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I figli possono diventare talvolta il nostro Super-ego.
Nella teoria classica freudiana con il termine di “Super-ego” si intendono quei “comandamenti”, fatti in genere di censure e divieti morali, che abbiamo introiettato soprattutto quando eravamo bambini, in modo particolare dai nostri genitori, ma anche da tutte quelle figure e situazioni (reali o simboliche) che hanno inciso fortemente nella nostra educazione emotiva ed intellettuale, nella nostra formazione umana generale.
Quando diventiamo adulti e generiamo dei figli, accade però, talvolta, che sono questi, con i loro giudizi, più o meno espliciti o impliciti, più o meno manifesti o mascherati, che assumono il ruolo di nostro Super-ego, dandogli un nuovo volto e vesti nuove.
Questo succede quando, con l’età e con l’esperienza maturata, vorremmo assumere comportamenti diversi da quelli che abbiamo avuto fino ad allora, dare un orientamento esistenziale nuovo, in certi casi addirittura una svolta radicale, alla nostra vita, perché non siamo più soddisfatti di quella precedente o perché non la consideriamo più consona, adeguata ai nuovi scenari che abbiamo davanti.
Allora in questo caso i nostri figli, anche quando sono già adulti e magari hanno a loro volta dei figli (i nostri nipoti), si sentono psicologicamente minacciati, quasi traditi, da questi nostri tentativi, che mettono (metterebbero) in crisi i territori sui quali essi sono cresciuti, sui quali li abbiamo allevati ed hanno maturato le loro “certezze” di vita; e perciò ce ne fanno sentire in colpa; a volte maledettamente in colpa.
E allora i nostri movimenti in direzione del nuovo, di nuovi modelli esistenziali e scelte di vita, diventano incerti, maldestri, non solo perché si muovono su territori per noi in parte o del tutto sconosciuti, ma anche perché i nostri figli, coi loro comportamenti, perfino coi loro discorsi, a volte anche solo coi loro sguardi, ci richiamano all’ordine e ci spingono a non abbandonare la via vecchia per la nuova.
Incertezze personali, già presenti in noi (e del tutto naturali quando si imboccano strade nuove e ancora sconosciute), e sensi di colpa indotti da altri (in questo caso parlo soprattutto dei nostri figli), in maniera più o meno palese ed esplicita, più o meno strisciante o invadente, allora si sommano e fanno traballare, rendendo incerto e oscillante il nostro desiderio di novità e la ricerca di nuovi stimoli e percorsi esistenziali.
La tentazione (il più delle volte difficile, in certi casi impossibile, da sconfiggere) è allora quella di ritornare sui propri passi, timidamente e confusamente avviati, e di cercare il conforto delle antiche certezze, accontentandosi di quello che già si ha, rinunciando a quello che si sarebbe potuto avere, solo se si avesse avuto più coraggio, più senso dell’avventura.
Se, in altre parole, si fosse avuto la capacità di sconfiggere i sensi di colpa, di cui i nostri figli si fanno (più o meno coscientemente, più o meno involontariamente) latori, se non ci si fosse fatti paralizzare ancora una volta dal Super-ego, come già ci succedeva da bambini e da adolescenti immaturi, quando esso era rappresentato in primis dai nostri genitori.
So bene che il nostro Super-ego di adulti maturi non ci “parla” e “comanda” solo attraverso i nostri figli; so bene che esso si aggruma attorno ad una molteplicità di fattori, attorno a tutto il contesto affettivo (primario e significativo) che ci circonda, costituito in primis dai nostri parenti (fratelli, sorelle, cugini, cugine…), se ne abbiamo; e poi dai nostri amici più stretti.
Qui però volevo segnalare in modo particolare il paradosso (direi il paradosso dei paradossi!) di un Super-ego, rappresentato proprio da coloro che noi abbiamo generato e ai quali proprio noi (quando loro erano bambini e adolescenti) abbiamo trasmesso censure e divieti, aiutandoli a formare il loro Super-ego.
Censure e divieti che, a questo punto, si ritorcono, in maniera direi quasi beffarda, contro di noi, proprio quando avremmo desiderato trasgredirli, addirittura quando ci sembrava di essere oramai pronti psicologicamente a superarli, a farne a meno.
Ci sembrava, ma, evidentemente, avevamo fatto i conti senza l’oste: senza il Super-ego, rappresentato innanzitutto dai nostri figli.
