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E’ vera arte?

Reputo molta arte (o cosiddetta arte) contemporanea figlia di una sorta di solipsismo e di autoreferenzialità, perché incapace di (o, addirittura, indifferente a) comunicare realmente con lo spettatore (medio) dell’opera (che si vorrebbe) artistica.

Spettatore, che, a sua volta, in molti casi, si convince del “bello” che ha di fronte, solo grazie agli effetti (mi verrebbe di dire allucinogeni e perciò manipolatori) di un mercato impazzito.

Orientato da critici ed “esperti”, più o meno interessati, che “creano”, “inventano” l’artista piuttosto che limitarsi a scoprirne e valorizzarne il talento.

Probabilmente è sempre stato così, anche in altre epoche storiche. Tanto è vero che alcuni “artisti”, esaltati in vita, oggi nessuno se li ricorda più. Ed artisti, ignorati o addirittura disprezzati in vita, sono stati riscoperti a distanza di anni e, in alcuni casi, giudicati universalmente addirittura dei geni, autori di veri capolavori.

E’ sempre stato così, ma probabilmente oggi (in un’epoca nella quale la pubblicità è in grado di inventare di sana pianta il valore delle cose, attribuendolo anche a cose del tutto effimere e, in certi casi, perfino dannose) questo succede ancora di più.

Giovanni Lamagna

Quando un rapporto può dirsi pienamente riuscito?

Un rapporto (un qualsiasi rapporto, non solo un rapporto cosiddetto d’amore, anche un rapporto di “semplice” amicizia) può dirsi pienamente riuscito quando ciascuno dei due componenti del rapporto è stato capace di andare al cuore dell’altro, dentro al cuore dell’altro, con un movimento reciproco, uguale e contrario, dell’uno verso l’altro e viceversa.

Ma cosa vuol dire “andare al cuore dell’altro”? Non è cosa facile da definire, ma ci provo lo stesso.

Vuol dire cogliere il segreto dell’altro, quel segreto che è nascosto in ognuno di noi.

Significa, quindi, cogliere il mistero dell’altro, la sua parte nascosta, a volte nascosta persino a lui stesso.

Significa attraversare tutte le molteplici “stanze” che formano il suo “appartamento” interiore e andare in quella che è in fondo a tutte, quella che non si fa visitare di solito agli ospiti, manco a quelli più intimi, quella dove di solito si vive da soli, la stanza più privata e meno pubblica.

Significa cogliere dell’altro l’essenza, quel quid che lo fa unico, che lo rende riconoscibile in mezzo a milioni di persone.

Significa cogliere il suo daimon, la sua vocazione, il suo talento naturale, a volte solo potenziale e mai realizzato del tutto.

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Se “andare al cuore dell’altro” significa tutto questo, allora si capisce perché è così raro che un rapporto possa dirsi pienamente riuscito.

Perché questo avvenga è, infatti, necessario che io abbia la curiosità di esplorare l’altro fino in fondo, di non fermarmi alla sua superficie, alla prima immagine che di lui mi viene in evidenza.

Che abbia quindi la capacità di correre il rischio di scoprire cose di lui che non sospettavo, cose che potrebbero arrivare ad inquietarmi e, perfino, non piacermi.

Consapevole, però, che anche la scoperta più sgradevole non potrà diminuire o ledere comunque il piacere legato alla scoperta in sé.

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Parallelamente, in questo cammino di scoperta dell’altro, io, inevitabilmente, non potrò fare a meno di scoprire sempre nuove zone di me.

Perché nessuno può conoscere un altro, se non è disponibile e se non ha imparato a conoscere prima di tutto se stesso.

In fondo, ogni conoscenza esterna è (anche, se non prima di tutto) una conoscenza interna.

Se ho delle resistenze a fare questo, allora anche la mia conoscenza dell’altro si fermerà fino ad un certo punto, se non proprio alla sua superficie.

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Ovviamente, dal momento che un rapporto è costituito da due persone, perché un rapporto possa dirsi riuscito occorre che il movimento, che sono stato disponibile a e capace di compiere io, sia stato disponibile a e capace di compierlo anche l’altro.

Non basta che sia uno dei due ad “andare nel cuore dell’altro”. Occorre che anche l’altro lo faccia. Se lo ha fatto solo uno dei due, il rapporto non è comunque riuscito, non si è pienamente realizzato. E’ un rapporto incompleto.

