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Perché preferiamo una stagione anziché un’altra?

Ciascuno di noi, in genere, ama in modo particolare una stagione dell’anno e ne gradisce di meno un’altra o altre.

Mi chiedo; da cosa derivano questa preferenza e questo minore gradimento?

Sono portato a supporre, ipotizzare, che quasi tutti noi preferiamo la stagione in cui siamo nati ed “odiamo” (o gradiamo molto di meno) la stagione opposta.

Ad esempio, io sono nato in estate e per me la stagione più bella, quella che preferisco, è, senza ombra di dubbio, l’estate.

Per converso non mi piace l’inverno e mi piace poco l’autunno, che segna la fine dell’estate e prepara all’inverno.

Mi piace invece abbastanza la primavera, che preannuncia l’estate.

Altri, che sono nati in inverno o in autunno, molto probabilmente avranno preferenze esattamente opposte alle mie.

© Giovanni Lamagna

Parola scritta e parola parlata

Prendo a prestito un pensiero di Fabrizio Coscia, che ho trovato nel suo libro “Eravamo soli” a pag. 205, per fare alcuni approfondimenti personali:

… qualsiasi testo scritto per qualcuno attende una risposta, e anche l’assenza di risposta è, di per sé, una risposta. Intanto io scrivo perché tu mi legga, e perché ti lasci penetrare adagio dalle mie parole, e perché possa amarmi ancora di più dopo aver letto. E mentre leggi, aspetto, in preda all’ansia.

Trovo stupendo questo pensiero: mi esprime perfettamente. Credo che renda meravigliosamente bene l’idea di cosa è la scrittura.

Innanzitutto dice (ed anche io lo penso) che nessuno scrive per se stesso; o, perlomeno, solo per se stesso.

Chi scrive lo fa sempre per qualcun altro/a. Fosse anche un/a perfetto/a sconosciuto/a. E attende, quindi, una risposta.

La scrittura perciò (come qualsiasi altra forma di comunicazione, ma la scrittura lo è in modo particolare) è sempre un atto d’amore.

E, come ogni atto d’amore, attende un riscontro.

L’amore che non riceve riscontro, che non è riamato, è, infatti, un amore impotente, un amore abortito, irrealizzato, ovviamente infelice.

E’ vero, poi, che, anche quando non c’è risposta, la risposta in realtà c’è stata lo stesso: è nei fatti un diniego, un rifiuto all’offerta d’amore da noi fatta, al canale di comunicazione, di contatto, da noi aperto.

La scrittura, inoltre, (al contrario della parola parlata, che si impone di per sé, ed è quindi in un certo senso un atto di violenza: l’altro è costretto ad ascoltarla anche se non vorrebbe) è uno strumento di comunicazione assolutamente nonviolento, direi perfino dolce: l’altro, infatti, può anche rifiutarsi di leggere quello che io gli ho scritto. Mentre non può fare a meno di ascoltare la parola parlata che gli rivolgo: dovrebbe solo turarsi le orecchie o allontanarsi dalla mia presenza.

La scrittura, infine, è un mezzo di comunicazione lento. Al contrario della parola parlata che è, invece, un mezzo di comunicazione veloce.

Lo è in un duplice senso: sia perché scrivere richiede più tempo che parlare; sia perché leggere richiede (di solito) più tempo che ascoltare.

Sulla parola ascoltata, infatti, non possiamo ritornare più: o ci è entrata dentro o ci è sfuggita per sempre; per recuperarla dobbiamo chiedere che essa venga ripetuta; e non sempre l’altro è disposto a ripeterla.

Sulla parola scritta, invece, noi possiamo tornare e ritornare più volte, tutte le volte che vogliamo. Possiamo quindi consentire che essa ci penetri lentamente, dolcemente, quasi come in un amplesso tantrico.

Tra lo scrittore e il lettore consenziente viene quindi a stabilirsi un vero rapporto d’amore, oserei dire addirittura erotico, tanto più intenso quanto più la lettura è lenta, ripetuta, profonda.

Ovviamente chi scrive, al momento in cui scrive, non ha alcuna certezza che tutto questo avvenga, così come l’amante che va all’incontro con la persona amata non ha alcuna certezza che l’incontro vada a buon fine.

Per cui è naturale che una certa, buona, quota d’ansia sia presente in chi scrive, nel momento in cui indirizza al suo ipotetico lettore la sua pagina scritta.

