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Istinto sessuale e pulsione erotica.
Massimo Recalcati (nel suo “Esiste il rapporto sessuale”; Raffaello Cortina editore; 2021; pag. 168) afferma: “Nel mondo animale non esiste erotismo perché l’erotismo implica la feticizzazione del corpo, la sua valorizzazione estetica, la promozione dei dettagli inservibili alla mera logica istintuale della riproduzione della specie.”
Sono pienamente d’accordo; aggiungerò, quindi, solo alcune piccole riflessioni a quella di Recalcati, a integrazione della sua.
L’animale è mosso unicamente dal suo bisogno istintuale e cerca l’altro esclusivamente per poter soddisfare, scaricare, allentare, eliminare, questo suo bisogno.
Manco vede l’altro: per l’animale l’uno/a vale l’altro/a.
In questo suo movimento è davvero (inconsapevole) “funzionario della specie”, della sua perpetuazione, come dice Schopenhauer.
L’uomo no; non si accontenta dell’altro/a indiscriminato/a, indifferenziato/a.
Indubbiamente anche l’uomo è mosso da un istinto, da un bisogno di scarica; ed in questo senso anche lui è funzionario della sua specie, come lo è l’animale.
Ma l’uomo non è mosso solo da un istinto; l’uomo è mosso anche da altro.
L’uomo è capace di guardare all’altro/a nella sua particolarità; l’uno/a per lui non vale l’altro/a.
Egli è attirato (anche) dalle caratteristiche particolari dell’altro/a e (non solo) dall’altro/a in quanto specie.
Per lui c’è sempre un altro/a che vale più di altri, che lo attira, attizza di più.
Questo è ciò che differenzia la pulsione erotica (tipicamente umana) dal puro istinto sessuale (comune a tutti gli animali): l’istinto sessuale è indifferente all’altro/a; la pulsione erotica fa molta differenza tra l’uno/a e l’altro/a; è attirata da alcuni/e e non da altri/e.
Coglie nell’altro/a il particolare che lo differenzia dagli altri e che lo attira, quasi come un feticcio.
Particolare che non è legato solo al solo corpo dell’altro/a, ma perfino al suo abbigliamento, al suo trucco, al suo modo di muoversi e di gesticolare, al suo modo di parlare.
Tutto questo fa l’erotismo, che è quindi una vera e propria forma di linguaggio.
E che, come il linguaggio verbale, è totalmente estraneo agli altri animali, è proprio, solo dell’uomo.
© Giovanni Lamagna
Il silenzio è d’oro!?
“Il silenzio è d’oro” è sicuramente un proverbio saggio e, quindi, da condividere.
Ciò non vuol dire che sia meglio stare zitti, sempre e comunque, anziché parlare.
Altrimenti i premi Nobel dovrebbero essere dati ai muti o a coloro che non hanno mai niente da dire.
“Il silenzio è d’oro” vuol significare che è meglio stare zitti anziché parlare per cacciare solo aria o (peggio!) per dire puttanate.
“Il silenzio è d’oro” ci ammonisce e invita a filtrare bene le parole prima di dirle.
A non parlare di getto, di impulso; ad azionare il cervello prima di aprire bocca.
© Giovanni Lamagna
E’ più importante il contenuto o la forma?
“Per scrivere – afferma Primo Levi – bisogna avere qualcosa da scrivere”.
Può sembrare ovvio, scontato, addirittura banale, ma per me non lo è.
Perché è l’affermazione del primato del contenuto sulla forma, nel parlare come nello scrivere.
Che è poi quanto sostenevano anche i latini: “Rem tene. Verba sequentur.”
© Giovanni Lamagna
L’arte di ascoltare e dialogare.
Quella di ascoltare e dialogare, come tutti sappiamo per esperienza (anche se poi non sempre ne facciamo tesoro), non è un’abilità innata, ma è un’arte che si impara, che bisogna apprendere, alla quale bisogna addestrarsi, osservando alcune regole, semplici ma non per questo tanto facili da mettere in atto.
Essa, infatti, esige che noi facciamo il vuoto in noi stessi, che liberiamo la nostra mente, che la liberiamo soprattutto dai nostri pregiudizi verso l’altro, dalle nostre idee precostituite e, soprattutto, dalla nostra tendenza a competere, a rivaleggiare, a primeggiare.
Chi è pieno di idee già solide e compatte, chi non è disposto a metterle in discussione, ancora di più chi nutre pregiudizi nei confronti della persona che ha di fronte, chi intende il rapporto con gli altri come un’occasione di contesa per dimostrare la propria superiorità intellettuale e dialettica, costui non avrà spazio reale per il dialogo e ancora meno per l’ascolto, anche se si metterà nella disposizione fisica, ma solo esteriore, dell’ascolto.
Chi sa davvero ascoltare e dialogare si sintonizza, infatti, sulla stessa lunghezza d’onda dell’altro, mettendo in atto alcuni comportamenti molto concreti e verificabili, che vorrei qui di seguito elencare, ponendoli quasi in sequenza temporale, oltre che psicologica, e facendone una sorta di decalogo.