Per cui (lo ripeto ancora una volta al termine di questa breve riflessione), se per poter avere un rapporto riuscito occorrono tutte queste condizioni, si capisce allora perché è così raro che un rapporto possa dirsi pienamente riuscito.

Giovanni Lamagna

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P. S.  Ho riletto a distanza di tempo questo testo, prima di pubblicarlo: lo avevo, infatti, pensato e scritto alcuni mesi fa. E sento il bisogno di rettificare un concetto in esso contenuto: La mia nuova riflessione, che modifica, in parte almeno, la precedente, la formulo così: non si arriva mai a conoscere dell’altro “l’ultima stanza”.

Per il semplice motivo che non esiste un’ultima stanza. Ciascuno di noi è fatto di un numero pressoché infinito di stanze.

Quando pensiamo di essere arrivati all’ultima stanza, prima o poi si aprirà nel muro di confine “ultimo” un nuovo varco e una nuova porta, che darà accesso ad una nuova stanza.

La nostra conoscenza dell’altro, dunque, come del resto anche la conoscenza di noi stessi, è sempre una conoscenza provvisoria e, quindi, incompleta, in fondo parziale. Resterà sempre una zona misteriosa, ancora sconosciuta e da scoprire.

Forse allora il rapporto pienamente riuscito non è il rapporto in cui non mi resta più nulla da scoprire dell’altro, perché sono giunto al cuore del suo cuore, ma quello in cui restano sempre vivi, palpitanti, la voglia, il desiderio, di scoprire nuove dimensioni dell’altro.

Che poi è esattamente ciò che costituisce il fascino, il piacere, la gioia di un rapporto e che gli impedisce (cosa, a dire il vero, più unica che rara) di scadere nella noia, nella ruotine, nel ripetitivo mortale.

Giovanni Lamagna

Gli uomini si dividono in due categorie: quelli ordinari e quelli straordinari.

Più o meno a metà del suo grande romanzo “Delitto e castigo”, Dostoevskij fa dire al protagonista del suo racconto, Raskol’nikov, le seguenti parole che riporto integralmente:

… gli uomini, per una legge della natura, si dividono sempre in due categorie: in quella inferiore (gli uomini ordinari), ovvero per così dire il materiale, che serve per riprodurre solo suoi simili, e gli uomini veri e propri, ovvero quelli che hanno il dono o il talento di dire al proprio mondo una parola nuova. E’ chiaro che vi possono essere infinite suddivisioni, ma ognuna di queste categorie ha dei tratti suoi piuttosto definiti: la prima categoria, ovvero per dirla in modo generico il materiale, è fatta di persone per loro natura conservatrici, rispettose, che vivono in obbedienza e amano essere obbedienti. E, secondo me, costoro hanno anche il dovere di essere obbedienti, perché questa è la loro funzione e in questo non vi è nulla di umiliante. Nella seconda categoria tutti violano la legge, sono dei distruttori, o comunque sono portati ad esserlo, a giudicare dalle loro capacità. I delitti di queste persone, naturalmente, sono relativi e svariati: la maggior parte richiede, con varie formulazioni, la distruzione del presente in nome di un futuro migliore. Ma se qualcuno di loro, per realizzare la sua idea, ha bisogno di passare sul corpo di qualcuno, di versare del sangue, be’, secondo me egli dentro di sé in coscienza ha diritto a decidere di versare quel sangue, ma questo, notate bene, a seconda anche dell’idea e della sua importanza. E solo in questo senso… io parlo del loro diritto al crimine… E comunque, non c’è da allarmarsi: la massa di gente non gli riconosce mai questo diritto, li giustizia e li impicca (più o meno) e lo fa con buone ragioni, compiendo in questo modo la propria funzione conservatrice, anche se poi nella generazione successiva questa stessa massa si inchinerà a coloro che erano stati giustiziati e innalza loro monumenti (più o meno). Alla prima categoria appartiene il signore del presente, alla seconda il signore del futuro. I primi conservano il mondo e lo accrescono numericamente, i secondi muovono il mondo e lo guidano alla meta. Sia gli uni che gli altri hanno lo stesso diritto a esistere. Insomma, hanno tutti pari diritto…

