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Ascoltare, leggere, parlare, scrivere

Ascoltare e leggere sono alimenti per lo spirito.

Parlare e scrivere sono ginnastica per lo spirito.

© Giovanni Lamagna

Dialogare

Per dialogare veramente, autenticamente, sinceramente, bisogna mettere in discussione tutto quello che si sa, anzi tutto quello che si è.

Chi non si mette o, meglio, chi non è in questa disposizione d’animo fa finta e si illude di dialogare.

Apre la bocca per parlare, forse (forse) ascolta anche quello che gli viene detto, ma in realtà non dialoga veramente.

© Giovanni Lamagna

I veri e grandi Maestri

Ci sono persone che sono vocate a dire le cose. Perché le hanno apprese o ideate autonomamente e le sanno riferire molto bene.

Alcune volte queste persone dicono bene e razzolano male. Per cui faremmo bene a distinguere le cose che dicono dalle cose che fanno. E a seguire solo le prime, tenendoci ben lontani dalle seconde.

Ci sono poi coloro che sono vocati a fare le cose. Non sono capaci di grandi e approfondite riflessioni, né tantomeno di parlare in maniera forbita. Ma sono capaci di operare e spesso fanno cose buone.

Da questi conviene imparare a fare le cose. Trovare in loro stimolo all’azione.

Ci sono, infine, coloro che sono vocati a testimoniare sia con le parole che con le opere, concreta e piena incarnazione delle loro parole.

Solo questi sono i veri e grandi  Maestri, dai quali apprendere pensieri e azioni.

© Giovanni Lamagna

Quando e come parlare

Hiedegger, nella sua famosa “Lettera sull’ “umanismo”” (1946), afferma: “Prima di parlare, l’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere, col pericolo che, sottoposto a questo reclamo, abbia poco o raramente qualcosa da dire. Solo così viene ridonata alla parola la ricchezza preziosa della sua essenza, e all’uomo la dimora per abitare nella verità dell’essere.”

Sono molto d’accordo con questa affermazione. E perciò mi permetto di riformularla con parole mie, più semplici e meno enfatiche. Per assimilarla e introiettarla il meglio possibile.

Prima di parlare, ciascuno di noi dovrebbe chiedersi: da dove provengono queste mie parole? sono frutto della mia voglia di apparire, del mio narcisismo? di un sapere estrinseco, figlio di pura erudizione? o sgorgano da un impulso interiore, profondo e autentico?

Nel primo caso (narcisismo) ed, io dico, anche nel secondo caso (sfoggio di erudizione), faremmo meglio a tacere. Nel terzo caso (ma solo nel terzo caso) sentiamoci pure autorizzati a parlare.

Anch’io però credo, come Heidegger, che, se avessimo questa attenzione e questa prudenza prima di parlare, sarebbero molto meno numerose le occasioni in cui ci sentiremmo autorizzati ad aprire la bocca.

Sicuramente limiteremmo di molto i nostri interventi e in parecchi casi preferiremmo il silenzio alla parola.

E però in quei casi in cui ci sentiremo, da una voce interiore e perciò misteriosa (la voce dell’essere?), autorizzati a parlare, forse la nostra parola, espressione della nostra interiorità profonda, acquisterebbe in intensità e valore.

Non parleremmo, quindi, a vanvera, non faremmo torto alla sacralità della parola.

La parola, la parola che ha davvero senso, è quella che nasce da un profondo silenzio; Heidegger avrebbe detto: dall’ascolto dell’essere o, meglio, della “verità dell’essere”.

D’altra parte non aveva affermato anche Wittgenstein, nel suo “Tractatus logico-philosophicus” (1921): “Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”?

Non è proprio lo stesso concetto espresso da Heidegger, ma (almeno per come lo leggo io) gli è di molto affine.

Cosa è, infatti, “ciò di cui non si può parlare”, se non “l’essere” a cui pensava Heidegger?

Di cui, forse, sarebbe meglio tacere (come molto perentoriamente sostiene Wittegenstein), ma a nome del quale si può parlare (sostiene Heidegger), a condizione di esserne stati “reclamati”.

Io traduco: a condizione di essere stati interpellati, incaricati dall’essere, dalla “verità dell’essere”.

© Giovanni Lamagna

Parola scritta e parola parlata

Prendo a prestito un pensiero di Fabrizio Coscia, che ho trovato nel suo libro “Eravamo soli” a pag. 205, per fare alcuni approfondimenti personali:

… qualsiasi testo scritto per qualcuno attende una risposta, e anche l’assenza di risposta è, di per sé, una risposta. Intanto io scrivo perché tu mi legga, e perché ti lasci penetrare adagio dalle mie parole, e perché possa amarmi ancora di più dopo aver letto. E mentre leggi, aspetto, in preda all’ansia.

Trovo stupendo questo pensiero: mi esprime perfettamente. Credo che renda meravigliosamente bene l’idea di cosa è la scrittura.

Innanzitutto dice (ed anche io lo penso) che nessuno scrive per se stesso; o, perlomeno, solo per se stesso.

