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Sul ruolo sociale degli anziani

Fino a due/tre generazioni fa questo ruolo era scontato. I giovani, ma anche le persone della generazione di mezzo, non solo lo riconoscevano, ma garantivano agli anziani come minimo il rispetto, in alcuni casi il prestigio delle competenze accumulate negli anni, in qualche caso perfino il carisma della saggezza.

Oggi (ma tale fenomeno è iniziato da almeno una diecina di anni) questi riconoscimenti non solo non sono più scontati, ma sembrano addirittura evaporati; “rottamati” nel senso comune, a voler usare un termine inaugurato da un giovane politico italiano, che col suo linguaggio e ancor più coi suoi comportamenti sembra aver sdoganato definitivamente ed emblematicamente tale fenomeno.

Conviene allora chiedersi se tale cambiamento del modo di pensare e di vivere delle società contemporanee rispetto a quelle trascorse sia positivo o no?

La mia risposta è che no, non lo è per nulla. Anzi, a volerla dire tutta, rappresenta un fenomeno di grave regressione.

E credo che questa mia tesi abbia una sua validità oggettiva, non sia inficiata cioè dal fatto che essa venga sostenuta da uno, come il sottoscritto, che oramai appartiene alla categoria degli anziani.

La mia risposta è no, ed è no per svariati motivi, che proverò qui di seguito ad argomentare.

Il primo motivo è che tale fenomeno rappresenta, a mio avviso, un ulteriore fattore di disgregazione (e non ce ne era di certo bisogno!) che si aggiunge a quelli già presenti da secoli nelle nostre società. La rottura (o, quantomeno, lo iato) tra le generazioni si aggiunge, infatti, a quelli ultra-storici della stratificazione tra classi e ceti e della divisione tra i sessi.

Qualcuno in questi ultimi anni è arrivato addirittura a mettere la generazione dei giovani contro quella degli anziani, colpevoli di voler andare troppo presto in pensione, con livelli di previdenza insostenibili per la casse pubbliche, di godere insomma di diritti (da considerare anzi privilegi) che danneggiavano di fatto la condizione economica e sociale dei giovani.

E i giovani, parecchi giovani, hanno abboccato a questi argomenti di pura propaganda neoliberista, finendo per prendersela con le generazioni anziane, invece che con il vero avversario: quello di classe.

Il quale nel frattempo toglieva comunque diritti acquisiti agli anziani, ma non li riconosceva certo in cambio ai giovani, e ovviamente non spiegava come avrebbe potuto assicurare nell’immediato nuovi posti di lavoro ai giovani nel momento in cui costringeva gli anziani a lavorare fino alle soglie dei 70 anni.

Il secondo motivo per cui reputo il fenomeno di svalutazione del ruolo degli anziani fortemente negativo è che con esso si viene a perdere (o viene notevolmente sottovalutato) un notevole capitale di risorse umane: quello legato all’esperienza e alla saggezza, che (non sempre, ma spesso) è figlia dell’esperienza e, quindi, dell’età avanzata.

Questa “verità” mi è venuta particolarmente in evidenza qualche sera fa vedendo e sentendo parlare per televisione un medico ultrasettantenne, uno dei più illustri immunologi italiani, scienziato di fama mondiale, che veniva intervistato sull’epidemia di corona virus in corso.

Mi hanno colpito, infatti, non solo e (forse) non tanto la sua scienza e le sue competenze, quanto piuttosto il tono e l’atteggiamento complessivo con cui egli rispondeva alle domande dell’intervistatrice, una nota giornalista che tiene un programma televisivo ogni sera all’ora di cena.

Il professore parlava con tono molto pacato, con un atteggiamento estremamente posato, misurando con grande prudenza le sue parole, in certi momenti addirittura confessando la sua incapacità a dare una risposta netta, precisa, senza ombra di dubbi, perché “io sono solo un immunologo e non un virologo”.

Ecco – prendo a supporto questo episodio – per evidenziare che pacatezza, posatezza, prudenza, modestia e umiltà sono in genere caratteristiche/qualità che è dato riscontrare – anche senza voler stupidamente generalizzare – più negli anziani che nei giovani.

I giovani, infatti, senza nulla voler togliere ad altre loro caratteristiche positive, tipiche della loro età (energia, audacia, forza fisica, entusiasmo, prontezza, sveltezza, agilità e immaginazione emotiva e intellettuale…), sono in genere, sui grandi numeri e fatte le debite eccezioni, portati ad essere impulsivi, precipitosi, a volte anche un po’ avventati e persino sfrontati, guasconi, arroganti (vedi il politico cui facevo riferimento in precedenza).

