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E’ vera arte?
Reputo molta arte (o cosiddetta arte) contemporanea figlia di una sorta di solipsismo e di autoreferenzialità, perché incapace di (o, addirittura, indifferente a) comunicare realmente con lo spettatore (medio) dell’opera (che si vorrebbe) artistica.
Spettatore, che, a sua volta, in molti casi, si convince del “bello” che ha di fronte, solo grazie agli effetti (mi verrebbe di dire allucinogeni e perciò manipolatori) di un mercato impazzito.
Orientato da critici ed “esperti”, più o meno interessati, che “creano”, “inventano” l’artista piuttosto che limitarsi a scoprirne e valorizzarne il talento.
Probabilmente è sempre stato così, anche in altre epoche storiche. Tanto è vero che alcuni “artisti”, esaltati in vita, oggi nessuno se li ricorda più. Ed artisti, ignorati o addirittura disprezzati in vita, sono stati riscoperti a distanza di anni e, in alcuni casi, giudicati universalmente addirittura dei geni, autori di veri capolavori.
E’ sempre stato così, ma probabilmente oggi (in un’epoca nella quale la pubblicità è in grado di inventare di sana pianta il valore delle cose, attribuendolo anche a cose del tutto effimere e, in certi casi, perfino dannose) questo succede ancora di più.
Giovanni Lamagna
Quando un rapporto può dirsi pienamente riuscito?
Un rapporto (un qualsiasi rapporto, non solo un rapporto cosiddetto d’amore, anche un rapporto di “semplice” amicizia) può dirsi pienamente riuscito quando ciascuno dei due componenti del rapporto è stato capace di andare al cuore dell’altro, dentro al cuore dell’altro, con un movimento reciproco, uguale e contrario, dell’uno verso l’altro e viceversa.
Ma cosa vuol dire “andare al cuore dell’altro”? Non è cosa facile da definire, ma ci provo lo stesso.
Vuol dire cogliere il segreto dell’altro, quel segreto che è nascosto in ognuno di noi.
Significa, quindi, cogliere il mistero dell’altro, la sua parte nascosta, a volte nascosta persino a lui stesso.
Significa attraversare tutte le molteplici “stanze” che formano il suo “appartamento” interiore e andare in quella che è in fondo a tutte, quella che non si fa visitare di solito agli ospiti, manco a quelli più intimi, quella dove di solito si vive da soli, la stanza più privata e meno pubblica.
Significa cogliere dell’altro l’essenza, quel quid che lo fa unico, che lo rende riconoscibile in mezzo a milioni di persone.
Significa cogliere il suo daimon, la sua vocazione, il suo talento naturale, a volte solo potenziale e mai realizzato del tutto.
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Se “andare al cuore dell’altro” significa tutto questo, allora si capisce perché è così raro che un rapporto possa dirsi pienamente riuscito.
Perché questo avvenga è, infatti, necessario che io abbia la curiosità di esplorare l’altro fino in fondo, di non fermarmi alla sua superficie, alla prima immagine che di lui mi viene in evidenza.
Che abbia quindi la capacità di correre il rischio di scoprire cose di lui che non sospettavo, cose che potrebbero arrivare ad inquietarmi e, perfino, non piacermi.
Consapevole, però, che anche la scoperta più sgradevole non potrà diminuire o ledere comunque il piacere legato alla scoperta in sé.
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Parallelamente, in questo cammino di scoperta dell’altro, io, inevitabilmente, non potrò fare a meno di scoprire sempre nuove zone di me.
Perché nessuno può conoscere un altro, se non è disponibile e se non ha imparato a conoscere prima di tutto se stesso.
In fondo, ogni conoscenza esterna è (anche, se non prima di tutto) una conoscenza interna.
Se ho delle resistenze a fare questo, allora anche la mia conoscenza dell’altro si fermerà fino ad un certo punto, se non proprio alla sua superficie.
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Ovviamente, dal momento che un rapporto è costituito da due persone, perché un rapporto possa dirsi riuscito occorre che il movimento, che sono stato disponibile a e capace di compiere io, sia stato disponibile a e capace di compierlo anche l’altro.
Non basta che sia uno dei due ad “andare nel cuore dell’altro”. Occorre che anche l’altro lo faccia. Se lo ha fatto solo uno dei due, il rapporto non è comunque riuscito, non si è pienamente realizzato. E’ un rapporto incompleto.
Per cui (lo ripeto ancora una volta al termine di questa breve riflessione), se per poter avere un rapporto riuscito occorrono tutte queste condizioni, si capisce allora perché è così raro che un rapporto possa dirsi pienamente riuscito.
