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Il filosofo e il mistico nei confronti degli affetti familiari.

Nel suo libro “I quattro maestri” (Garzanti; 2020) Vito Mancuso illustra e valuta il rapporto che Socrate, Buddha, Confucio e Gesù avevano con i loro parenti e con l’istituzione “famiglia” in generale.

E, in estrema sintesi, afferma che l’unico ad avere un buon rapporto con i suoi parenti ed un’alta considerazione dell’istituto familiare era Confucio.

Per Confucio la costruzione di buoni rapporti sociali, la concretizzazione di quel “senso di umanità” che era il fine più alto e la sintesi del suo insegnamento, doveva cominciare dalla famiglia: il padre doveva essere un buon padre e i figli dei bravi figli.

Degli altri tre maestri il più vicino a Confucio – per Mancuso – può essere considerato Socrate, che ebbe una regolare famiglia, anche se un rapporto molto difficile e conflittuale con la moglie Santippe, e non parlò mai contro l’istituto familiare.

Bisogna però dire che per Socrate non era certo la famiglia il cuore dei suoi interessi e perfino dei suoi affetti.

Egli, infatti, trascorreva la maggior parte del suo tempo per le vie e le piazze della polis ateniese e probabilmente teneva, sul piano affettivo e, forse, perfino erotico, molto di più ai suoi allievi che ai suoi figli e a sua moglie.

Ancora più radicale e antistituzionale è il rapporto che ebbero Buddha e Gesù coi loro familiari e con l’idea stessa di parentela e di famiglia.

Buddha a circa 30 anni lasciò la moglie e il figlio e si dedicò ad una vita totalmente spirituale, mistica e contemplativa; radunando attorno a sé una comunità di discepoli decisi a seguire la sua stessa via, che costituirono a questo punto la sua nuova e vera famiglia.

Quello che Buddha e, per alcuni aspetti, anche Socrate fecero nei fatti, Gesù non solo lo praticò in modo molto radicale, ma lo teorizzò perfino.

Ci sono molte affermazioni di Gesù che ci descrivono il suo distacco/separazione dalla sua famiglia di origine e che di questo distacco/separazione indicano, professano, la necessità, come una delle condizioni base, per mettersi alla sua sequela, per dedicarsi cioè alla missione di annuncio dell’imminente avvento del regno di Dio.

Due affermazioni in modo particolare ci dicono di questa sorta di “disamore” di Gesù per i suoi familiari e di (quasi) disprezzo nei confronti dell’istituto familiare, in nome di un amore e di una comunità di intenti e di affetti più grandi.

La prima: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo.” (Luca, 14, 26).

La seconda: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”, riferendosi a Maria e ai suoi fratelli di sangue; che viene così completata da Gesù: “Ecco mia madre e i miei fratelli!” (Marco; 3; 33-34), riferendosi a coloro che ascoltavano la sua parola.

Vito Mancuso, tra i due atteggiamenti, quello di Confucio e (in parte) di Socrate e quello di Gesù e (in parte) di Buddha, propende per quello di Confucio e di Socrate, ritenendolo (lo dico a parole mie) più equilibrato, meno fanatico e, quindi, più sano.

Io, invece, pur respingendo ogni estremismo e (ancora di più) ogni fanatismo, per la mia formazione culturale ed umana, propendo di più per l’atteggiamento di Buddha e di Gesù.

Non perché ritenga che, per abbracciare una vita dedita alla filosofia e alla mistica, sia necessario rinunciare alla famiglia come anche agli amori ed agli affetti (in questo senso respingo ogni estremismo e fanatismo), ma perché pure io ritengo che prima degli affetti di sangue e di ogni altro amore debba venire l’amore per la Sapienza.

Perlomeno l’amore per la Sapienza deve venire prima di ogni altro amore in chi intenda abbracciare una vita dedita alla via filosofica o alla via mistica.; che, tra l’altro per me, sono due vie contigue, molto affini.

Contigue e affini non fosse altro che per la radicalità che deve (o, meglio, dovrebbe) a mio avviso caratterizzare il pensiero e la vita sia dei filosofi che dei mistici; se aspirano ad essere dei veri filosofi e dei veri mistici.

In altre parole sono memore e ben consapevole di quanto affermò Aristotele di se stesso: “Amicus Plato, sed magis amica veritas” (“Platone mi è amico, ma più amica mi è la verità”).

Consapevole, come lo fu Aristotele, che non si può davvero amare se non si è (almeno un po’) sapienti, non si possono amare gli uomini, se non si ama prima la Sapienza.

E Aristotele non era certo un estremista e, tantomeno, un fanatico; ma un uomo molto mite e saggio; per giunta un grande filosofo (“amante della Sapienza”); anzi sicuramente uno dei più grandi filosofi comparsi fino ad oggi sulla faccia della terra.

© Giovanni Lamagna

Catene esteriori e catene interiori.

Marx vuole liberare il lavoro dalle catene esteriori, dalle catene di chi – il capitalista – asservisce il lavoro e lo rende, in pratica, una merce come le altre, un fattore della produzione come gli altri, al pari delle macchine.

Marx, però, non sembra altrettanto consapevole che il lavoro è servo anche di altre catene, catene interiori, interne cioè al lavoratore stesso, che il lavoratore tende a darsi da solo.

Catene di cui, tra l’altro, è schiavo lo stesso datore di lavoro: il capitalista.

Queste catene consistono nella tendenza all’iperattività, al prevalere della vita attiva su quella contemplativa, anzi della “vita laborans” sulla stessa “vita activa”, almeno per come la intende Hannah Arendt.