Sottovalutare o addirittura ignorare il ruolo degli anziani significa allora lasciare inutilizzato, accantonare un capitale di doti, qualità, risorse, che sono più tipiche (anche se non esclusive, per carità) degli anziani. E non mi pare onestamente una grande scelta dal punto di vista antropologico-culturale.

Il terzo motivo per cui reputo il fenomeno di svalutazione del ruolo degli anziani fortemente negativo è che esso si regge sull’ideologia (vera e propria ideologia!), connaturata alla società dei consumi diventata sempre più egemone in Occidente nel secondo dopoguerra, secondo la quale “il nuovo è sempre meglio del vecchio”.

Questa ideologia (come tutte le ideologie, del resto!) non ha ovviamente nessuna base scientifica, ma si alimenta solo delle suggestioni pubblicitarie, che da alcuni decenni mirano a convincerci che ogni bene di consumo deve durare lo spazio di un mattino, in modo che noi possiamo buttarlo presto nella spazzatura e comprarne uno nuovo.

In base a questa ideologia, dunque, i giovani sarebbero sempre e comunque migliori degli anziani (per non parlare dei vecchi).

Ora io (anziano) non direi mai (mi sembrerebbe una grande sciocchezza) che gli anziani e i vecchi sono sempre e comunque meglio dei giovani. Ma perché, di grazia, dovrei invece dire che i giovani sono sempre e comunque meglio degli anziani e dei vecchi? Non sarebbe meglio valutarli quantomeno di volta in volta e caso per caso?

Invece oggi succede in Italia (ma, a dire il vero non solo in Italia) che uno diventi primo ministro di un governo prima ancora di compiere 40 anni, ministro degli esteri a poco più di 30 anni, ministra della Pubblica istruzione a 36 anni, avendo nel suo curriculum nient’altro che pochi anni di insegnamento nella Scuola Pubblica, di cui dovrebbe essere invece la massima responsabile politica a livello nazionale.

Faccio qui notare, per inciso, che il ministero della Pubblica Istruzione in Italia è stato retto in passato da “personaggetti” del calibro di Francesco De Sanctis, Quintino Sella, Ruggero Bonghi, Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Guido De Ruggiero, Aldo Moro, Oscar Luigi Scalfaro, Giovanni Spadolini, Sergio Mattarella, Tullio De Mauro (per citare solo i più noti), i quali non ci arrivarono di certo da giovani, ma dopo un lungo, regolare e, per giunta, autorevolissimo cursus honorum.

Eppure, all’età della nostra attuale ministra della Pubblica Istruzione, avevano già parecchi titoli in più di Lei.

Ora mi chiedo: è possibile che le doti naturali dei tanti personaggi, che oggi, ancora giovanissimi, ricoprono tanti ruoli pubblici di grande responsabilità, siano talmente elevate da riuscire a pareggiare (anzi superare) le qualità accertate di chi, in passato, dopo aver fatto una naturale e ovvia gavetta, arrivava a ricoprire ruoli di tale prestigio, se non proprio in età anziana, quantomeno in tarda maturità?

Mi permetto di nutrire qualche dubbio.

La mia tesi, che vado sostenendo da tempo, è che le persone, almeno la maggior parte delle persone, diano il meglio di loro, da tutti i punti di vista (emotivo, intellettuale, culturale, professionale e spirituale, tranne quello fisico, procreativo e sportivo) a partire dai 45 anni e almeno fino ai 65.

Tra l’altro, proprio visti l’elevarsi dell’età media della vita e la buona salute fisica e psicologica di cui si gode oggi normalmente almeno fino ai 65 anni di età, che è argomento tratto a pretesto (guarda caso!) dalle ideologie e politiche neoliberiste per tenere impiegati i lavoratori fino alle soglie dei 70 anni.

Per cui non capisco proprio perché gli incarichi di responsabilità, via, via crescenti come grado di importanza, non debbano essere assegnati tenendo conto anche (seppur non solo, ovviamente) del criterio dell’anzianità.

Come avveniva normalmente nelle epoche passate (pensiamo ai “senatores” romani) e come avveniva anche nelle nostre società fino a non molti decenni orsono.

© Giovanni Lamagna

Paura, coraggio e temerarietà.

Nell’isola di Creta il re Minosse aveva chiesto a Dedalo di costruire il labirinto per il Minotauro.

Avendolo costruito e, quindi, conoscendone la struttura, a Dedalo e a suo figlio Icaro fu preclusa ogni via di fuga da Creta da parte di Minosse, poiché questi temeva che ne fossero svelati i segreti.

Dedalo e Icaro vennero perciò rinchiusi nel labirinto.

Per scappare, allora, Dedalo costruì delle ali con delle penne e le attaccò ai loro corpi con la cera.