Di uomini con idee veramente nuove, o anche solo capaci di dire qualcosa di nuovo, ne nascono estremamente pochi, è persino strano quanto siano pochi. Ma è chiara una cosa, che l’ordine in cui nascono le persone di tutte queste categorie e sottocategorie deve dipendere in modo esatto e preciso da una legge di natura. Ovviamente questa legge ancora non la conosciamo, ma io credo davvero che esista e forse in futuro riusciremo a scoprirla. L’enorme massa degli uomini, il materiale, esiste solo per riuscire ad arrivare alla fine mediante un certo sforzo, mediante un processo che è tuttora misterioso, attraverso un incrocio di specie e di razze, a generare una persona, sia pure una su mille, dotata di un po’ di spirito d’indipendenza. E di persone con un grado ancora maggiore d’indipendenza, una su centomila. Ma di uomini geniali ne nascono solo uno su milioni, e di grandi geni, di figure che hanno portato a un perfezionamento dell’umanità, be’, ne potrà nascere uno solo dopo che siano passate sulla faccia della terra migliaia di milioni di persone. Insomma, ovviamente non ho guardato nell’ampolla da cui tutto ha origine, ma certamente alla base di tutto ciò c’è e ci deve essere senz’altro una legge della natura, non può essere frutto del caso.

Trovo questa pagina di Dostoevsky di una densità e profondità fenomenali. Potrà piacere o meno, qualcuno la potrà trovare addirittura ributtante, ma a mio avviso non si può negare che essa descriva la realtà del mondo così com’è e che in ogni caso riveli una straordinaria conoscenza dell’animo umano.

Ritrovo in essa tracce del pensiero di Schopenhauer e di Darwin, forse persino di Malthus; e anticipazioni di quello di Nietzsche.

Ora vorrei provare a darne una mia personale lettura.

Condivido in buona sostanza l’idea che gli uomini si dividano (almeno così si sono suddivisi nel corso della storia che abbiamo conosciuto finora) in due categorie: quelli “ordinari”, che hanno esclusivamente (o quasi: a voler essere un po’ meno radicali) il compito di assicurare la riproduzione e quindi la continuità della specie; e quelli “straordinari”, capaci di dire al “mondo una parola nuova”.

I primi sono sostanzialmente dei conservatori, dei conformisti: il loro compito primario, se non proprio esclusivo, è quello di garantire la stabilità sociale.

I secondi sono degli innovatori. A voler usare due termini della politica contemporanea potremmo dire che sono dei riformisti (nella loro versione più moderata) o dei rivoluzionari (nella loro versione più radicale). Ma in entrambi i casi sono degli uomini che non si accontentano del presente, bensì aspirano a “un futuro migliore”.

Ora questa distinzione potrà piacerci o meno: a me personalmente non piace; preferirei un mondo e un’umanità diversi. Ma è difficile contestare che essa corrisponda alla realtà. Io, perlomeno, non riesco a contestarlo.

Dostoevskij fa dire a Raskol’nikov che i secondi, gli innovatori, essendo degli uomini speciali, hanno diritto a compiere azioni criminose, a passare sul corpo degli altri e a versare il loro sangue, per affermare la loro idea di cambiamento.

E su questo, invece, non mi trovo d’accordo. Perché penso 1) che il cambiamento (anche quando è necessario, anche quando non è più rinviabile) debba avvenire auspicabilmente senza versamento di sangue e 2) che nessuno abbia diritto a spargere il sangue degli altri per affermare il cambiamento desiderato.

Inoltre ritengo 1) che gli uomini “straordinari” non debbano approfittare in nessun modo dei talenti, che ha loro fornito la natura, per sottoporre gli altri uomini e tenerli in uno stato di inferiorità, come se questa fosse una condizione immodificabile e 2) che sia compito imprescindibile degli uomini “straordinari” quello di elevare il più possibile gli uomini “ordinari” al loro stesso livello.

La mia è, insomma, una concezione evolutiva (fiduciosamente progressista) e non statica (per non dire del tutto reazionaria), come (forse) era quella di Dostoevski.

E, tuttavia, mi è impossibile non riconoscere e prendere atto che la Storia (almeno fino ad ora) ha funzionato come Dostoevski fa dire a Raskol’nikov.