Giovanni Lamagna
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P. S. Ho riletto a distanza di tempo questo testo, prima di pubblicarlo: lo avevo, infatti, pensato e scritto alcuni mesi fa. E sento il bisogno di rettificare un concetto in esso contenuto: La mia nuova riflessione, che modifica, in parte almeno, la precedente, la formulo così: non si arriva mai a conoscere dell’altro “l’ultima stanza”.
Per il semplice motivo che non esiste un’ultima stanza. Ciascuno di noi è fatto di un numero pressoché infinito di stanze.
Quando pensiamo di essere arrivati all’ultima stanza, prima o poi si aprirà nel muro di confine “ultimo” un nuovo varco e una nuova porta, che darà accesso ad una nuova stanza.
La nostra conoscenza dell’altro, dunque, come del resto anche la conoscenza di noi stessi, è sempre una conoscenza provvisoria e, quindi, incompleta, in fondo parziale. Resterà sempre una zona misteriosa, ancora sconosciuta e da scoprire.
Forse allora il rapporto pienamente riuscito non è il rapporto in cui non mi resta più nulla da scoprire dell’altro, perché sono giunto al cuore del suo cuore, ma quello in cui restano sempre vivi, palpitanti, la voglia, il desiderio, di scoprire nuove dimensioni dell’altro.
Che poi è esattamente ciò che costituisce il fascino, il piacere, la gioia di un rapporto e che gli impedisce (cosa, a dire il vero, più unica che rara) di scadere nella noia, nella ruotine, nel ripetitivo mortale.
Giovanni Lamagna
Gli uomini si dividono in due categorie: quelli ordinari e quelli straordinari.
Più o meno a metà del suo grande romanzo “Delitto e castigo”, Dostoevskij fa dire al protagonista del suo racconto, Raskol’nikov, le seguenti parole che riporto integralmente:
“… gli uomini, per una legge della natura, si dividono sempre in due categorie: in quella inferiore (gli uomini ordinari), ovvero per così dire il materiale, che serve per riprodurre solo suoi simili, e gli uomini veri e propri, ovvero quelli che hanno il dono o il talento di dire al proprio mondo una parola nuova. E’ chiaro che vi possono essere infinite suddivisioni, ma ognuna di queste categorie ha dei tratti suoi piuttosto definiti: la prima categoria, ovvero per dirla in modo generico il materiale, è fatta di persone per loro natura conservatrici, rispettose, che vivono in obbedienza e amano essere obbedienti. E, secondo me, costoro hanno anche il dovere di essere obbedienti, perché questa è la loro funzione e in questo non vi è nulla di umiliante. Nella seconda categoria tutti violano la legge, sono dei distruttori, o comunque sono portati ad esserlo, a giudicare dalle loro capacità. I delitti di queste persone, naturalmente, sono relativi e svariati: la maggior parte richiede, con varie formulazioni, la distruzione del presente in nome di un futuro migliore. Ma se qualcuno di loro, per realizzare la sua idea, ha bisogno di passare sul corpo di qualcuno, di versare del sangue, be’, secondo me egli dentro di sé in coscienza ha diritto a decidere di versare quel sangue, ma questo, notate bene, a seconda anche dell’idea e della sua importanza. E solo in questo senso… io parlo del loro diritto al crimine… E comunque, non c’è da allarmarsi: la massa di gente non gli riconosce mai questo diritto, li giustizia e li impicca (più o meno) e lo fa con buone ragioni, compiendo in questo modo la propria funzione conservatrice, anche se poi nella generazione successiva questa stessa massa si inchinerà a coloro che erano stati giustiziati e innalza loro monumenti (più o meno). Alla prima categoria appartiene il signore del presente, alla seconda il signore del futuro. I primi conservano il mondo e lo accrescono numericamente, i secondi muovono il mondo e lo guidano alla meta. Sia gli uni che gli altri hanno lo stesso diritto a esistere. Insomma, hanno tutti pari diritto…
Di uomini con idee veramente nuove, o anche solo capaci di dire qualcosa di nuovo, ne nascono estremamente pochi, è persino strano quanto siano pochi. Ma è chiara una cosa, che l’ordine in cui nascono le persone di tutte queste categorie e sottocategorie deve dipendere in modo esatto e preciso da una legge di natura. Ovviamente questa legge ancora non la conosciamo, ma io credo davvero che esista e forse in futuro riusciremo a scoprirla. L’enorme massa degli uomini, il materiale, esiste solo per riuscire ad arrivare alla fine mediante un certo sforzo, mediante un processo che è tuttora misterioso, attraverso un incrocio di specie e di razze, a generare una persona, sia pure una su mille, dotata di un po’ di spirito d’indipendenza. E di persone con un grado ancora maggiore d’indipendenza, una su centomila. Ma di uomini geniali ne nascono solo uno su milioni, e di grandi geni, di figure che hanno portato a un perfezionamento dell’umanità, be’, ne potrà nascere uno solo dopo che siano passate sulla faccia della terra migliaia di milioni di persone. Insomma, ovviamente non ho guardato nell’ampolla da cui tutto ha origine, ma certamente alla base di tutto ciò c’è e ci deve essere senz’altro una legge della natura, non può essere frutto del caso.”
