Archivi Blog

Negazione della differenza e omosessualità.

Nel libro “la Legge della parola” (2022 Einaudi; pag. 58-59) Massimo Recalcati così scrive:

Ripudiando la via lunga del pensiero, il soggetto della violenza appare trascinato verso l’illusione incestuosa di una totalizzazione compiuta con la Cosa.

E’ quello che secondo Freud possiamo vedere in atto nell’omicidio, nel cannibalismo e nell’incesto quali forme estreme di negazione dell’alterità dell’Altro.

Queste tre esperienze condividono infatti come unico denominatore la spinta della negazione della differenza: nell’omicidio attraverso l’eliminazione fisica dell’esistenza dell’Altro, nel cannibalismo mediante la sua incorporazione e, infine, nell’incesto attraverso un movimento di riunificazione senza scarti con la nostra origine.

In tutte e tre queste situazioni si verifica un movimento di assimilazione o di negazione dell’alterità dell’Altro.

Ecco perché secondo Freud il programma di ogni Civiltà si impernia sull’edificazione di tre fondamentali interdizioni simboliche che impediscano omicidio, cannibalismo e incesto.

La trasgressione di questi divieti trascinerebbe il soggetto fuori dalla Legge degli uomini, gettandolo in quel campo desertico che Lacan ha definito come “godimento mortale” dove la vita umana si dissolve in una regressione all’indifferenziato.

Condivido in buona sostanza questa riflessione.

Che però mi insinua un dubbio, che diventa, automaticamente, una domanda: all’elenco delle tre esperienze, che, secondo Freud, Lacan e lo stesso Recalcati, tendono a negare la differenza dell’Altro, non se ne dovrebbe – seguendo il filo logico del loro ragionamento – aggiungere una quarta: quella omosessuale?

Non c’è, infatti, a fondamento (anche) dell’esperienza dei rapporti omosessuali la negazione dell’Altro come differenza, un bisogno (a suo modo incestuoso) di riconoscersi nell’Altro uguale a sé e una difficoltà ad entrare in relazione con il diverso da sé?

Qui ricordo, ad avvalorare questo mio dubbio e questa mia domanda, che una certa lettura psicoanalitica dell’omosessualità già in passato avevo fatto risalire questo orientamento sessuale ad un rapporto incestuoso più o meno latente col genitore del latente,genitore,sesso opposto.

Cosa che avrebbe comportato la sacralizzazione di questa figura, con la conseguenza di inibire successivamente il rapporto sessuale con persone di questo stesso sesso e orientare lo spostamento dell’interesse libidico verso persone del proprio sesso.

Ricordo benissimo che Cesare Musatti, padre della psicoanalisi italiana, dava una tale lettura e interpretazione della omosessualità di un suo contemporaneo, personalità molto conosciuta della cultura italiana; sto parlando di Pier Paolo Pasolini.

Di Pasolini era, infatti, ultra-noto il rapporto di grande amore e intimità che lo legava alla madre, alla quale sono dedicate pagine indimenticabili e molto poetiche dello scrittore friulano; rapporto che sembrerebbe avvalorare la tesi di Musatti.

Ovviamente manco lontanamente mi passa per la mente di accostare – dal punto di vista della psicopatologia e meno che mai dal punto di vista della criminologia – l’omosessualità ad esperienze quali l’omicidio, il cannibalismo o l’incesto.

In questi tre casi ci troviamo senza ombra di dubbi in presenza di fenomeni non solo deprecabili, ma da giudicare e condannare anche sotto l’aspetto giuridico e penale; ci troviamo in altre parole di fronte a veri e propri crimini, più o meno gravi.

Sicuramente, invece, nel caso dell’omosessualità ci troviamo di fronte a un’esperienza che non ha nulla di deplorevole né sul piano etico né, tantomeno, sul piano giuridico penale.

E, però, sulla base del ragionamento che fa Recalcati, mi chiedo se non siano da riscontrare nell’esperienza dell’omosessualità elementi, fattori psicologici che sanno di chiusura, di blocco, di mancato sviluppo della libido.

Come, d’altra parte, sono, con tutta evidenza, da riscontrare, a mio avviso, (e qui l’accostamento può risultare utile) nell’esperienza della masturbazione; la quale certamente non ha nulla di riprovevole sul piano etico e meno che mai ovviamente (dovrebbe essere persino superfluo rimarcarlo) su quello giuridico.

