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Eros è figlio di Penia.

L’amore (parlo qui di quello specifico amore che è l’amore erotico) dura fin quando nell’altro rimane un residuo di incognito, di sconosciuto, financo di mistero per me.

Ovverossia una zona/territorio che mi resta ancora da esplorare, qualcosa che ancora mi manca, un che non ancora diventato “mio”.

Quando l’altro è diventato per me una carta del tutto conosciuta, un territorio di cui non ho più nulla da esplorare, perché mi è oramai totalmente noto, l’eros fatalmente appassisce.

E, nel migliore dei casi, diventa altra cosa: amore fraterno, se non addirittura materno o paterno (ovviamente in senso simbolico).

Eros è figlio di Penia, la dea che, nella mitologia greca, personificava la povertà e il bisogno.

© Giovanni Lamagna

Fisiologia del desiderio.

Ogni desiderio nasce da una mancanza, da un vuoto che vuole essere riempito.

Questo vale anche (anzi vale ancora di più) nelle relazioni.

Il desiderio per l’altro, quindi, permane in noi fin quando l’altro conserva ancora qualcosa in sé di ciò che può/potrebbe/poteva darci e che ancora non ci ha dato.

Fin quando cioè l’altro non è diventato del tutto scontato, ma conserva ancora qualcosa di misterioso per noi.

Quando, invece, l’altro diventa per noi una carta già del tutto conosciuta, una realtà senza più veli e misteri, una terra nella quale non c’è più nulla da esplorare, il nostro desiderio fatalmente scema.

E – prima o poi, quasi sempre – si estingue del tutto.

E’ questa la dinamica – a mio avviso ineluttabile, direi fisiologica – del desiderio!

Che molti preferiscono ignorare, coltivando o una pia e ferale illusione o abbandonandosi ad una mesta e grigia rassegnazione.

L’illusione che il desiderio possa rimanere eterno, sempre uguale a sé stesso, a com’era quando un giorno sgorgò, fresco e zampillante, in noi.

Senza, cioè, che noi dobbiamo fare alcunché di particolare per mantenerlo vivo, acceso, rinnovando sé stessi giorno per giorno, diventando ogni giorno persone in qualche modo nuove.

Rassegnazione a che il desiderio segua fatalmente la sua parabola discendente, come se questa non avesse alternative praticabili.

Come se il suo appassimento e la sua definitiva estinzione oppure il suo mantenersi in vita e persino il suo rafforzarsi non dipendessero anche dalle nostre scelte e dai nostri comportamenti, dal nostro complessivo stile di vita.

Tendenzialmente necrofilo e para-depressivo quando sfocia nel primo degli esiti possibili, prevalentemente biofilo e vitalistico quando origina il secondo degli esiti possibili nel percorso del desiderio.

© Giovanni Lamagna

Esplorare significa fare delle scelte.

Krishnamurti (ne “La quiete della mente”; Astrolabio Ubaldini 2021; pag. 54) così scrive: “La scelta esiste solo quando la mente è confusa. Nel momento in cui la mente è esitante, confusa e non è in grado di vedere con chiarezza, allora viene fatta una scelta.”

Mi chiedo: come potrebbe essere altrimenti?

La mente umana vive spesso, se non il più delle volte, nel dubbio, nell’incertezza e, quindi, nella confusione.

Non ha niente a che fare con la mente (supposta) divina, la quale sola sarebbe onnisciente e perfetta, quindi senza oscillazioni ed esitazioni.

La mente umana è caduca, imperfetta, per sua natura esitante e alla ricerca.

Nel dubbio, nell’incertezza, deve operare delle scelte; o, quantomeno, vivere l’illusione che siano possibili per essa delle scelte.

Krishnamurti aggiunge: “Ciò che è importante non è la scelta, ma mettere ordine nella confusione, o meglio porre fine alla confusione in modo da comprendere con chiarezza.”

Io però mi chiedo: come si fa a mettere ordine nella confusione, se non facendo delle scelte?

Che potranno anche essere inizialmente sbagliate, ma che in ogni caso ci aiuteranno a capire dove sta la “verità” e qual è la strada più giusta da seguire, quando questa all’inizio non ci appare chiara e senza alternative.

La scelta, quindi, al contrario di quanto afferma Krishnamrti (“… l’esplorazione non ricade nel dominio della scelta”; pag. 55) è parte integrante del processo di esplorazione.

Anzi per me esplorare significa scegliere, procedendo per prove ed errori.

Alcune volte il cammino avanza spedito, perché si ha la fortuna (sì, alle volte, è anche questione di fortuna!) di imboccare subito la strada giusta.

Altre volte ci si accorge ad un certo punto del cammino di aver imboccato la strada sbagliata; ed allora bisogna avere l’umiltà, la pazienza, la costanza e la tenacia di tornare indietro e imboccare una nuova strada.

Esplorare significa dunque scegliere; l’uomo non può fare a meno di scegliere.

Perché nessun uomo (almeno all’inizio) è davvero “individuo” nel senso letterale del termine; cioè “indivisibile, non frammentato, e quindi non confuso”.

Ogni uomo, almeno all’inizio, (ma potremmo anche dire sempre, nel corso della sua vita, anche se si può auspicare che lo sia un po’ di meno e sempre meno, man mano che la sua esperienza va avanti, procede, si arricchisce, che diventa più saggio) è frammentato “in pezzetti, consci ed inconsci”.

Io dico è un puzzle, i cui tasselli all’inizio sono sparpagliati, dispersi, e vanno poi ricomposti, con un lavoro paziente, tenace, che esige appunto riflessioni e scelte, per prove ed errori.

Nessuno è in grado di ricomporre il suo puzzle in un breve istante e senza operare delle scelte; senza esitazioni, senza (almeno all’inizio) provare un gran senso di confusione e diciamo pure di smarrimento.

© Giovanni Lamagna