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La morte di Dio e il potere dell’uomo.

La perdita della fede nell’esistenza di un Dio trascendente è, a mio avviso, l’esito necessario e inevitabile della constatazione dell’esistenza, dilagante e non certo marginale, del Male nel mondo, soprattutto nella forma del dolore; questo per chiunque abbia non dico una competenza filosofica all’altezza della contemporaneità, ma almeno un adeguato senso critico e non voglia vivere di alienanti illusioni.

Questo male e questo dolore radicali, che arrivano a colpire anche (e persino) gli innocenti, quindi del tutto ingiustificabili ed assolutamente senza senso, sono, infatti, incompatibili con la fede nell’esistenza non solo di un Dio buono e misericordioso (come quello che Gesù chiamava “Padre”), ma anche di un Dio giusto per quanto severo, l’unico Dio in cui avrebbe ancora un senso credere.

E, tuttavia, questa perdita della fede nell’esistenza di un Dio trascendente non può, non deve comportare come conseguenza (altrettanto necessaria e inevitabile) la presunzione da parte dell’uomo che allora tutto è per lui possibile, che tutto gli è consentito, come ipotizzava un personaggio di Dostoevskij in un famoso passaggio de “I fratelli Karamazov”.

O che l’uomo potrà/dovrà addirittura prendere il posto del Dio onnipotente oramai decaduto, come (con esiti – non a caso – devastanti per la sua salute mentale) arrivò a preconizzare Friedrich Nietzsche, il filosofo del Superuomo o dell’Oltre-uomo.

Sarebbe questo non solo il peccato più grande che l’uomo possa commettere; come dice Recalcati, “il solo peccato che nel testo biblico conta, quello della deificazione dell’uomo, di nutrire il desiderio di essere come Dio, di farsi Dio” (da “La legge della parola”; 2022; p. 240); ma sarebbe soprattutto causa della sua perdizione fatale.

Un uomo che, una volta morto Dio, si considerasse assolutamente libero e padrone onnipotente del proprio destino, dio al posto del Dio morto o definitivamente decaduto, sarebbe destinato a perdersi, a dissiparsi, a frantumarsi, a dissolversi, a schiantarsi prima o poi contro il muro della sua presunzione.

Pe cui l’uomo, almeno a mio avviso, anche dopo la morte di Dio, non può fare a meno di accogliere ed accettare l’intrinseca necessità che lo limita, ovverossia l’esistenza dell’Altro, che non sarà più un Dio che gli si impone dall’esterno e lo domina, ma un dio (gli antichi Greci lo avrebbero definito un “daimon”, un demone) che lo abita dentro, che vive nel suo foro interiore.

In questo dovrà consistere la sua nuova fede; sì, fede; non ho esitazione ad usare questo termine (“fede”), pienamente consapevole che esso ha a che fare con l’idea di “religione”; consapevole, dunque, che l’uomo avrà bisogno di aderire a una (per quanto radicalmente nuova) forma di religione (per quanto del tutto laica); se vorrà salvarsi.

Una religione il cui Dio non sarà totalmente, ontologicamente, metafisicamente, altro da sé, come lo era il Dio delle antiche religioni; ma sarà un dio che rappresenterà il vero Sé dell’uomo contemporaneo, la sua voce e il suo Maestro interiore.

Quindi, un dio guida, Ideale dell’Io, Alter-ego, che gli rappresenterà la Legge, che gli porrà certamente dei limiti, ma gli indicherà anche le sue potenzialità, un dio che gli si imporrà come necessità, ma gli rivelerà anche i suoi più profondi e intimi desideri.

Un dio che non sarà certo in grado di cancellare dall’animo umano lo sgomento, l’angoscia e, perfino, il terrore di fronte al Male e al dolore radicali presenti nel mondo, soprattutto di fronte al male estremo rappresentato dalla morte.

Ma sarà capace, però, di consentire all’uomo, che avrà l’umiltà di affidarglisi, di sperimentare (almeno di tanto in tanto) lo stupore, il piacere, la gioia e (in alcuni momenti, che potremmo definire magici) perfino la felicità, di fronte allo splendore del mondo.

“Ormai solo un dio ci può salvare” è il titolo che la redazione del giornale tedesco “Der Spiegel” diede a un colloquio che si svolse tra Heidegger e due inviati del settimanale.

Non sono in grado di dire a quale Dio Heidegger pensasse quando pronunciò questa frase divenuta famosa; e forse nessuno è in grado di dirlo, data la strutturale e paradigmatica oscurità del pensiero complessivo del filosofo tedesco.

So solo dire quale dio – secondo il mio pensiero – potrà salvarci: è quello che ho provato a descrivere (non so fino a che punto riuscendovi con chiarezza) fin qui con questa mia riflessione.

© Giovanni Lamagna

L’amore che immagino e desidero

Bisogna abituarsi a un nuovo modo di intendere l’amore.

O, meglio, quello che i più chiamano amore.

Bisogna andare oltre il concetto dell’amore romantico,

dell’amore passione,

dell’amore esclusivo e monogamico.

Questo tipo di amore dura poco,

è destinato per sua natura a durare poco.

Passati i primi fuochi

e le prime fiamme

prima si assopisce

e poi si spegne del tutto.

Diventa compagnia, affetto, cameratismo,

ma non è più l’amore passione

che era agli inizi.

Bisogna allora scegliere:

cosa voglio dall’amore?

Il rifugio, il rimedio alla solitudine,

il mutuo aiuto?

O voglio anche altro?

Voglio che la passione rimanga viva,

che il fuoco degli inizi

non si spenga col tempo?

Se faccio questa seconda scelta,

allora devo rinunciare all’idea di amore romantico,

esclusivo, possessivo,

due cuori e una capanna.

Devo optare per l’amore-amicizia.

Amore che non esclude altri amori,

che anzi si rinnova di continuo

grazie ad altri amori.

L’amore che non divinizza l’altro/a,

ma è in grado di cogliere in ogni altro

il frutto buono,

il fiore bello,

la qualità,

la dote unica ed esclusiva,

il pregio.

L’amore che non è possesso,

che non è geloso

e non è invidioso.

L’amore che sa sopportare la presenza di altri amori,

che li mette in conto,

perché sa di non essere onnipotente,

di non poter essere il tutto per l’altro,

che sa avere l’umiltà

e la pazienza di aspettare,

perché sa, è consapevole

che la presenza di un altro, nuovo amore

non significa la morte dell’amore vecchio,

l’amore di prima,

ma solo un altro amore

e che gli amori non sono incompatibili,

ma addirittura possono rafforzarsi a vicenda,

se diventano amicizie,

fratellanze, sorellanze.

Il giorno in cui l’amore sarà vissuto così

sarà un bel giorno per l’umanità,

sarà l’alba di una nuova Umanità,

più dolce,

più serena,

più aperta,

più tollerante,

più solidale,

più buona,

più intelligente,

più bella,

più tutto,

in altre parole più umana

© Giovanni Lamagna