Allo stesso modo mi è impossibile non riconoscere come vere le successive affermazioni di Raskol’nikov. Che cioè la maggior parte dei profeti del cambiamento (a prescindere da fatto che siano stati sanguinari o meno; molti profeti non lo sono stati; Gesù, ad esempio, non lo era) siano stati osteggiati, perseguitati e in molti casi giustiziati mentre erano in vita. Per poi essere (in parecchi casi) riabilitati solo dopo la loro morte.

E che, se il mondo si muove, se il mondo avanza e fa dei progressi, lo deve esclusivamente ai “signori del futuro” (il più delle volte osteggiati in vita e spesso condannati a morte), non certo ai “signori del presente” (che muoiono quasi tutti nel loro letto).

“Di uomini che nascono con idee veramente nuove… ne nascono estremamente pochi” – dice ancora Dostoevskij (attraverso Raskol’nikov) – è persino strano quanto siano pochi.”

Secondo il grande scrittore russo ciò deve dipendere addirittura “da una legge di natura.” “Ovviamente questa legge ancora non la conosciamo, ma – egli dice – io credo davvero che esista e forse in futuro riusciremo a scoprirla.”

E chi può eccepire una tale affermazione?

Impressionante, infine, la graduatoria che Dostoevskij fa della gamma degli uomini straordinari con le sue varie sfumature:

1) quelli che hanno “un po’ di spirito d’indipendenza”: ne nasce uno su mille;

2) quelli che hanno “un grado ancora maggiore d’indipendenza”: ne nasce uno su centomila;

3) gli uomini geniali: ne nasce solo uno su milioni;

4) i grandi geni, “figure che hanno portato a un perfezionamento dell’umanità”: ne potrà nascere uno solo tra migliaia di milioni di persone.

Ora potrete accusare Dostoevskij di darwinismo, perfino di malthusianesimo, di coltivare un pessimismo vagamente schopenhaueriano, di aver anticipato alcune idee nietzschiane sul Superuomo.

Ma non sarà facile smontare l’impianto fondamentale del suo ragionamento, che a me sembra del tutto condivisibile, perché pienamente corrispondente alla realtà, che ci piaccia o no, così come ci viene descritta dalla antropologia, dalla psicologia, dalla sociologia e dalla storia.

Giovanni Lamagna

Il talento e la scrittura.

Qualche tempo fa una mia amica ha postato sulla mia pagina facebook il seguente testo di David Foster Wallace, che desidero commentare:

“Ho scoperto che la disciplina più difficile nella scrittura è cercare di partecipare al gioco senza lasciarsi sopraffare dall’insicurezza, dalla vanità e dall’egocentrismo.

Mostrare al lettore che si è brillanti, spiritosi, pieni di talento e così via, cercare di piacere, sono cose che, anche lasciando da parte la questione dell’onestà, non hanno abbastanza calorie motivazionali per sostenere uno scrittore molto a lungo.

Devi disciplinarti e imparare a dar voce solo alla parte di te che ama le cose che scrivi, che ama il testo a cui stai lavorando.

Che ama e basta, forse.

Il talento è solo uno strumento.

È come avere una penna che scrive invece di una che non scrive.

Non sto dicendo che riesco costantemente a rimanere fedele a questi principi quando scrivo, ma mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre si nasconda nello scopo da cui è mosso il cuore di quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo.

Ha qualcosa a che fare con l’amore.

Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte di te che ama, invece che quella che vuole soltanto essere amata.”

Questo testo è bellissimo! Mi ci riconosco molto.

La prima affermazione che mi trova concorde: la scrittura è un gioco, va vissuta come un gioco. Come a dire: chi non la vive come un gioco non è un vero scrittore.

La seconda affermazione che mi trova concorde: nemici della scrittura sono l’insicurezza, la vanità e l’egocentrismo.

L’insicurezza si capisce bene perché è nemica della scrittura. Chi è insicuro di quello che scrive o, meglio, chi non ha un minimo di sfrontatezza nel mettere nero su bianco e farlo leggere agli altri non sarà mai uno scrittore.

Può sembrare, invece, che la vanità e perfino l’egocentrismo siano addirittura necessari per scrivere. E invece… Non lo sono affatto. Forse, stanno dietro la cattiva scrittura, quella inautentica, quella falsa. Non stanno, certo, dietro la buona scrittura.

E David Foster Wallace spiega bene perché, non ha certo bisogno di una mia chiosa.

La buona scrittura è, dunque, figlia di un equilibrio (non facile da realizzare, ma frutto di una certa disciplina) tra sicurezza, perfino sfrontatezza, e rinuncia alla vanità e all’egocentrismo.