E, però, altrettanto certamente, l’atto masturbatorio rappresenta una “sconfitta” o, quantomeno, una deviazione surrogatoria, sul piano psicologico del naturale istinto dell’uomo ad accoppiarsi sessualmente con un suo simile.

Tanto è vero che esso non può fare a meno (solitamente) di accompagnarsi a fantasie e a desideri di accoppiamento, seppure solo virtuale.

La solitudine in cui si svolge l’atto sessuale masturbatorio è la negazione del fine stesso a cui tende naturalmente l’istinto sessuale, che è quello dell’accoppiamento, della “coniunctio”, e non del soddisfacimento solitario.

L’atto masturbatorio è in fondo – come ben sa chi ha vissuto e vive tale esperienza – solo un triste e malinconico soddisfacimento surrogatorio dell’istinto e del desiderio sessuale, che tendono per loro natura all’accoppiamento, al congiungimento e all’unione di due corpi.

Tanto è vero che viene seguito in genere da un senso (più o meno profondo) di frustrazione e non di appagamento.

Per cui il fatto che sia sciocco, ancora oggi, emettere un giudizio etico sul fenomeno della masturbazione (come pure, invece, si è fatto per secoli, anzi millenni, e ancora oggi si fa presso alcune tradizioni culturali, soprattutto religiose), non vieta né impedisce una sua valutazione sul piano psicologico, come fenomeno tipicamente adolescenziale, quindi regressivo (o tutt’al più surrogatorio), se vissuto in età adulta.

Mi rendo conto che qui avanzo – almeno come ipotesi interpretativa di un’esperienza come l’omosessualità – un ragionamento di questi tempi molto poco politically correct.

Ma la mia onestà intellettuale me lo impone e perciò lo faccio anche a costo di attirarmi – come prevedo – una montagna di critiche.

Pronto altresì a sciogliere i miei dubbi e a rivedere queste mie analisi di fronte ad argomenti contrari e inoppugnabili, che dovessero risultare da un eventuale confronto con tesi opposte.

© Giovanni Lamagna

Sul desiderio amoroso

Se il desiderio amoroso è amore per il nome è perché il nome, diversamente dal “pezzo”, non si dà come oggetto seriale, non può essere rimpiazzato con un oggetto simile.

Anzi, se c’è una possibile definizione dell’amore sarebbe proprio quella di rendere l’Altro non il simile ma l’insostituibile nella sua alterità.” (Massimo Recalcati, “Ritratti del desiderio”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018 seconda edizione, p.118)

Non ci sono dubbi: il desiderio amoroso, come dice Recalcati, è amore per il nome, anzi per il nome proprio.

Che vuol dire, in altre parole: è amore per quella precisa persona, con quelle determinate caratteristiche, fisiche, psicologiche, intellettuali, spirituali.

Non è, né può essere, un amore universale, per le donne o per gli uomini in generale; è sempre amore per un singolo uomo o per una singola donna: quel singolo uomo, quella singola donna.

Anche se a me viene da aggiungere: l’amore singolare, che è la caratteristica precipua del “desiderio amoroso”, presuppone sempre un amore in qualche modo universale per l’uomo o per la donna in generale.

Nessun uomo, infatti, potrebbe amare una singola donna in particolare, se non fosse in primo luogo attratto dalle donne in generale; così come nessuna donna potrebbe amare un singolo uomo in particolare, se non fosse innanzitutto attratta dagli uomini in generale.

Anzi, dirò di più: nessun uomo e nessuna donna potrebbero amare una donna o un uomo in particolare se non provassero in primo luogo un sentimento diffuso di amore per l’umanità in generale, quello che Confucio definiva “senso di umanità” e che i Greci antichi definivano “agape”, per distinguerlo dall’amore/eros e dall’amore/philia.

Questo per dire che il rapporto tra particolare e universale, singolare e generale, è un rapporto complesso, bidirezionale e non unidirezionale, nel quale è difficile stabilire cosa viene prima, se prima l’universale o il particolare o viceversa; un po’ come nella storia dell’uovo e della gallina: viene prima l’uovo o la gallina?

E, però, nella sostanza convengo con Massimo Recalcati: si può parlare di “desiderio amoroso” in senso specifico (quindi non di “filantropia”) solo quando il mio desiderio non è indiscriminato e perciò promiscuo, ma si indirizza verso determinate caratteristiche specifiche della persona che desidero e non verso altre.