Chi sa davvero ascoltare e dialogare o vuole imparare a farlo:
1. sta bene attento a quello che l’altro dice, a non interpretare male e, quindi, equivocare le parole che l’altro gli sta rivolgendo;
2 mostra all’altro la sua simpatia, non nel senso frivolo e pacione col quale questa parola viene comunemente intesa, ma nel senso letterale di “sentire-con-lui”, di entrare nel suo mondo interiore, di condividere il suo vissuto;
3. non interrompe l’altro mentre egli sta parlando, ma è tutto concentrato su quello che l’altro sta dicendo;
4. non elabora sue interpretazioni di ciò che l’altro ha detto o sta dicendo, mentre egli sta ancora parlando;
5. non si lascia prendere dalle cose che vorrebbe dire a sua volta, mentre l’altro sta ancora parlando, distraendosi così dall’ascolto;
6. fa tutt’al più delle domande, quando ne avverte il bisogno, per chiedere chiarimenti ed essere, quindi, certo di aver compreso bene quello che l’altro gli sta dicendo;
7. solo quando avverte che l’altro ha detto tutto quello che voleva dire ed è pronto, a sua volta, ad ascoltare, allora si dispone a parlare;
8. e tuttavia, quando l’altro ha finito di dire la sua, aspetta ancora un attimo, prima di prendere la parola; in questo modo mette bene a fuoco i suoi pensieri, che diventeranno così più chiari, comprensibili e meno soggetti a possibili malintesi;
9. quando parla non lo fa mai in maniera dura o troppo perentoria, in modo da non mettere sulla difensiva il suo interlocutore o da non scoraggiarlo nel proseguire ulteriormente la conversazione;
10. utilizza sempre toni pacati e mai di rottura, anche nel caso in cui le reciproche posizioni si saranno manifestate come molto distanti o, in certi casi, perfino opposte; lascia, insomma, sempre una porta aperta alla ripresa (eventuale) del dialogo e del confronto.
© Giovanni Lamagna
Il “relativismo linguistico”.
Noi pensiamo utilizzando una lingua.
Sempre; anche quando pensiamo in silenzio, senza parlare con qualcuno.
Il pensiero, dunque, non è separabile dalla lingua in cui esso è espresso, formulato.
La lingua in cui il pensiero si manifesta è il modo stesso di generarsi e di vivere di un pensiero.
Perciò a lingue diverse corrispondono modi di pensare diversi.
E’ di questo che ci ha resi edotti la linguistica moderna.
Di conseguenza ogni lingua rappresenta una determinata (e relativa, parziale) visione del mondo.
Che include determinati aspetti della realtà e ne esclude altri.
E’ questo che sottintende il principio del “relativismo linguistico”.
© Giovanni Lamagna
Lingua, pensiero e realtà.
A lingue diverse corrispondono non solo segni e strutture grammaticali e sintattiche diversi, ma anche modi di pensare diversi.
La lingua non è solo un modo di parlare, ma anche un modo di guardare alla realtà.
A lingue diverse corrispondono dunque modi diversi di guardare alla realtà.
E questo, ad esempio, complica, rende estremamente complesso, il compito del traduttore di un testo da una lingua all’altra.
© Giovanni Lamagna
Parola, silenzio, contemplazione.
Wittgenstein, nel suo “Tractatus logico-philosophicus”, si è applicato a studiare il linguaggio.
E ne ha concluso che le funzioni essenziali del linguaggio sono quelle di designare i fatti e gli oggetti e di esprimere le loro relazioni.
Il linguaggio non è capace dunque di parlare di ciò che è oltre i limiti del mondo.
Di questo territorio – che per Wittgenstein è il “mistico” (io preferisco dire il “mistero”) – non si può parlare; si deve allora tacere.
Il “mistico” non può essere espresso a parole; io aggiungerei: può essere solo contemplato.
Non a caso, forse, la contemplazione ha bisogno di silenzio; cioè di assenza di parole.
© Giovanni Lamagna
Nascita e morte
Ci sono due confini – netti, precisi – che delimitano la nostra vita: quello della nascita e quello della morte.
Cosa ci sia oltre questi due confini noi non lo sappiamo e non lo possiamo sapere: è avvolto nel mistero, fa parte del mistero profondo, abissale della vita.
Mistero di cui, quindi, come ci ha insegnato Wittgenstein, non è possibile parlare ed è, dunque, meglio tacere.
Noi possiamo parlare – e pure di questo con molta prudenza e circospezione – solo di ciò che rientra in quei due confini che delimitano la vita, di ciò che è compreso tra la nascita e la morte.
© Giovanni Lamagna
Il vero Maestro (3)
Il vero Maestro parla poco.
E non parla tanto per parlare.
Parla solo quando il cuore e la mente, all’unisono, gli suggeriscono di parlare.
© Giovanni Lamagna