La terza affermazione che mi trova concorde, forse ancora più delle altre due: la buona scrittura ha a che fare con l’amore, è figlia dell’amore, prima e più che del talento.

Il talento, cioè la capacità di mettere insieme le parole nel modo giusto, è solo lo strumento utile, anzi necessario. Come la penna che scrive rispetto ad una penna che non scrive.

Ma, se non si hanno cose da dire, non c’è penna che tenga, che basti. La penna, da sola, anche se è buona per scrivere, non è capace di scrivere niente, se chi la usa non ha delle cose da scrivere.

E le cose da scrivere, quelle buone, quelle che ha un senso scriverle, nascono da una necessità interiore. Non certo dall’esibizionismo o dal narcisismo o dalla vanità, cioè dal desiderio di farsi ammirare o applaudire.

E la necessità interiore è figlia dell’amore, dell’amore per la vita, che genera gioia, desiderio di esprimere all’esterno ciò che si ha dentro, di condividere con gli altri la luce che si è accesa dentro di noi in un certo istante, in un certo luogo.

O è figlia del dolore, che non è contraddittorio affatto, come si potrebbe pensare, con l’amore per la vita. Si soffre, infatti, perché si ama molto la vita e magari essa non ci dà le cose che da essa ci aspetteremmo o desidereremmo.

Gioia e dolore sono, dunque, le due facce di un’unica medaglia. Da esse nasce il più delle volte l’impulso creativo. Quindi anche l’impulso a scrivere.

@ Giovanni Lamagna

Recensione al libro di Raffaele Morelli Il talento; edizioni Riza

Recensione al libro di Raffaele Morelli Il talento; edizioni Riza

Non è un grande libro. Eppure alcuni spunti di riflessione comunque me li ha offerti. Quali?

1) Esiste un modo di scrivere (secondo me, il migliore, perché si avvicina alla creatività dell’artista) che è più da spettatore che da attore. Consiste, infatti, nell’aspettare che la scrittura si faccia da sé, quasi che essa in qualche modo preesistesse all’azione dello scrivere. Lo scrivere, in questo caso, è un eseguire ciò che un impulso interiore (quella che, appunto, gli artisti chiamano ispirazione) ci spinge a fare. E’ uno scrivere senza sforzo, dice Morelli; quasi come sotto dettatura, dico io.

2) Il talento non ha a che fare con la mente; o, meglio, non ha a che fare solo o soprattutto con la mente. Ha a che fare di più con l’intuizione, che è una facoltà legata all’esercizio della contemplazione più che del pensiero. La contemplazione è un pensiero caldo, è la sintesi di pensiero ed emozione, di pensiero e sentimento, di mente ed affettività. Il talento può essere colto in sé e sviluppato solo da chi ha un’attitudine contemplativa. Altrimenti rimane allo stadio di pura potenzialità. Ognuno di noi nasce con dei talenti. Ma non tutti li sviluppano. Perché non tutti diventano contemplativi, non tutti ricevono il dono della contemplazione o si aprono ad esso.

3) L’alchimista è colui che separa il sottile (mercurio) dallo spesso (piombo). Allo stesso modo l’uomo spirituale (che è l’unico uomo veramente realizzato) è colui che riesce a liberarsi il più possibile dai molteplici condizionamenti familiari e sociali e a esprimere la sua vera natura, quella primordiale, il talento, appunto.

4) La persona talentuosa è come un bambino, sempre pieno di curiosità, sempre aperto alle sorprese.

E’ il contrario della persona amante della routine, che ragiona per luoghi comuni, esponente del pensiero dominante. E’ altra cosa da come lo hanno fatto e voluto la famiglia di origine e il contesto sociale in cui è cresciuto. E’ l’uomo artefice di se stesso , che si è fatto da sé.

5) Per questo sarebbe bello, positivo, significativo che ognuno di noi ad un certo punto della propria vita potesse cambiare nome, cambiare il nome che ci hanno dato i nostri genitori ed acquisire, scegliersi un nome nuovo, quello più corrispondente alle proprie inclinazioni, quello che esprime meglio il proprio talento potenziale, perché esso diventi viatico dell’altro da sé che ognuno di noi è destinato a realizzare. Non è un caso, infatti, che, nei riti di iniziazione, i Maestri danno ai loro discepoli un nome nuovo.