Una certa altezza, un certo tipo di corporatura, un certo colore dei capelli, un certo profumo, un certo profilo, un certo tipo di sguardo, un particolare timbro della voce, certi gesti, un certo portamento, un certo modo di vestire, certi tratti del carattere, un certo tipo di intelligenza, alcuni modi tipici di fare, un certo bagaglio culturale…: sono queste alcune delle categorie di massima all’interno delle quali si situano quelle caratteristiche che a me maschio fanno sentire attrazione verso un certo tipo di donna e non verso altre.

E credo che in questo discorso si possano ritrovare un po’ tutti gli uomini e tutte le donne. Non posso parlare per loro, ma suppongo che si possano riconoscere anche coloro che provano un desiderio amoroso verso una persona del loro stesso sesso.

I “dongiovanni”, i “casanova”, invece, indubbiamente non provano un reale desiderio amoroso, perché essi sono motivati esclusivamente dall’ansia della prestazione, dal desiderio (non certo amoroso, ma esclusivamente e del tutto narcisistico) di infiocchettare trofei.

Al dongiovanni o al casanova, infatti, non interessa con quale donna fanno all’amore, qual è il suo “nome proprio”; interessa solo il “pezzo” da mettere esposto nella bacheca delle conquiste. Il dongiovanni e il casanova non sono interessati a e non realizzano un reale rapporto con l’altro/a; a loro preme solo la conquista di un “trofeo”, l’ennesimo trofeo.

Detto e assodato questo, non condivido però del ragionamento di Recalcati quella che mi sembra una sua conclusione implicita: l’identificazione della assoluta singolarità e unicità della persona “oggetto” del mio desiderio amoroso con la unicità ed esclusività dello stesso sentimento amoroso.

Il fatto che io sia attratto da determinate caratteristiche di una donna, che ingenerano in me un desiderio amoroso, non esclude, infatti, che io possa essere attratto da altre caratteristiche di un’altra donna, che ingenerano in me un uguale sentimento amoroso; altro, diverso dal primo, eppure molto simile (nella qualità e nella sostanza psicologica) al primo.

In questo caso il mio desiderio (pur muovendosi all’interno di una gamma di caratteristiche “oggettuali” affini) è motivato, stimolato da particolari diversi o, quantomeno, non identici: ciò che ritrovo, dunque, nella prima non lo ritrovo nella seconda e viceversa.

Per cui non vedo, non capisco, perché io non possa provare, sperimentare diversi (autentici) desideri amorosi in contemporanea, per due o più persone diverse. Senza che questo abbia nulla a che fare né col dongiovannismo né col casanovismo.

Ancora: qui non si tratta di sostituire o non sostituire, come sembra ritenere Recalcati. Si tratta di amare in contemporanea (come succede, ad esempio, nel caso dell’amicizia; e qui nessuno trova niente da ridire) persone diverse per le loro caratteristiche diverse, nella loro unicità, irripetibilità e singolarità.

E starei per dire, in alcuni casi, persino nella loro complementarietà. Cosa, a mio avviso, niente affatto incompatibile con un vero e autentico sentimento amoroso.

© Giovanni Lamagna

Ogni rapporto ci chiede un cambiamento

31 marzo 2015

Ogni rapporto ci chiede un cambiamento.