Chi scrive lo fa sempre per qualcun altro/a. Fosse anche un/a perfetto/a sconosciuto/a. E attende, quindi, una risposta.

La scrittura perciò (come qualsiasi altra forma di comunicazione, ma la scrittura lo è in modo particolare) è sempre un atto d’amore.

E, come ogni atto d’amore, attende un riscontro.

L’amore che non riceve riscontro, che non è riamato, è, infatti, un amore impotente, un amore abortito, irrealizzato, ovviamente infelice.

E’ vero, poi, che, anche quando non c’è risposta, la risposta in realtà c’è stata lo stesso: è nei fatti un diniego, un rifiuto all’offerta d’amore da noi fatta, al canale di comunicazione, di contatto, da noi aperto.

La scrittura, inoltre, (al contrario della parola parlata, che si impone di per sé, ed è quindi in un certo senso un atto di violenza: l’altro è costretto ad ascoltarla anche se non vorrebbe) è uno strumento di comunicazione assolutamente nonviolento, direi perfino dolce: l’altro, infatti, può anche rifiutarsi di leggere quello che io gli ho scritto. Mentre non può fare a meno di ascoltare la parola parlata che gli rivolgo: dovrebbe solo turarsi le orecchie o allontanarsi dalla mia presenza.

La scrittura, infine, è un mezzo di comunicazione lento. Al contrario della parola parlata che è, invece, un mezzo di comunicazione veloce.

Lo è in un duplice senso: sia perché scrivere richiede più tempo che parlare; sia perché leggere richiede (di solito) più tempo che ascoltare.

Sulla parola ascoltata, infatti, non possiamo ritornare più: o ci è entrata dentro o ci è sfuggita per sempre; per recuperarla dobbiamo chiedere che essa venga ripetuta; e non sempre l’altro è disposto a ripeterla.

Sulla parola scritta, invece, noi possiamo tornare e ritornare più volte, tutte le volte che vogliamo. Possiamo quindi consentire che essa ci penetri lentamente, dolcemente, quasi come in un amplesso tantrico.

Tra lo scrittore e il lettore consenziente viene quindi a stabilirsi un vero rapporto d’amore, oserei dire addirittura erotico, tanto più intenso quanto più la lettura è lenta, ripetuta, profonda.

Ovviamente chi scrive, al momento in cui scrive, non ha alcuna certezza che tutto questo avvenga, così come l’amante che va all’incontro con la persona amata non ha alcuna certezza che l’incontro vada a buon fine.

Per cui è naturale che una certa, buona, quota d’ansia sia presente in chi scrive, nel momento in cui indirizza al suo ipotetico lettore la sua pagina scritta.

Ansia che verrà placata (in tutto o in parte) solo nel momento in cui lo scrittore riceverà una risposta (qualsiasi essa sia; meglio, ovviamente, se di condivisione e gradimento) dal suo lettore.

Giovanni Lamagna

Parlare per parlare.

Ci sono persone che parlano tanto per parlare. Si parlano addosso o l’una sull’altra.

Aprono la bocca e cacciano parole, parole, parole, ma non sono in ascolto vero né del loro cuore né della loro mente. Non sono in sintonia autentica con il loro vero Sé.

Sono persone che, anche quando parlano di cose (apparentemente) molto serie, non hanno nessuna intenzione vera, profonda di affrontare il problema di cui pensano (in cuor loro sinceramente) di parlare.

Vogliono, invece e piuttosto, vivere l’illusione, la fantasia di stare ad affrontare il problema di cui parlano.

In realtà si mettono ben distanti dalla sua soluzione, perché non hanno nessuna intenzione di affrontare i cambiamenti, di attuare nei loro comportamenti le modifiche che la soluzione del problema richiederebbe.

Il loro parlare allora è vacuo, superficiale, uno sterile chiacchiericcio, mascherato talvolta da discorsi molto seri o, addirittura, seriosi e impegnati, fatti col tono a volte molto compreso di chi sta affrontando problemi grossi e molto importanti.

La controprova di questo si ha nel fatto che questi discorsi si ripetono continuamente, sempre gli stessi, a volte all’infinito, senza nessuna briciola di novità, di avanzamento nella soluzione del problema affrontato.

Sono, dunque, discorsi del tutto inconcludenti. Perciò, in fondo in fondo, inautentici. Al di là delle intenzioni (a volte del tutto sincere) che li hanno originati.

Giovanni Lamagna

Narcisismo, vanità e scrittura.

7 febbraio 2016

Narcisismo, vanità e scrittura.

C’è sicuramente, nell’atto dello scrivere, qualcosa che ha a che fare con la vanità e col narcisismo. Cioè con l’atto del mostrarsi, dell’esibirsi, del venire allo scoperto e con il desiderio/piacere di farsi dire: “Bravo/a! Mi piace quello che hai scritto”. E’ inutile nasconderselo o negarlo.