6) Non si tratta di realizzare fini esterni a sé, né tanto meno di obbedire a comandi divini. Si tratta di diventare ciò che si è già in potenza, allo stesso modo di come il seme diventa pianta, magari passando per il marcire a cui lo costringe l’inverno.

7) Non si può scoprire la propria natura originaria, il proprio talento, se si ha paura del caos, del disordine primordiale, se, in qualche modo, non si è disposti a entrarci in contatto. Chi nella propria vita cerca solo l’ordine e la stabilità, sfuggendo il rischio e le tempeste, è destinato a rimanere ciò che lo hanno fatto i “suoi”, cioè la famiglia e l’ambiente d’origine. E’ destinato, quindi, a rimanere un prodotto di serie, senza il marchio della unicità e della originalità.

8) Quando non sai cosa decidere, non ti mettere a pensare, abbassa la soglia della coscienza, lascia che il tuo cervello vaghi quasi sonnambulo, bighellona, magari mettiti a passeggiare, sciogli il tuo corpo, allenta le tensioni…e vedrai che la soluzione, la scelta da fare ti apparirà all’improvviso, la voce interiore, come per magia, ti suggerirà la parola da pronunciare, il gesto da compiere, l’azione da fare…

9) Quando un essere vivente evolve, anche tutti gli altri esseri evolvono…il mio comportamento contribuisce a migliorare o peggiorare il mondo, come se esso avesse un’anima. (Morelli)

10) Il talento emerge quando mettiamo in discussione i nostri equilibri precedenti, quando abbandoniamo qualche falsa sicurezza nella quale ci siamo rifugiati, quando superiamo antiche paure. Se, invece, ci aggrappiamo alle vecchie sicurezze, se non siamo capaci di affrontare le paure con cui siamo stati allevati e cresciuti, rimaniamo dei mediocri.

11) Scrive Jung: In ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo e se non la realizziamo, la vita è sprecata. Questa essenza ha assunto, nelle varie tradizioni culturali, i nomi più diversi: volontà intelligente, guida o voce interiore, centro di sé, intelligenza innata, demone o genio ispiratore, anima, angelo custode, Maestro Interiore.

E’ il Talento, una “sostanza” che circola dentro ognuno di noi e che troppe volte ignoriamo di possedere. Peggio ancora, che molte volte ostacoliamo. Un po’ come se ci mettessimo in mente di impedire al sangue di circolare e a una pianta di fiorire…(Morelli)

12) Al talento si addice il silenzio. Il silenzio gli è congeniale. Infatti, il Maestro non parla o parla poco. Parla di più il suo silenzio. Egli ha fiducia che il talento dell’allievo si sviluppi da solo, magari nel caos, nel disordine, generato dal caos e dal disordine. Il Maestro, il vero Maestro non ha paura del caos e del disordine, perché sa che questi sono materia viva, pulsante, da cui solo può germogliare il talento del discepolo. Chi sa non parla; parla chi non sa… (Lao Tze)

13) Per incontrare la luce ci vuole l’abito adatto. Il mattino dovremmo vestirci lentamente, in modo consapevole, senza giudicarci, senza avere in mente modelli e…lasciarci vestire dal nostro stilista nascosto (Bauer)

14) L’entrare in contatto con la nostra essenza, con la nostra voce interiore non richiede sforzi particolari, anzi forse presuppone che molliamo le tensioni, un eccesso di controllo e di autocontrollo, presuppone che facciamo fluire la nostra energia interna. I sogni possono costituire dei luoghi privilegiati per entrare in contatto con l’ispirazione, con l’essenza di noi stessi.

15) Più cerchiamo di essere come gli altri, più cerchiamo di essere come gli altri ci vorrebbero, più la nostra natura, la nostra vera essenza cessa di parlare e allora cominciamo a stare male, cominciamo a soffrire.

16) Un tempo i Maestri ragionavano con l’intelligenza sintetica della natura, con quella che chiamerei l’intelligenza contemplativa, trasformavano le loro ricerche e le loro esperienze in concetti. Oggi tendiamo sempre più a separare la testa, la ragione dall’esperienza, siamo sempre meno in un atteggiamento contemplativo di fronte all’esistenza e sempre più in un atteggiamento filosofico e intellettuale.

