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La prima risposta (o non risposta) alla domanda di senso.
29 giugno 2015
La prima risposta (o non risposta) alla domanda di senso.
In che modo si può rispondere alla domanda: che senso ha la vita, anzi che senso ha la mia vita?
Che per me è una delle due domande fondamentali (nel senso che sono a “fondamento” di tutte le altre) e che ho definito, in una precedente riflessione, la domanda “verticale”.
Per distinguerla da quella “orizzontale”, che più o meno si chiede: come posso rimediare alla sensazione di abbandono, di disunione, che vivo dal momento in cui, con la nascita, mi sono separato da mia madre?
Le soluzioni sono le più varie. Le ha indicate bene Fromm, in particolare nel suo libro “L’arte di amare” (1953; pg. 24 – 36), ed ha ragione a dire che esse fanno parte della storia delle religioni prima e delle filosofie dopo.
Provo a sintetizzarle e a darne una mia personale lettura. In questa riflessione mi soffermerò su quella che considero la prima risposta o (meglio) “non risposta”.
Infatti alla domanda “verticale”, da cui siamo partiti, si può anche non rispondere. Nel senso che la si può evadere, rimuovere, cancellare. E’ esattamente quello che fa la maggior parte degli esseri umani.
E campa lo stesso. Sopravvive. Almeno dal punto di vista organico, fisiologico.
D’altra parte manco gli altri animali, del cui genere noi facciamo parte (non lo dimentichiamo!), questa domanda se la pongono. E campano (bene) lo stesso. Con la differenza, però, che essi ne sono incapaci. Mentre gli uomini (almeno in potenza) ne sono capaci.
La domanda di cui stiamo parlando non fa parte della “storia” degli animali. Che, a dire il vero e a rigore di termini, non hanno nemmeno una “storia”, proprio perché sono incapaci di porsi questa domanda. La “storia” nasce, infatti, nel momento in cui l’uomo (e, per quanto ne sappiamo, solo l’uomo) comincia a porsi questa domanda.
La storia è, infatti, evoluzione, cambiamento, progresso. E non c’è progresso, cambiamento, evoluzione laddove non c’è coscienza, una domanda su di sé e sulla propria direzione di marcia.
Non c’è marcia, vera marcia, laddove si è incapaci di darsi una rotta, una direzione consapevoli.
Cosa succede dunque agli uomini i quali non si pongono mai questa domanda o se la pongono di rado e molto superficialmente e subito la rimuovono, l’accantonano, come se fosse una domanda inutile, senza senso, che li distrae dalle vere incombenze, quelle pratiche, quelle legate al vivere quotidiano?
Apparentemente non succede nulla. In realtà succede molto.
Succede che l’uomo si condanna in questo modo a vivere una vita superficiale (nel senso letterale – e non solo morale – del termine), una vita tutta legata alle questioni cosiddette pratiche, di pura sussistenza.
In questo modo l’uomo sopra-vive, piuttosto che vivere. E’ trascinato dalla corrente del vivere, piuttosto che decidere (lui e non il caso o gli avvenimenti) quale direzione dare alla propria vita.
All’uomo che ha scelto di vivere così succede poi di avvertire una costante (a volte sottile e leggera, a volte grave e pesante) inquietudine, di cui egli non sa darsi ragione (visto che manco si pone certe domande) e che non lo rende non diciamo felice ma neanche veramente sereno.
Anche quando le condizioni esterne non sembrano giustificare il suo malessere (più o meno latente, più o meno avvertito). Perché, magari, ha una posizione sociale importante, una situazione economica di tutta tranquillità, delle persone che gli vogliono bene, sta bene in salute… E però non è contento, non è soddisfatto lo stesso.
Talvolta questa insoddisfazione arriva a tradursi in sintomi fisici ed allora anche la cosiddetta “salute” va in crisi: in questo caso il corpo si conforma alla mente. I medici chiamati a guarire la malattia organica spesso non la sanno spiegare. Per guarire, il soggetto in esame dovrebbe affrontare altri livelli di patologia. Ma il più delle volte i medici guardano solo al corpo, non considerano “l’anima”. Mentre è proprio qui il problema. E allora il “malato”, non certo aiutato dalla “medicina” ufficiale, si avvita in un circolo vizioso.
L’uomo, che non dà una risposta alla domanda di senso che riguarda la sua vita, si condanna, infine, a una vita a bassa intensità emotiva, affettiva, intellettuale e, quindi, spirituale.
Egli vive magari una vita esteriore estremamente frenetica, ad alta intensità dal punto di vista del movimento fisico, dell’agire pratico, delle azioni (molteplici e veloci) che compie. Ma dentro è sostanzialmente fermo.
E’ freddo emotivamente, incapace di stabilire relazioni autentiche e profonde (che non siano di puro possesso, attaccamento e dipendenza), è intellettualmente inattivo, poco o per nulla interessato alla cultura , scarsamente creativo, se non dal punto di vista della produzione della ricchezza materiale (talvolta e manco sempre).
E più inquieto è (perché evade certe domande) più è portato ad evaderle (perché esse lo rendono inquieto). In questo modo si attorciglia in un circolo vizioso.
Allora ha bisogno di stordirsi, di distrarsi, per evadere le domande scomode che ogni tanto affiorano alla sua sia pur assopita coscienza.
Ecco spiegati allora i rumori assordanti e la velocità estrema che caratterizzano la nostra epoca, almeno di noi uomini occidentali.
Perché questa evasione è sempre stata un modo di rispondere alla domanda di senso, in tutte le epoche storiche e in tutte le latitudini geografiche. Ma lo è in modo particolare oggi o, meglio, da un paio di secoli a questa parte e in questa zona del mondo, che siamo soliti definire “Occidente”. Da quando in questi territori ha avuto inizio e sviluppo la cosiddetta “rivoluzione industriale”.
Con tutti i progressi (in termini soprattutto tecnologici, scientifici e, quindi, economici), ma anche con tutti gli esiti nefasti (soprattutto in termini di distruzione dell’ambiente naturale e, per conseguenza, anche antropologici e psicologici), che essa ha comportato.
Giovanni Lamagna