Nessun incontro avviene per caso. E ogni incontro, ogni nuovo rapporto ci interpella. Ci interpella su quello in cui siamo carenti, sulla parte di noi che siamo chiamati a sviluppare.
Per questo nessun rapporto è solo “rose e fiori”. Semmai lo è all’inizio, in quella fase che siamo soliti chiamare dell’innamoramento o della luna di miele. Fase che non avviene, non accade solo nel rapporto classico tra innamorati, ma in ogni tipo di rapporto nel quale scatta un qualche feeling. Specie nei rapporti che tendono a consolidarsi, a stabilizzarsi, in una forma più o meno forte e intensa di amicizia.
Dopo questa fase che potremmo anche definire aurea, perché in essa prevalgono gli elementi di attrazione su quelli del rifiuto (fase assolutamente necessaria e indispensabile per far nascere un rapporto; ripeto: un qualsivoglia rapporto; non solo il cosiddetto rapporto d’amore; tutti i rapporti sono, in forme diverse, rapporti d’amore), inizia una fase in cui accanto alle tenerezze e alle dolcezze dello stare insieme incominciano a manifestarsi anche i contrasti e i veri e propri conflitti.
E’ questa, però, la fase più utile e importante del rapporto, quella che lo mette alla prova, che ne verifica la consistenza e la significatività.
E’ la fase in cui il nostro carattere di base è messo in discussione, è chiamato a rendersi plasmabile, modificabile, disponibile al cambiamento.
La diversità dell’altro mi mette in crisi, chiede di essere assimilata in qualche modo da me. L’altro non vuole semplicemente restare “alterità” rispetto a quello che io già sono in partenza, ma chiede di diventare carne della mia carne, sangue del mio sangue.
Qui viene fuori la motivazione fondamentale per cui io sono stato attratto da una certa persona. E non sto parlando semplicemente de ”la donna della mia vita” (ammesso che ci sia “una donna della mia vita”). Questa è una legge, una dinamica che vale per tutti i rapporti; anche per i rapporti cosiddetti di amicizia.
Se io sono stato attirato da una certa persona, è perché questa persona è dotata di qualità (o anche di una sola qualità particolare) di cui io sono carente e di cui quindi avverto la mancanza.
Nel momento in cui scatta il rapporto, rispetto a questa diversità/alterità, io ho davanti a me tre possibilità: 1) rifiutarla del tutto; 2) accettarla, ma farla restare alterità/diversità; 2) non solo accettarla, ma assimilarla, farla diventare in qualche modo mia, cioè parte essenziale della mia identità.
Nel primo caso l’alterità dell’altro mi appare come una montagna troppo alta e impervia da scalare, come un mare troppo esteso e periglioso da attraversare. L’impresa che mi viene richiesta risulta al di sopra delle mie capacità e della mia volontà di cimento. Quindi io scelgo di rinunciare del tutto al rapporto, di sottrarmi alla sfida che esso implicitamente mi aveva lanciato.
Nel secondo caso l’altro mi servirà per compensare le mie carenze, ma resterà altro da me e fondamentalmente estraneo. Anche in questo caso il “compito” a cui ero stato chiamato quando ho incontrato (e sono stato attratto da) questa persona può dirsi sostanzialmente fallito. L’integrazione che mi veniva richiesta non è riuscita. Io e l’altro siamo rimasti sostanzialmente due estranei.
E il fallimento è dovuto essenzialmente al fatto che mi sono rifiutato di cambiare, di farmi modificare nel rapporto con l’altro. Ho preferito rimanere me stesso, tale e quale a come ero prima di incontrare l’altro. L’Ego ha vinto sul Noi: sono stato incapace di uscire dal mio narcisismo di base.
Nel terzo caso con l’altro non solo nasce un rapporto, ma l’altro in un certo senso mi entra dentro. Io, in un qualche modo, divento anche altro, nel senso che l’altro viene assimilato da me. La sua diversità non resta pura alterità, ma diventa carne della mia carne, sangue del mio sangue.
In questo caso il rapporto è riuscito, ha corrisposto al compito per cui esso era nato: quello di realizzare un rimescolamento delle carte (quelle in mano a me e quelle in mano all’altro), quello di realizzare il cambiamento (nel senso dell’arricchimento) reciproco.
Ma, come tutti i cambiamenti, esso non è indolore. Richiede una nuova nascita, quindi un parto. E, come tutti i parti, esso avviene nelle doglie.
Per questo molti rapporti (anche quelli nati con i migliori auspici, con fuochi e fiamme, ardenti di passione) falliscono, nel senso che prima o poi si spengono, fino a morire.
Perché i due in relazione (o anche uno solo di essi) non hanno avuto la disponibilità e la capacità di affrontare le doglie del cambiamento che il rapporto richiedeva.
Per questo i rapporti (tutti i rapporti) non sono fatti mai solo di rose e fiori (come lo sono nella prima fase), ma sempre (prima o poi) anche di lacrime e sangue.
Chi vuole godersi solo il profumo delle rose e dei fiori e non sa affrontare anche le lacrime e il sangue, che ogni rapporto (prima o poi) comporta, in realtà non è capace di instaurare veri rapporti. Si accontenterà di rapporti superficiali. Nel senso che dell’altro/a coglierà solo la superficie, non l’essenza profonda.

Giovanni Lamagna