A dire il vero questo nesso si può rintracciare anche nell’atto del parlare. Anche quando parliamo, infatti, noi ci mostriamo, ci esibiamo e, in fondo, abbiamo piacere e desiderio che le nostre parole trovino consenso e approvazione. Non parliamo certo per essere disapprovati e, meno che mai, scherniti.

Ma nell’atto dello scrivere questo desiderio e questo piacere sono ancora più forti, perché l’atto dello scrivere, soprattutto quando esso è finalizzato ad una pubblicazione, è più impegnativo, mi verrebbe di dire addirittura più solenne, che l’atto del parlare.

C’è quindi una indubbia componente di narcisismo e di vanità nell’atto dello scrivere.

Allo stesso tempo, però, si può dire che l’atto dello scrivere (come del resto pure l’atto del parlare, ma con la stessa accentuazione a favore dello scrivere di cui prima) è anche un atto di coraggio (in certi casi perfino di audacia), un atto di assunzione della propria responsabilità nell’esporre e sostenere le proprie idee.

Si potrebbe dire, per converso, che chi esita a scrivere e a parlare lo fa non solo perché non si sente all’altezza di farlo, ma anche perché ha paura del giudizio degli altri. In certi casi non vuole esporsi per semplice timidezza, ma in altri perché non accetta il rischio dell’insuccesso, del dissenso, del conflitto.

D’altra parte, se nessuno avesse mai osato mettere per iscritto un testo di una qualsivoglia natura (articolo, saggio, libro, poesia, poema, commedia, tragedia…) per sfuggire all’accusa di vanità e di narcisismo, non si sarebbero avute le opere letterarie, filosofiche, scientifiche, che sono diventate poi patrimonio dell’Umanità.

Per concludere, allora, ogni volta che ci si accinge a mettere penna su carta (ma anche solo a prendere la parola in un consesso, più o meno ampio), conviene, anzi è saggio, porsi la domanda: “Perché lo sto facendo? E’ semplicemente perché voglio mettermi in mostra, perché voglio gigioneggiarmi, farmi notare? O perché lo ritengo buono e utile, non solo e non tanto in vista di qualche mio tornaconto personale, bensì nell’interesse, per il piacere, la gioia, il bene, di quelli che mi ascolteranno o leggeranno?”

E’ opportuno, quindi, che le nostre parole (sia quelle orali che quelle scritte) prima di uscire all’esterno passino attraverso il filtro dell’autocoscienza. Ma, una volta superato (positivamente) questo esame interiore (magari, nel caso del testo scritto, dopo averlo prima fatto leggere a qualcuno/a di cui ci fidiamo, che è in grado di darci buoni consigli e che non possiamo sospettare di piaggeria), conviene “lanciarsi” e “uscire allo scoperto”, prendendo la parola in pubblico o chiedendo a chi può di pubblicare e diffondere ciò che abbiamo scritto.

In questo caso non dobbiamo aver paura di apparire narcisisti o vanitosi più di quanto non dobbiamo aver paura delle nostre insicurezze e della nostra ignavia.

D’altra parte c’è narcisismo e narcisismo.

C’è un narcisismo naturale, fisiologico, che rientra nella norma, da cui non può prescindere nessuna azione umana. Senza questa dose minima di narcisismo nessuna opera umana sarebbe possibile, troverebbe la spinta motivazionale per trasformarsi da idea in realtà.

E c’è un narcisismo patologico, quello che ci annebbia la mente, che ci rende incapaci di dare un giudizio preventivo su quello che vogliamo dire o scrivere, in grado di prevenire (e quindi reggere) il giudizio (e la critica) degli altri, di chi ascolterà o leggerà le nostre parole.

Solo di questo secondo narcisismo ci dobbiamo preoccupare e solo da esso ci dobbiamo difendere e tutelare.

Il primo, invece, è sano, naturale, vitale: ha a che fare con l’amore per se stessi, E lo dobbiamo perfino coltivare.

Giovanni Lamagna

Voglia di scrivere e paura di morire.

28 novembre 2015

Voglia di scrivere e paura di morire.

Sono convinto che ci sia uno stretto legame tra la voglia di scrivere e la paura di morire: la prima serve ad esorcizzare la seconda.

La voglia di scrivere è diversa dalla semplice voglia di parlare, raccontare e anche dalla particolare predisposizione alla narrazione.

Perché il parlare, il raccontare con la sola parola orale non lascia tracce, se non nella persona o nelle poche persone con cui capita di parlare.

Lo scrivere, invece, può lasciare una traccia indelebile. E a un pubblico, quello dei lettori, (almeno potenzialmente) molto più vasto di quanto possa essere un pubblico di ascoltatori.

Lo scrivere può rendere (in alcuni casi; anzi, a dire il vero, solo in pochi casi) addirittura immortali.

Perciò, a mio avviso, c’è un intimo nesso tra il desiderio di scrivere e il desiderio di lasciare una traccia di noi dopo la morte, di non morire dimenticati.

Quindi, tra voglia di scrivere e paura di morire.

Giovanni Lamagna