Malgrado gli avvertimenti del padre di non volare troppo alto, Icaro si fece prendere dall’ebbrezza del volo e si avvicinò troppo al sole (nella mitologia Febo).

Il calore fuse la cera, facendolo cadere nel mare, dove in balìa delle onde Icaro trovò la morte.

In questo mito, come in tutti i miti, ci sono varie simbologie e metafore, che possono essere interpretate, anzi è interessante e persino utile interpretare.

La prima metafora mi sembra questa. A volte noi diventiamo prigionieri dei nostri stessi progetti o dei nostri segreti. Così come Dedalo diventa prigioniero del labirinto da lui costruito.

Forse questo capita quando diventiamo prigionieri e succubi della dimensione mentale del nostro Sé.

Che indubbiamente svolge la sua funzione, è utile (anzi indispensabile) all’esistenza. Ma diventa una prigione quando è l’unica dimensione che ci guida, quando ad essa affidiamo totalmente il destino delle nostre scelte.

Allora sentiamo (possiamo sentire) il bisogno di scappare, di liberarci da una tale prigione. E per questo ci costruiamo delle ali.

Che qui rappresentano, a mio avviso, sotto forma simbolica, i nostri desideri non ancora consapevoli, le nostre fantasie, le nostre aspirazioni, le nostre “utopie”.

Queste ali sono indispensabili per evadere da una condizione routinaria, abitudinaria, eccessivamente rassicurante, che senza lo spirito di avventura (rappresentato dal volo) diventerebbe mortifera.

Ma qui sopravviene il rischio opposto a quello rappresentato dalla routine della prigionia: il rischio dell’osare troppo.

Lo spirito di avventura ci mette sempre in una situazione di precarietà, di pericolo, qui rappresentati dalle ali di cera.

L’uomo avventuroso non deve mai trasformarsi in avventuriero. Una cosa è il coraggio, altra cosa la temerarietà.

Icaro, al contrario del padre, uomo coraggioso ma allo stesso tempo prudente, sfida i limiti imposti dalla natura e da coraggioso diventa temerario, imprudente: vola troppo in alto, va dove non sarebbe dovuto andare, conoscendo la sua condizione, si avvicina troppo al sole (simbolo di una meta, un obiettivo non realistici) e quindi si autodistrugge.

Questa fine è simboleggiata dalla metafora della caduta in mare.

Per concludere, io penso, questo mito ci vuole insegnare che il coraggio è una virtù indispensabile, se vogliamo uscire dalla depressione a cui ci condannerebbe una vita senza audacia, senza guizzi, senza immaginazione, senza fantasia, senza ardore.

Ma, allo stesso tempo, ci dice che l’imprudenza, le velleità prive di ogni base razionale, sono altrettanto dannose dell’ignavia, cioè della mancanza di coraggio.

La virtù, come ci insegna il vecchio Stagirita, sta nel giusto mezzo.

Nel caso di cui abbiamo parlato finora sta nel coraggio. Che si situa giusto a metà tra la paura infondata e paralizzante e la temerarietà narcisista e delirante.

Giovanni Lamagna

Narcisismo, vanità e scrittura.

7 febbraio 2016

Narcisismo, vanità e scrittura.

C’è sicuramente, nell’atto dello scrivere, qualcosa che ha a che fare con la vanità e col narcisismo. Cioè con l’atto del mostrarsi, dell’esibirsi, del venire allo scoperto e con il desiderio/piacere di farsi dire: “Bravo/a! Mi piace quello che hai scritto”. E’ inutile nasconderselo o negarlo.

A dire il vero questo nesso si può rintracciare anche nell’atto del parlare. Anche quando parliamo, infatti, noi ci mostriamo, ci esibiamo e, in fondo, abbiamo piacere e desiderio che le nostre parole trovino consenso e approvazione. Non parliamo certo per essere disapprovati e, meno che mai, scherniti.

Ma nell’atto dello scrivere questo desiderio e questo piacere sono ancora più forti, perché l’atto dello scrivere, soprattutto quando esso è finalizzato ad una pubblicazione, è più impegnativo, mi verrebbe di dire addirittura più solenne, che l’atto del parlare.

C’è quindi una indubbia componente di narcisismo e di vanità nell’atto dello scrivere.

Allo stesso tempo, però, si può dire che l’atto dello scrivere (come del resto pure l’atto del parlare, ma con la stessa accentuazione a favore dello scrivere di cui prima) è anche un atto di coraggio (in certi casi perfino di audacia), un atto di assunzione della propria responsabilità nell’esporre e sostenere le proprie idee.

