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Passaggi obbligati.

Nella vita spirituale (che poi è nient’altro che la vita della psiche; per me psiche e spirito sono, infatti, sinonimi; la “vita spirituale” per me non è altro che una vita psichica ben funzionante) ci sono talvolta, anzi forse molte volte, passaggi obbligati, che non possiamo evitare.

Ci si può certo girare attorno, nella speranza che qualcosa o qualcuno ci risparmi la necessità di doverli attraversare per forza; necessità che comporta – ai nostri occhi – rischi e fatiche, che ci risparmieremmo volentieri e che cerchiamo, dunque, di evitarci fin quando ci è possibile.

Si possono cercare altre strade (meno impervie per noi) nella speranza di giungere alla stessa destinazione, senza dover imboccare proprio quella via che vorremmo evitare; in genere, per pigrizia o per paura; o entrambe le cose messe assieme.

Ma tutti i nostri tentativi si riveleranno alla fine inevitabilmente fallimentari: un girare a vuoto; ci sono passaggi che, per quanti tentativi possiamo fare per evitare di attraversarli, dobbiamo per forza e di necessità imboccare e tentare di superarli.

Pena non realizzare quel salto di qualità che la vita ci richiede in un dato momento, se vogliamo evolvere, se vogliamo realizzare noi stessi, se non vogliamo fermarci “nel mezzo del cammin di nostra vita”, in mezzo ad un guado.

E, anzi, tornare all’indietro, regredire, involvere; perché io sono convinto (l’ho sperimentato tante volte nella mia vita, guardandomi attorno) che chi non va avanti, non resta affatto nello stesso punto in cui era arrivato, ma scivola addirittura all’indietro.

Queste situazioni ci fanno capire che “il destino” (quello che gli antichi Greci chiamavano “daimon”, ma che in questo caso potremmo anche definire più semplicemente “il reale”) esiste.

E che decide (o ha già deciso) per noi; che ognuno di noi ha un suo “destino”, cioè un luogo, una meta, una destinazione (appunto!) a cui è chiamato ad arrivare.

E che nessuno di noi gli può andare contro, nessuno di noi lo può evadere, sfuggire.

O, meglio, lo possiamo anche fare; e a volte (molte volte) lo facciamo; magari con una testardaggine ed una tenacia, che sarebbero degne di miglior causa.

Ma in questo caso faremmo bene allora a rassegnarci al fatto che non potremo mai essere del tutto felici, cioè non potremo realizzare noi stessi.

Che sono poi la stessa cosa; infatti, l’unica felicità possibile per noi, alla nostra portata, è quella di realizzare noi stessi.

Non a caso, sempre gli antichi Greci, che di queste cose se ne intendevano, per esprimere il concetto di felicità, utilizzavano la parola “eudaimonia”, composta dall’aggettivo “eu” (buono) e dal sostantivo “daimon” (demone, destino, vocazione).

Per i Greci era, dunque, destinato alla felicità solo chi con impegno e, in certi casi, coraggio si dedicava alla realizzazione del proprio “daimon”, del proprio destino, della propria vocazione, nella vita.

Ne possiamo dedurre allora che chi, invece, con ostinazione e ottusità (con una sorta di “coazione a ripetere”), vuole evitare i passaggi obbligati che la vita gli pone davanti si condanna alla infelicità o, quantomeno, ad una insoddisfazione perenne, cronica.

Diremmo oggi con linguaggio moderno: ad un’insoddisfazione nevrotica, se non alla depressione (melancolia) acclarata.

© Giovanni Lamagna

Ci sono fatiche e fatiche, sofferenze e sofferenze, sacrifici e sacrifici.

Io ritengo che ci siano fatiche e fatiche, come sofferenze e sofferenze, sacrifici e sacrifici.