Trovo questa pagina di Dostoevsky di una densità e profondità fenomenali. Potrà piacere o meno, qualcuno la potrà trovare addirittura ributtante, ma a mio avviso non si può negare che essa descriva la realtà del mondo così com’è e che in ogni caso riveli una straordinaria conoscenza dell’animo umano.
Ritrovo in essa tracce del pensiero di Schopenhauer e di Darwin, forse persino di Malthus; e anticipazioni di quello di Nietzsche.
Ora vorrei provare a darne una mia personale lettura.
Condivido in buona sostanza l’idea che gli uomini si dividano (almeno così si sono suddivisi nel corso della storia che abbiamo conosciuto finora) in due categorie: quelli “ordinari”, che hanno esclusivamente (o quasi: a voler essere un po’ meno radicali) il compito di assicurare la riproduzione e quindi la continuità della specie; e quelli “straordinari”, capaci di dire al “mondo una parola nuova”.
I primi sono sostanzialmente dei conservatori, dei conformisti: il loro compito primario, se non proprio esclusivo, è quello di garantire la stabilità sociale.
I secondi sono degli innovatori. A voler usare due termini della politica contemporanea potremmo dire che sono dei riformisti (nella loro versione più moderata) o dei rivoluzionari (nella loro versione più radicale). Ma in entrambi i casi sono degli uomini che non si accontentano del presente, bensì aspirano a “un futuro migliore”.
Ora questa distinzione potrà piacerci o meno: a me personalmente non piace; preferirei un mondo e un’umanità diversi. Ma è difficile contestare che essa corrisponda alla realtà. Io, perlomeno, non riesco a contestarlo.
Dostoevskij fa dire a Raskol’nikov che i secondi, gli innovatori, essendo degli uomini speciali, hanno diritto a compiere azioni criminose, a passare sul corpo degli altri e a versare il loro sangue, per affermare la loro idea di cambiamento.
E su questo, invece, non mi trovo d’accordo. Perché penso 1) che il cambiamento (anche quando è necessario, anche quando non è più rinviabile) debba avvenire auspicabilmente senza versamento di sangue e 2) che nessuno abbia diritto a spargere il sangue degli altri per affermare il cambiamento desiderato.
Inoltre ritengo 1) che gli uomini “straordinari” non debbano approfittare in nessun modo dei talenti, che ha loro fornito la natura, per sottoporre gli altri uomini e tenerli in uno stato di inferiorità, come se questa fosse una condizione immodificabile e 2) che sia compito imprescindibile degli uomini “straordinari” quello di elevare il più possibile gli uomini “ordinari” al loro stesso livello.
La mia è, insomma, una concezione evolutiva (fiduciosamente progressista) e non statica (per non dire del tutto reazionaria), come (forse) era quella di Dostoevski.
E, tuttavia, mi è impossibile non riconoscere e prendere atto che la Storia (almeno fino ad ora) ha funzionato come Dostoevski fa dire a Raskol’nikov.
Allo stesso modo mi è impossibile non riconoscere come vere le successive affermazioni di Raskol’nikov. Che cioè la maggior parte dei profeti del cambiamento (a prescindere da fatto che siano stati sanguinari o meno; molti profeti non lo sono stati; Gesù, ad esempio, non lo era) siano stati osteggiati, perseguitati e in molti casi giustiziati mentre erano in vita. Per poi essere (in parecchi casi) riabilitati solo dopo la loro morte.
E che, se il mondo si muove, se il mondo avanza e fa dei progressi, lo deve esclusivamente ai “signori del futuro” (il più delle volte osteggiati in vita e spesso condannati a morte), non certo ai “signori del presente” (che muoiono quasi tutti nel loro letto).
“Di uomini che nascono con idee veramente nuove… ne nascono estremamente pochi” – dice ancora Dostoevskij (attraverso Raskol’nikov) – è persino strano quanto siano pochi.”
Secondo il grande scrittore russo ciò deve dipendere addirittura “da una legge di natura.” “Ovviamente questa legge ancora non la conosciamo, ma – egli dice – io credo davvero che esista e forse in futuro riusciremo a scoprirla.”
E chi può eccepire una tale affermazione?