Ansia che verrà placata (in tutto o in parte) solo nel momento in cui lo scrittore riceverà una risposta (qualsiasi essa sia; meglio, ovviamente, se di condivisione e gradimento) dal suo lettore.

Giovanni Lamagna

Il narcisismo e il suo superamento.

In ognuno di noi è presente, fin dalla nascita o, perlomeno, fin dai primi anni della nostra vita, una componente narcisista, che è una potente spinta all’azione, forse la più potente che esista.

Ora questa componente è vero che costituisce l’energia necessaria, anzi indispensabile, per mettere in moto la nostra spinta ad agire. Ma è anche vero che, se resta la motivazione dominante di essa, la inquina (e a volte gravemente) sia nelle sue modalità che nei suoi esiti finali.

Occorre, quindi, che noi lavoriamo (spiritualmente e psicologicamente: i due termini per me sono quasi sinonimi) sul nostro narcisismo.

E’ necessario che lo mettiamo in conto e che non ce ne sentiamo in colpa al punto da farcene paralizzare.

Ma è anche necessario che non ci arrendiamo passivamente ad esso, né tantomeno che ce ne crogioliamo, come se esso fosse l’equivalente omologo dell’assertività e della giusta volontà di affermare noi stessi.

Occorre che lavoriamo su noi stessi per purificare la motivazione iniziale del nostro agire (fatalmente e inevitabilmente narcisista) e farla coincidere il più possibile con una motivazione oggettiva, quasi impersonale, una specie di chiamata (vocatio) che ci viene rivolta dall’esterno a realizzare un determinato compito, anzi il compito stesso (complessivo) della nostra vita.

In questo modo usciamo da noi stessi, dal nostro Ego (inevitabilmente narcisista) e guardiamo al di fuori di noi, all’Alter Ego, che ci stimola e ci spinge all’azione.

Non perché questo ci fa belli, ci rende piacenti agli altri e ci rimanda il loro gradimento, il loro consenso o, addirittura, il loro amore.

Ma perché ciò è giusto, è bello, è vero, è utile in sé, a prescindere dal nostro immediato tornaconto, interesse, piacere immediato.

Nella consapevolezza, però, che, se è giusto, bello, vero e utile in sé, non può non esserlo, in fondo, anche per noi in quanto singoli individui.

In quanto ognuno di noi è parte di un tutto. E o si identifica con il tutto o non potrà mai stare veramente bene.

A pensarci bene sta proprio qui la differenza tra chi è narcisista e chi narcisista non è.

Il narcisista sente e pensa che il mondo coincida con il proprio Sé. Che al di fuori di sé non ci sia nulla. Perlomeno nulla che abbia una qualche importanza e valore.

Chi non è narcisista sa e sente che fuori di sé c’è tutto un mondo che è altro da sé. E che in fondo è suo interesse profondo non rimanere chiuso in se stesso, ma aprirsi il più possibile al mondo che è fuori di sé.

Fino a, in qualche modo e il più possibile, far coincidere se stesso con il mondo fuori di sé.

Il narcisista è indifferente al bene-essere dell’Altro da sé. Convinto, anzi, che non ci sia un Altro da sé.

Per lui vale la regola: “Pensa solo a te e fregatene degli altri”.

Il non narcisista è consapevole che non ci può essere il bene-essere per sé, se non in connessione e in comunione con l’Altro da sé.

Per lui vale la regola d’oro: “Non fare agli altri ciò che non vorresti gli altri facessero a te e fai agli altri ciò che vorresti gli altri facessero a te”.

Nessuno all’inizio della sua vita è in grado di applicare questa regola. Infatti, il bambino è naturalmente, strutturalmente narcisista.

E, forse, nessuno, sarà mai in grado di applicarla integralmente, fino in fondo, neanche da adulto.

Si può uscire dal narcisismo solo con l’educazione e con uno sforzo personale e graduale, figlio della consapevolezza che il narcisismo protratto oltre l’infanzia diventerebbe una vera e propria malattia.

Purtroppo alcuni rimangono narcisisti, quindi bambini, per tutta la loro vita. Manco si rendono conto che il loro infantilismo non ha più niente a che fare con la bellezza e il candore che sono propri dei bambini.

Giovanni Lamagna