Una cosa è la fatica, il sacrificio, alle volte perfino la sofferenza, funzionali a raggiungere un determinato obiettivo, un certo scopo, che, una volta raggiunti, saranno poi per noi fonti di piacere, a volte di gioia, in certi casi addirittura di vera e propria felicità, insomma di realizzazione e appagamento, per quanto parziali, della nostra vita.

Parlo qui ovviamente di questa vita, questa vita terrena, non un’ipotetica vita futura, ultraterrena, post mortem.

In questo caso la fatica, i sacrifici, la sofferenza sono spesso ineludibili, i passaggi necessari, indispensabili, per raggiungere una condizione di vita che presumiamo, almeno nelle aspettative, superiore a quella nella quale ci troviamo prima di affrontarli.

La fatica del giovane che si vuole laureare, la fatica del lavoratore che vuole ottenere una promozione, la fatica di chi sta scrivendo un libro, la fatica e i sacrifici dell’atleta che si allena per una gara: sono questi citati (ma se ne potrebbero ovviamente fare mille altri) esempi di fatiche, di sacrifici (a volte vere e proprie sofferenze) che hanno un senso, perché sono passaggi obbligati in vista del raggiungimento di un obiettivo concreto, realistico, da raggiungere entro l’orizzonte terreno di questa vita.

Altra cosa è desiderare e perseguire il dolore, la sofferenza, il sacrificio, metaforicamente la croce, in sé, (almeno apparentemente) fini a sé stessi: mettersi, ad esempio, il cilicio o dormire sulla nuda terra; come hanno fatto alcuni mistici nel passato e forse fa ancora oggi qualcuno.

Questo può avvenire, per quello che ne capisco io, solo per due motivi: o per espiare una colpa (vera o presunta che sia) o per raggiungere un premio ultraterreno.

Anche in questi due casi, dunque, possiamo dire che la sofferenza non è un fine in sé, ma un mezzo, una via, ritenuti congrui rispetto ad un fine che si vuole raggiungere, che non è mai la sofferenza in sé.

In altre parole non si sceglie, non si “ama” la croce in sé, ma si ama e si desidera quello che ci attende dopo essere passati per la “via crucis”.

E però, in entrambi questi casi, la scelta è, comunque, quanto meno discutibile.

Infatti, la colpa non si cancella (almeno a mio avviso) con questo tipo di espiazione; il modo migliore di saldare i conti con una colpa commessa non è quello di autoflagellarsi, ma quello di cambiare vita, impegnandosi a non ricadere mai più in quella stessa colpa.

Nel secondo caso non ha senso rinunciare ai piaceri e alle gioie concreti (e certi) che sono alla nostra portata, nella vita che oggi stiamo vivendo, nella prospettiva/attesa di piaceri e gioie (incerti) che potrebbe destinarci una (solo presunta) vita futura.

Nessuna fede, infatti, ma solo un cieco fanatismo, ci dà la certezza che una vita futura, dopo la morte, compenserà i sacrifici compiuti nella vita attuale.

Solo un latente (ma a volte manco tanto latente) masochismo può spiegare una simile scelta.

© Giovanni Lamagna

Ci sono sacrifici e sacrifici!

Ci sono sacrifici (nel senso di dolori, fatiche…) che sono passaggi obbligati, se vogliamo raggiungere determinati obiettivi: non li possiamo evitare, fanno parte del nostro percorso di vita, sono intrinsecamente collegati agli scopi che ci siamo dati.

E ci sono sacrifici, invece, che ci imponiamo da soli, come una forma di espiazione per i nostri sensi di colpa; a volte legati a nessuna colpa reale, ma ad una colpa che percepiamo come tale, che qualcuno da fuori ci ha spinto a considerare tale.

I sacrifici del primo tipo, oltre che ineludibili, sono anche funzionali alla nostra crescita umana in senso lato; fisica, emotiva, intellettuale, spirituale.

Quelli del secondo tipo, invece, sono del tutto inutili; faremmo bene ad evitarceli, servono solo a deprimerci, in certi casi possono addirittura distruggerci.

© Giovanni Lamagna