Si potrebbe dire, per converso, che chi esita a scrivere e a parlare lo fa non solo perché non si sente all’altezza di farlo, ma anche perché ha paura del giudizio degli altri. In certi casi non vuole esporsi per semplice timidezza, ma in altri perché non accetta il rischio dell’insuccesso, del dissenso, del conflitto.

D’altra parte, se nessuno avesse mai osato mettere per iscritto un testo di una qualsivoglia natura (articolo, saggio, libro, poesia, poema, commedia, tragedia…) per sfuggire all’accusa di vanità e di narcisismo, non si sarebbero avute le opere letterarie, filosofiche, scientifiche, che sono diventate poi patrimonio dell’Umanità.

Per concludere, allora, ogni volta che ci si accinge a mettere penna su carta (ma anche solo a prendere la parola in un consesso, più o meno ampio), conviene, anzi è saggio, porsi la domanda: “Perché lo sto facendo? E’ semplicemente perché voglio mettermi in mostra, perché voglio gigioneggiarmi, farmi notare? O perché lo ritengo buono e utile, non solo e non tanto in vista di qualche mio tornaconto personale, bensì nell’interesse, per il piacere, la gioia, il bene, di quelli che mi ascolteranno o leggeranno?”

E’ opportuno, quindi, che le nostre parole (sia quelle orali che quelle scritte) prima di uscire all’esterno passino attraverso il filtro dell’autocoscienza. Ma, una volta superato (positivamente) questo esame interiore (magari, nel caso del testo scritto, dopo averlo prima fatto leggere a qualcuno/a di cui ci fidiamo, che è in grado di darci buoni consigli e che non possiamo sospettare di piaggeria), conviene “lanciarsi” e “uscire allo scoperto”, prendendo la parola in pubblico o chiedendo a chi può di pubblicare e diffondere ciò che abbiamo scritto.

In questo caso non dobbiamo aver paura di apparire narcisisti o vanitosi più di quanto non dobbiamo aver paura delle nostre insicurezze e della nostra ignavia.

D’altra parte c’è narcisismo e narcisismo.

C’è un narcisismo naturale, fisiologico, che rientra nella norma, da cui non può prescindere nessuna azione umana. Senza questa dose minima di narcisismo nessuna opera umana sarebbe possibile, troverebbe la spinta motivazionale per trasformarsi da idea in realtà.

E c’è un narcisismo patologico, quello che ci annebbia la mente, che ci rende incapaci di dare un giudizio preventivo su quello che vogliamo dire o scrivere, in grado di prevenire (e quindi reggere) il giudizio (e la critica) degli altri, di chi ascolterà o leggerà le nostre parole.

Solo di questo secondo narcisismo ci dobbiamo preoccupare e solo da esso ci dobbiamo difendere e tutelare.

Il primo, invece, è sano, naturale, vitale: ha a che fare con l’amore per se stessi, E lo dobbiamo perfino coltivare.

Giovanni Lamagna

Viaggi

14 giugno 2015

Viaggi.

Ci sono persone che amano fare continuamente dei viaggi, girare in lungo e in largo, visitare luoghi sempre nuovi, spesso lontani, a volte molto lontani da quelli natii o di residenza abituale.

In questo dimostrano una certa audacia, talvolta addirittura coraggio. Amano cimentarsi in situazioni e contesti sempre nuovi, anche a costo, talvolta, di mettere a rischio la loro salute e, in casi estremi, perfino la vita.

Ma non di rado queste persone sono spiritualmente ferme, non hanno mai fatto un solo passo avanti dentro di loro, nella loro interiorità, da quando hanno acquisito l’uso della ragione, da quando cioè sono diventate capaci di intendere e di volere.

Sono, insomma, persone adulte, coraggiose, in movimento col corpo, ma sono rimaste bambine, paurose e ferme con l’anima.

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Ci sono altre persone che non amano molto andare in giro, muoversi, fare viaggi. Privilegiano una vita piuttosto statica dal punto di vista fisico e materiale.

Ma si muovono molto spiritualmente. Si interrogano di continuo sul senso della vita, meditano a lungo e su tutto, riflettono sulle proprie esperienze, analizzano le loro conoscenze, non danno mai niente per scontato, osano mettere in discussione i luoghi comuni e gli stereotipi, se occorre, sono disposti a cambiare se stessi, le loro abitudini, i loro stili di vita.

Rischiano e, talvolta, accettano la solitudine pur di non adattarsi al compromesso, alle ipocrisie, al conformismo del gregge.

Non si allontano quasi mai dalla loro casa e dal loro paese/città, ma vanno ogni giorno in territori nuovi dello spirito, che spesso non sono frequentati dai più, che anzi in alcuni casi non sono stati ancora esplorati da alcuno.

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Quale, tra questi due tipi di persone, viaggia di più?

Giovanni Lamagna