci farà perenne compagnia.

Eppure, invece, una volta che abbiamo fatto, nella solitudine più profonda, questa esperienza di incontro col Sé, con l’Altro-da-sé, la tentazione immediata è quella di risalire subito a galla.

E non per tornare a riveder le stelle (come disse quel tale, che aveva appunto fatto questa discesa), ma per ritrovare immediatamente il conforto della compagnia (fisica) di altri corpi.

I motivi di questa tentazione sono fondamentalmente due: 1) la presenza dell’Altro-da-sé non ci sembra vera, perché non è una presenza fisica, corporea, ma del tutto spirituale, quindi ci apparirà in un primo momento non reale, ma fantasmatica; 2) il rapporto con l’Altro-da-sé ci appare, soprattutto all’inizio, difficile, faticoso, perché esigente, perché non si accontenta di quello che siamo già, in atto, ci chiede di diventare altro, di realizzare quello che siamo in potenza.

In questo caso, nel caso cioè in cui decideremo di abbandonare questo fondo appena raggiunto e di risalircene a galla, da dove siamo venuti, l’esperienza sarà stata completamente banale, superficiale, quindi vana, inutile.

Perché, invece, l’esperienza risulti utile, decisiva, un’esperienza radicale e di svolta nella nostra vita, occorre che, una volta toccato il fondo dell’abisso, da lì non risaliamo mai più, che decidiamo di vivere in solitudine o, meglio, in compagnia del nostro Alter-ego, il resto della nostra vita.

Intendiamoci: non sto dicendo qui che bisogna da questo momento in poi rinunciare ad avere rapporti con la gente altra, con le persone in carne ed ossa, per fare una scelta di natura monacale.

Dico solo che i rapporti con gli altri in carne ed ossa dovranno tenere presente d’ora in poi questa esperienza “fondamentale” che abbiamo fatto, dovranno convivere con questo rapporto primario che abbiamo finalmente trovato dentro di noi, il rapporto con l’Altro-da-sé.

E avere la consapevolezza che, anche quando siamo in compagnia di altri, perfino quando siamo in mezzo a una folla, siamo in realtà soli, che nulla e nessuno potrà sconfiggere ed annullare mai questa nostra solitudine fondamentale, diciamo pure ontologica.

Questo ci consentirà, ci darà modo, di non vivere gli altri come appoggio, come conforto, come appiglio illusorio, ma di stabilire con loro un rapporto vero, autentico perché basato su un “principio di realtà” e non di illusione.

I rapporti, i rapporti veri, non quelli, ad esempio, fondati sulla chiacchiera e sulla consuetudine, sono sempre incontri di due solitudini, perfettamente consapevoli di questa loro strutturale e insuperabile condizione.

E, in fondo, manco desiderosi di prescinderne, di farne a meno.

Per non rischiare di smarrire l’unico rapporto dal quale, se vogliamo, possiamo non separarci mai: quello col nostro vero Sé, l’Altro-da-sé; l’unico rapporto, dunque, davvero non precario.

Da considerare, infine, – cosa non da poco – che è dalla solitudine (e dal silenzio ad essa indissolubilmente legato) che nasce la parola che ha un senso, un peso, un valore; che non sia, insomma, un puro flatus vocis, quello del chiacchiericcio che normalmente ci circonda, che caratterizza la maggior parte dei rapporti tra gli uomini.

© Giovanni Lamagna

Coscienza, natura, usi, costumi e Super-Ego.

Nei suoi “Saggi” Montaigne ad un certo punto afferma: “Le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine; ciascuno, infatti, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e acquisiti intorno a lui, non può disfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione. (Libro I, cap. XXIII; pag. 106).

La stessa affermazione potrebbe essere tradotta in altre parole così: “Quelle che molti ritengono leggi di natura spesso altro non sono che convenzioni sociali di un determinato territorio in un determinato tempo storico. Tanto è vero che non vigono in altri territori e in altri tempi storici e molto spesso vengono, col trascorrere del tempo, modificate o abbandonate del tutto nello stesso territorio in cui erano in passato o sono oggi in uso.”

La stessa frase, inoltre, è una perfetta anticipazione – circa tre secoli e mezzo prima – del concetto freudiano di Super- Ego.

Il Super-Ego non ci detta nessuna morale naturale, ma quella in vigore, quella dominante, nell’ambiente economico, sociale, culturale e politico nel quale siamo nati e cresciuti.

© Giovanni Lamagna

I rapporti sono destinati fatalmente a logorarsi?

Che i rapporti in generale (e, in modo particolare, il rapporto di coppia) siano destinati prima o poi ad una qualche forma di involuzione, riflusso, stanca routine è convinzione diffusa, quasi generale.

Ma non è detto che tale convinzione sia del tutto fondata e incontestabile.

Certo, la maggior parte dei rapporti nel tempo si usurano, deteriorano e finiscono per diventare stanca consuetudine. Questo è un dato di realtà. Ma ciò non vuol dire però che tale realtà sia destino inevitabile.

Essa è dovuta piuttosto al fatto che nel rapporto ciascuna delle due persone coinvolte (o anche una sola di esse) non fa la propria parte per affrontare le problematiche di blocco che ciascuno di essi si porta dentro dall’infanzia.

Ovverossia, se le persone coinvolte nel rapporto non evolvono (cioè non sciolgono e risolvono positivamente le loro nevrosi infantili e adolescenziali), il loro rapporto tende fatalmente ad un certo punto – anche dopo una fase iniziale, più o meno prolungata, di grande coinvolgimento e perfino di passione – a ristagnare e impantanarsi.

Da qui non si scappa.

Ma, se le persone coinvolte in un rapporto fanno un lavoro serio, profondo, continuo (e, per usare un’espressione freudiana, interminabile) per affrontare e risolvere sempre più le loro paure e i loro blocchi atavici, per affinare e far evolvere il loro carattere, tale destino non è affatto scontato ed inevitabile.

In tale caso il rapporto può essere tenuto vivo, caldo, fecondo, produttivo, creativo, anche fino alla vecchiaia, anche fino al reciproco e definitivo congedo, deciso dalla natura, vale a dire anche fino alla morte.

Sono ben consapevole che questa situazione si verifica solo in pochi e rarissimi casi.

Ma il fatto che tali casi esistano è la dimostrazione che essa non è del tutto impossibile e che l’appassire stanco e routinario dei rapporti umani non è affatto un destino inevitabile e scontato.

E’ solo la conseguenza della pigrizia o della mancanza di coraggio delle persone che nei rapporti sono coinvolte.

Giovanni Lamagna