© Giovanni Lamagna
Gara a chi…
Quelli che alla mezzanotte del 31 dicembre fanno a gara a chi spara fuochi più grossi, più alti, più roboanti e più a lungo mi ricordano gli adolescenti che fanno a gara a chi la piscia più distante o a chi ce l’ha più lungo.
© Giovanni Lamagna
Sull’articolo di Saviano comparso ieri su “la Repubblica”
Su “la Repubblica” di ieri Roberto Saviano dedica un lungo articolo (una pagina intera) alla vicenda di Ugo Russo, l’adolescente ucciso sabato scorso a Napoli da un carabiniere, che il Russo e un suo giovanissimo complice stavano tentando di rapinare.
L’articolo dice molte cose giuste (ed anche, a dire il vero, altre sulle quali sarebbe necessario fare dei distinguo e delle precisazioni), ma ne dimentica una, per me essenziale.
E cioè che, a fronte di episodi simili e del retroterra economico, sociale e culturale che essi esprimono, c’è bisogno, oltre che degli interventi economici, sociali, educativi e culturali, a cui fa riferimento Saviano, anche di una giusta e proporzionata dose di repressione.
Anche nei confronti dei minori che si rendono protagonisti di episodi simili a quello di sabato scorso (o addirittura più gravi). Come, del resto, aveva egregiamente scritto il giorno prima su “la Repubblica Napoli” il giornalista Luigi Vicinanza.
Perché lo Stato, un qualsiasi Stato, anche il più virtuoso dal punto di vista del welfare, si regge anche (pure se non solo) sulla forza. Lo Sato è quell’organismo giuridico che, per definizione, ha il monopolio della forza. Se non riesce a farla valere, diciamo pure a imporre, viene meno la sua stessa funzione.
D’altra parte non possiamo neanche lontanamente teorizzare una società (e, quindi, uno Stato) in cui tutto funziona a tal punto (dall’economia ai servizi sociali alle istituzioni culturali…) che la delinquenza e la criminalità vi siano del tutto bandite.
Certo, possiamo sperare che in una società più equa, meno stratificata economicamente e socialmente, dove la cultura sia considerata un bene comune ed alto a cui tutti aspirare, la delinquenza e la criminalità diventino fenomeni marginali. Ma non possiamo certo sperare e tantomeno ipotizzare che esse scompaiano del tutto.
E allora, di fronte a episodi di violenza, di delinquenza e di criminalità, cosa deve fare uno Stato? Assistere impotente, passivo, inerte, in nome di un “buonismo” che è estraneo potremmo dire alla sua stessa costituzione giuridica? No, non può! Altrimenti lo Stato scompare, si ecclissa.
Certo, deve migliorare sempre di più i suoi servizi sociali e culturali, ma deve anche, quando ciò si rendesse necessario, anzi indispensabile, reprimere, impedire che violenza, delinquenza, criminalità facciano danni alla collettività oltre un certo limite fisiologico, deve assolutamente impedire che esse dilaghino, come purtroppo da secoli succede a Napoli.
Intervento sociale e intervento repressivo devono camminare di pari passo. Guai a pensare che tutto si possa risolvere solo con gli interventi sociali (che tra l’altro spesso fanno vedere i loro risultati solo a lungo termine). Come guai a pensare che tutto si risolva solo con gli interventi repressivi.
Purtroppo spesso a Napoli il dibattito (retorico e inconcludente) si accende sulla questione se vengano prima gli uni o prima gli altri. Con l’esito, il più delle volte, che purtroppo non si realizzano né gli uni né gli altri.
Giovanni Lamagna
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P.S.
Alcune delle questioni affrontate da Saviano su cui, a mio avviso, occorre fare dei distinguo rispetto alle tesi da lui sostenute.
1.Saviano dice: “Questa è una tragedia di cui Napoli è responsabile. Questa è una tragedia di cui siamo responsabili tutti noi che ci occupiamo di ciò che accade al Sud, di ciò che accade a Napoli.”
Questa tesi non mi trova concorde, perché finisce per avere, al di là delle stesse intenzioni di Saviano, il seguente esito negativo: “Tutti responsabili, nessun responsabile!”.
E, invece, qui ci sono delle responsabilità ben precise e non generalizzabili. Ne vorrei elencare alcune.