Con l’iperattività della “vita laborans” il fine del lavoro non lo decide l’uomo (lavoratore o capitalista da questo punto di vista fa poca differenza), ma la dicotomia stessa del lavoro, della vita produttiva.

Il lavoratore, ma anche lo stesso capitalista, non sono padroni del loro lavoro, ma semplici ingranaggi di un meccanismo, di un sistema che li sovrasta e che determina le loro decisioni.

Da questo punto di vista il film di Charlie Chaplin “Tempi moderni” andrebbe aggiornato con il lavoratore e il datore di lavoro trascinati entrambi dallo stesso ritmo vorticoso degli ingranaggi delle macchine: ingranaggi tra gli ingranaggi.

Il lavoratore – per diventare veramente e completamente libero – si deve liberare anche da queste catene, puramente interiori, psicologiche, e, quindi, perfino più subdole di quelle esteriori.

Queste seconde, infatti si vedono molto chiaramente e sono facilmente smascherabili. Le prime si vedono meno, sono meno vistose, e perciò più difficili da eliminare.

Marx vide con molta lucidità le seconde, ma, forse e per quello che ne so, si accorse poco (o niente) delle prime.

Giovanni Lamagna

Recensione del libro “Il profumo del tempo” di Byung – Chul Han.

Il libro di Byung – Chul Han “Il profumo del tempo” (editore Vita e Pensiero) è una interessante e utile meditazione su ciò che è diventato il tempo per l’uomo a partire dalla modernità fino alla nostra contemporaneità.

In modo particolare sull’accelerazione che esso ha via, via subito in maniera sempre più vistosa, anche per l’invenzione di macchine che hanno sostituito sempre più l’azione dell’uomo, rendendola sempre più veloce, fino a dettarne i tempi.

Fino a che, come è diventato manifesto ai nostri giorni, non è più l’uomo padrone del suo tempo, ma è il tempo che si impone all’uomo come suo padrone, che costringe l’uomo ad andare ai suoi ritmi sempre più vorticosi.

Questa velocizzazione del tempo va di pari passo con una perdita di senso e di valore: del tempo stesso, ma anche dell’intera esistenza e delle cose di cui l’uomo viene in possesso.

Qui Byung-Chul Han fa una interessante analisi, a partire dalla domanda: è l’accelerazione sfrenata del tempo che porta alla perdita di senso e valore o è questa seconda che causa la prima?

Per Byung-Chul Han è la perdita del senso dell’esistenza che innesca un processo di velocizzazione estrema, quasi che l’uomo, smarrito (di fronte alla scomparsa, anzi alla morte stessa di Dio) e senza ragioni assolute (nel senso di metafisiche) per vivere, volesse stordirsi, ubriacarsi per continuare a vivere.

Io credo che questa tesi sia francamente esagerata: penso piuttosto che l’un fattore provochi l’altro e viceversa e che entrambi si rafforzino a vicenda.

Lo smarrimento dell’uomo di fronte alla morte di Dio provoca la sua esigenza di ubriacatura e velocizzazione estrema dell’esistenza.

Ma questa, a sua volta, rende impossibile all’uomo, incapace di fermarsi e di “indugiare sulle cose” (per usare un’espressione di Byung-Chul Han), di trovare un senso nelle cose.

Nella sua riflessione/meditazione Byug-Chul Han incontra molti pensatori e si confronta con loro. In modo particolare Aristotele, Agostino, Gregorio Magno, Tommaso d’Aquino, Marx, Heidegger, Proust, Arendt, Bauman.

Particolarmente interessante trovo la polemica che egli sviluppa con Marx e la Arendt a proposito di vita attiva e vita contemplativa, di homo laborans e homo meditans.

Come sappiamo, la Arendt esalta la vita attiva rispetto alla vita contemplativa, così come Marx esaltò l’homo laborans in quanto creatore di se stesso.

Per contro Byung-Chul Han afferma la necessità di una vita contemplativa che si affianchi alla vita attiva (tesi a suo tempo già sostenuta da Gregorio Magno) e sia capace di darle senso e significato.

La frase che ne riassume il pensiero mi sembra la seguente: “La vita contemplativa senza azione è cieca. La vita activa senza contemplazione è vuota” (pag, 129)

A Marx Byung-Chul Han contesta l’unilateralità del suo concetto di liberazione del lavoratore. Pe Marx la liberazione del lavoratore sembra consistere essenzialmente (se non proprio esclusivamente) nella riappropriazione del prodotto del suo lavoro. E, quindi, nella sua emancipazione dallo sfruttamento del capitalista.

Per Byung-Chul Han la liberazione dell’homo laborans non può consistere solo in quello che sosteneva Marx. Perché il lavoratore, una volta liberatosi dal giogo capitalista, corre il rischio di diventare schiavo del suo stesso lavoro (oltre che del prodotto del suo lavoro, in quanto consumatore acritico).

Per Byun-Chul Han ci sarà vera e piena liberazione dell’homo laborans quando egli sarà capace di recuperare la dimensione della scholé (tempo libero, contrapposto all’a-scolia, cioè il tempo occupato dal lavoro)e del bios theoretikos di Aristotele; e quella dell’otium (contrapposto al negotium, cioè il  nec-otium) degli antichi romani.

Quando l’otium non sarà più inteso come una semplice pausa/riposo rispetto all’attività ritenuta anche da Marx fondamentale e centrale del lavoro (che detta anche i tempi dell’intera esistenza dell’uomo), ma sarà, anzi, l’attività principale, quella che lo rende propriamente uomo, in quanto tempo dedicato alla sua attività più specificamente umana: quella teorica, del pensiero, della contemplatio veritatis.

Giovanni Lamagna