17) Il nome che scegliamo è importante, è decisivo…”ad ogni persona che viene da me chiedo sempre se ha un secondo nome oltre a quello con cui si presenta…oppure un nome con cui le piacerebbe essere chiamata. Nei gruppi di autostima ho imparato che cambiare nome può portarci a compiere azioni che ci sembrerebbero impensabili da realizzare, con il nostro nome vero.” (Morelli)

18) Non bisogna sottovalutare mai il giorno del compleanno. Ogni compleanno in fondo rinasci, in fondo attivi il tuo embrione. (Bauer) Il giorno migliore in cui gli Dei possono venire a trovarti è quello in cui il tuo embrione, la tua vera natura, si riaccende, si riattiva. La festa di compleanno è una buona occasione per risvegliare gli dei sopiti dentro di noi.

19) Spesso desiderio e panico convivono, nello stesso istante.

20) Se puoi contraddirti, se puoi accettare in te la presenza di entrambi i lati delle cose, allora quello è un gran giorno: non ragioni più come gli altri, non stai da una parte o dall’altra come fanno tutti, incominci a trovare il baricentro. (Bauer)

21) Quando giri a vuoto i tuoi luoghi comuni, i tuoi pregiudizi, la tua visione della vita sfocano e, in quel momento, spesso ti senti perduto. Non sai che questo, spesso, è il buio che precede l’alba…Abbiamo bisogno di girare a vuoto perché la nostra mente è troppo ordinata: e allora un amico nascosto ci vuole distrarre dalle illusioni in cui ci siamo calati, ci vuole restituire la nostra essenzialità per riportarci a casa…Anche se il tuo lavoro di tutti i giorni raggiunge il successo che auspichi, ma tu sei diventato unilaterale, allora è il momento di cominciare a girare a vuoto, di perdere tempo, altrimenti il tuo talento si irrita, si offusca, la tua vera natura si offende. (Morelli)

22) L’atto più attivo è in fondo la contemplazione. (Bauer)

23) Per comprendere se una persona è sulla via giusta o sulla via sbagliata, chiediti se ogni giorno si stupisce un po’, se in qualche modo si lascia sorprendere. (Bauer)

Come i bambini, che hanno sempre lo sguardo stupito, perché per loro è sempre tutto novità.

24) E’ il compito che spetta ad ognuno di noi: liberare l’Altro che è in noi, il nostro vero volto nascosto, la nostra natura. (Morelli)

25) Vi (è) un luogo in cui tutti gli eventi sono tra loro legati, in cui, quando diventiamo consapevoli, quando non ci facciamo oscurare dalle cose inutili, la nostra natura più intima vibra con l’essenza dell’Universo. (Morelli)

26) Da che cosa nasce il dolore? Dalla resistenza che facciamo a lasciar fluire la nostra vera natura. Il talento non è qualcosa che deve dare per forza risultati pratici…è lo scorrere puro e libero della nostra energia creativa…E’ la resistenza del nostro Ego che ci rende difficile l’incontro con ciò che in noi è naturale. (Morelli)

27) …dobbiamo varcare per qualche istante la paura della solitudine, del vuoto perché l’inaccessibile diventi il nostro conduttore, il nostro Mentore. (Morelli)

28) Se tu sei troppo ordinato, prima o poi una crisi arriva per mettere in discussione il mondo che hai costruito fuori di te. Ma che cos’è la crisi? E’ il caos che, rimettendo in disordine, cerca di annientare la forma che hai costruito e di farti ritrovare la forma che hai seppellito. Quando ci arrendiamo, il talento sgorga senza azione…Il talento non può parlare se sei prigioniero dei tuoi modelli, dei luoghi comuni: quando ti sei disidentificato, allora può emergere la pura tendenza, la direzione della tua natura. ( Morelli)

29) E’ la coscienza lineare che abbiamo di noi stessi che ci porta a ripetere sempre gli stessi meccanismi, gli stessi incontri, la stessa visione del mondo. E’ l’atmosfera familiare del nostro Io che bisogna staccare, perché la nostra identità si allarghi…Ripetiamo gli schemi del mondo familiare, dell’ambiente esterno che si fissano dentro di noi e diventano loro i veri protagonisti. Siamo trascinati dalle immagini collettive – della cultura, della tradizione, dei media – verso mete che non ci appartengono. (Morelli)

Giovanni Lamagna