Ci sono le responsabilità di una classe borghese, miope, ignorante ed egoista, che mira a sfruttare anziché ad elevare socialmente e culturalmente i ceti e le classi subalterne.
Ci sono le responsabilità di un modello economico prevalente, che mira all’arricchimento facile, a consumi fatui, che disprezza la cultura.
Ci sono le responsabilità di una classe dirigente, soprattutto di quella politica, imbelle, che anziché far valere la legge, preferisce mantenere con la criminalità (organizzata e non) un rapporto di quasi non belligeranza o, quantomeno, di tolleranza.
Ci sono poi le responsabilità (gravissime) degli stessi soggetti che si fanno attirare nella spirale della delinquenza spicciola e/o della vera e propria criminalità. In primo luogo di quelli adulti, incapaci di adempiere minimamente al loro ruolo educativo di genitori. E poi degli stessi giovani e perfino degli adolescenti, che cresciuti in ambienti malsani, finiscono per diventare delinquenti.
Non ovviamente, non naturalmente, quale esito quasi fatale ed inevitabile; così come sembrano teorizzare molti maitre a penser improvvisati e, a me pare, lo stesso Saviano.
Sostenere questa tesi significa fare torto, anzi offesa, alle masse di poveri che, pur in condizioni di vita estremamente indigenti, non si lasciano sedurre dalle sirene del guadagno facile offerto loro dalla criminalità e preferiscono guadagnarsi da vivere con attività modeste ma oneste, pur se in mezzo a grandi stenti e sofferenze.
- Quando scoppiano queste tragedie, puntualmente si fa appello (e lo fa a lungo anche Saviano) al ruolo che dovrebbe svolgere la scuola. Ora lungi da me sottovalutare il ruolo delle agenzie educative in generale e della scuola in particolare, anche rispetto al problema che stiamo esaminando.
Avendo però insegnato nella scuola per oltre tre decenni, mi sia permesso dire che affidare alla scuola un ruolo quasi taumaturgico è del tutto sbagliato. Non è questione di ore passate a scuola o di strutture e, in fondo, manco di metodologie. E’ questione di modelli culturali.
Che cosa intendo dire? Questo. Se il modello culturale egemone, dominante nella società, è quello dell’arricchimento, magari facile, se il modello prevalente dei consumi è quello dei beni fatui, frivoli, se il modello principale delle relazioni sociali è quello della competizione estrema, cosa pensate possa fare la scuola, la quale prova invece a passare (d’accordo: non sempre lo fa in maniera convincente ed efficace) il modello culturale opposto?
L’insegnamento che i ragazzi ricevono a scuola entrerà per forza di cose in rotta di collisione con quello che gli stessi ragazzi apprendono fuori della scuola. Col risultato che alcuni (sempre più pochi) scelgono quello offerto loro dalla scuola, altri (i più) quello proposto loro dalla società in cui tutti noi viviamo.
Non rimuoviamo con troppa facilità una dichiarazione molto grave fatta dal ragazzino complice di Ugo, quando è stato interrogato all’indomani della tragica vicenda che lo aveva visto coinvolto: “A noi i soldi ricavati dalla rapine ci servivano per andare in discoteca”.
Quindi non per portare un po’ di reddito a casa delle loro famiglie indigenti (cosa che avrebbe potuto dare al gesto dei due ragazzi un minimo di giustificazione), ma “per andare in discoteca”, cioè per fare una cosa del tutto fatua e frivola.
Pensate che anche la migliore delle scuole (dal punto di vista della didattica e del tempo prolungato) sia in grado di parlare, di dire qualcosa a ragazzi intrisi di questi modelli culturali e sociali? O il dialogo tra loro sarà destinato fatalmente ad essere un dialogo tra sordi?
Questo non per dire che allora è impossibile qualsiasi intervento socio-educativo. Ma semplicemente per affermare che è del tutto fuorviante e banale affidarlo in primo luogo o addirittura esclusivamente alla scuola.
Qui o cambiano (e radicalmente) i modelli sociali prevalenti, oppure le scuole (anche le migliori) e gli insegnanti (anche i più bravi) si ridurranno al ruolo di “predicatori nel deserto”. Ovviamente del tutto inascoltati da ragazzini come Ugo e come il suo complice di pari età.
Giovanni Lamagna