Impressionante, infine, la graduatoria che Dostoevskij fa della gamma degli uomini straordinari con le sue varie sfumature:
1) quelli che hanno “un po’ di spirito d’indipendenza”: ne nasce uno su mille;
2) quelli che hanno “un grado ancora maggiore d’indipendenza”: ne nasce uno su centomila;
3) gli uomini geniali: ne nasce solo uno su milioni;
4) i grandi geni, “figure che hanno portato a un perfezionamento dell’umanità”: ne potrà nascere uno solo tra migliaia di milioni di persone.
Ora potrete accusare Dostoevskij di darwinismo, perfino di malthusianesimo, di coltivare un pessimismo vagamente schopenhaueriano, di aver anticipato alcune idee nietzschiane sul Superuomo.
Ma non sarà facile smontare l’impianto fondamentale del suo ragionamento, che a me sembra del tutto condivisibile, perché pienamente corrispondente alla realtà, che ci piaccia o no, così come ci viene descritta dalla antropologia, dalla psicologia, dalla sociologia e dalla storia.
Giovanni Lamagna
Il talento e la scrittura.
Qualche tempo fa una mia amica ha postato sulla mia pagina facebook il seguente testo di David Foster Wallace, che desidero commentare:
“Ho scoperto che la disciplina più difficile nella scrittura è cercare di partecipare al gioco senza lasciarsi sopraffare dall’insicurezza, dalla vanità e dall’egocentrismo.
Mostrare al lettore che si è brillanti, spiritosi, pieni di talento e così via, cercare di piacere, sono cose che, anche lasciando da parte la questione dell’onestà, non hanno abbastanza calorie motivazionali per sostenere uno scrittore molto a lungo.
Devi disciplinarti e imparare a dar voce solo alla parte di te che ama le cose che scrivi, che ama il testo a cui stai lavorando.
Che ama e basta, forse.
Il talento è solo uno strumento.
È come avere una penna che scrive invece di una che non scrive.
Non sto dicendo che riesco costantemente a rimanere fedele a questi principi quando scrivo, ma mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre si nasconda nello scopo da cui è mosso il cuore di quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo.
Ha qualcosa a che fare con l’amore.
Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte di te che ama, invece che quella che vuole soltanto essere amata.”
Questo testo è bellissimo! Mi ci riconosco molto.
La prima affermazione che mi trova concorde: la scrittura è un gioco, va vissuta come un gioco. Come a dire: chi non la vive come un gioco non è un vero scrittore.
La seconda affermazione che mi trova concorde: nemici della scrittura sono l’insicurezza, la vanità e l’egocentrismo.
L’insicurezza si capisce bene perché è nemica della scrittura. Chi è insicuro di quello che scrive o, meglio, chi non ha un minimo di sfrontatezza nel mettere nero su bianco e farlo leggere agli altri non sarà mai uno scrittore.
Può sembrare, invece, che la vanità e perfino l’egocentrismo siano addirittura necessari per scrivere. E invece… Non lo sono affatto. Forse, stanno dietro la cattiva scrittura, quella inautentica, quella falsa. Non stanno, certo, dietro la buona scrittura.
E David Foster Wallace spiega bene perché, non ha certo bisogno di una mia chiosa.
La buona scrittura è, dunque, figlia di un equilibrio (non facile da realizzare, ma frutto di una certa disciplina) tra sicurezza, perfino sfrontatezza, e rinuncia alla vanità e all’egocentrismo.
La terza affermazione che mi trova concorde, forse ancora più delle altre due: la buona scrittura ha a che fare con l’amore, è figlia dell’amore, prima e più che del talento.
Il talento, cioè la capacità di mettere insieme le parole nel modo giusto, è solo lo strumento utile, anzi necessario. Come la penna che scrive rispetto ad una penna che non scrive.
Ma, se non si hanno cose da dire, non c’è penna che tenga, che basti. La penna, da sola, anche se è buona per scrivere, non è capace di scrivere niente, se chi la usa non ha delle cose da scrivere.
E le cose da scrivere, quelle buone, quelle che ha un senso scriverle, nascono da una necessità interiore. Non certo dall’esibizionismo o dal narcisismo o dalla vanità, cioè dal desiderio di farsi ammirare o applaudire.
E la necessità interiore è figlia dell’amore, dell’amore per la vita, che genera gioia, desiderio di esprimere all’esterno ciò che si ha dentro, di condividere con gli altri la luce che si è accesa dentro di noi in un certo istante, in un certo luogo.
O è figlia del dolore, che non è contraddittorio affatto, come si potrebbe pensare, con l’amore per la vita. Si soffre, infatti, perché si ama molto la vita e magari essa non ci dà le cose che da essa ci aspetteremmo o desidereremmo.
Gioia e dolore sono, dunque, le due facce di un’unica medaglia. Da esse nasce il più delle volte l’impulso creativo. Quindi anche l’impulso a scrivere.
@ Giovanni Lamagna