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Consapevolezza della morte.

Paradossalmente più si è consapevoli di essere destinati alla morte e più si vive da vivi.

Meno se ne è consapevoli e più si vive da morti, zombi, morti viventi.

Perché si è come sotto una specie di anestesia.

© Giovanni Lamagna

Che differenza passa tra chi è in contatto con sé stesso e chi non lo è?

Chi non è in contatto con sé stesso della vita coglie solo la superficie.

Vive in una sorta di stordimento/dormiveglia.

Non fa quello che realmente vuole e desidera (come spesso, invece, si illude di fare), ma quello che è trascinato a fare da una sorta di corrente che lo trascina.

Va, insomma, alla deriva.

E molto spesso non ne ha manco coscienza; quindi non ne soffre neanche particolarmente; perché vive in una sorta di beata (o, meglio, beota) incoscienza, letargia, anestesia.

Questo discorso vale sicuramente per il singolo, per l’individuo, ma vale anche – pari, pari – per molte società di cui si compone l’Umanità.

Oggi – ho l’impressione – stiamo vivendo – come mondo nel suo complesso, specie qui da noi in Occidente – proprio una situazione di questo tipo: stiamo andando verso il disastro e non ce ne rendiamo – salvo rare eccezioni – manco conto.

Siamo come i passeggeri del Titanic, che – mentre il piroscafo navigava nella nebbia e stava per scontrarsi con l’iceberg che lo avrebbe nel giro di pochi attimi fatto inabissare causando la morte di più di 1500 persone – ballavano e si divertivano, completamente ignari (incoscienti, appunto!) della tragedia alla quale stavano andando incontro.

Chi non è in contatto con sé stesso vive il tempo esclusivamente come kρόνος, come uno scorrere anonimo di attimi indistinti, sostanzialmente tutti uguali a sé stessi, senza particolare significato e valore.

Alla rincorsa di beni e piaceri materiali, per lo più voluttuari, nella illusione (che è quasi un delirio) di poter trovare in essi, anzi nell’accumulo di essi, il benessere e persino la felicità desiderati.

Chi è in contatto con sé stesso vive, invece, il tempo come καιρός; tende cioè a dare ad ogni attimo un valore particolare, unico ed irripetibile.

Chi vive il tempo in questo secondo modo non dà particolare valore ai beni materiali, dà invece grande valore a quelli spirituali, fondati non tanto sul valore economico delle cose possedute, ma sul modo del tutto personale – direi creativo, generativo –  di viverle e di goderle.

Può capitare a chi vive il tempo come καιρός di essere, possedendo poco, molto più felice di chi vive il tempo come kρόνος, possedendo molto.

E’ questa la differenza fondamentale tra chi ha scelto di puntare prevalentemente sull’essere e chi, invece, ha puntato le sue carte esistenziali soprattutto sull’avere.

© Giovanni Lamagna

La via indicata da Buddha conduce davvero alla salvezza?

“Buddha – dice Jaspers – non si presenta come maestro di un sistema, ma come nunzio del cammino della salvezza… Il Buddha rigetta il sapere che non è necessario alla salvezza… La trattazione teoretica delle questioni metafisiche è ritenuta dal Buddha come esiziale. Essa diventa una nuova prigionia perché il pensiero metafisico si tiene fermo proprio a quelle forme dalle quali tende a liberarci la via che conduce alla salvezza.” (“Socrate, Buddha, Confucio, Gesù”; pag. 65, 66)

Benissimo! Condivido questo atteggiamento di fondo del Buddha: per me vale più trovare un senso, un qualche senso, a questa esistenza, nella quale sono comunque coinvolto (a meno di non volerne uscire fuori con un atto suicida), piuttosto che ragionare dei massimi sistemi concettuali, astraendomi dall’esistenza concreta.

E, però, la via individuata e indicata dal Buddha (l’abbandono di ogni desiderio) conduce davvero alla salvezza? E’ una vera e giusta medicina, in grado di guarirci dalle malattie dell’esistenza che sono essenzialmente la sofferenza e la morte?

A me non sembra.

Innanzitutto, l’Illuminato, cioè colui che raggiunge il Nirvana così come è promesso nell’Ottuplice Sentiero individuato e proposto da Buddha, muore come tutti gli altri uomini, gli uomini comuni, non illuminati.

Il Nirvana, dunque, non garantisce l’immortalità.

In secondo luogo (e questa è per me cosa ancora più grave della prima) la rinuncia al desiderio non garantisce affatto il superamento dei dolori, della sofferenza che è caratteristica fondamentale e strutturale dell’esistenza umana. Ne rimuove solo il problema.

Cosa vogliono dire, infatti, le prime due nobili verità predicate dal Buddha, se non la rinuncia al desiderio?

Prima nobile verità: c’è la sofferenza; la sofferenza deve essere compresa; ho compreso la sofferenza.

Seconda nobile verità: esiste un’origine della sofferenza: è l’attaccamento al desiderio (tanha); il desiderio deve essere lasciato andare; ho lasciato andare il desiderio.

Il superamento della sofferenza (che tra l’altro non è la felicità, ne è solo la premessa; indispensabile, come è ovvio; ma non è la felicità; in quanto la felicità non è la semplice assenza di sofferenza) consiste, dunque, per il Buddha nel lasciare “andare il desiderio”?

Che è come dire ad un innamorato: rinuncia al desiderio che il tuo amore venga corrisposto, così non proverai, ti risparmierai il dolore che proveresti se il tuo amore non venisse corrisposto; in ogni caso ti risparmierai le delusioni (e quindi le sofferenze) che spesso accompagnano anche gli amori corrisposti.

Ma che razza di soluzione è mai questa? Non è affatto una soluzione al problema del dolore!

La rinuncia al desiderio (ad ogni desiderio) per me altro non è che la morte stessa della psiche. E’ l’anticipazione sul piano psichico della morte che avverrà prima o poi anche sul piano fisico. E’ una sorta di suicidio dell’anima.

E’ come se io dicessi, con parole solo un po’ più sofisticate e ammantate di (apparente) saggezza: per non soffrire è bene vivere in uno stato di narcosi, anestesia permanente. E che razza di vita sarebbe mai questa?

Può essere considerata questa suggerita dal Buddha una soluzione al problema di fondo dell’esistenza?

Giovanni Lamagna