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Lo sguardo contemplativo.

Lo sguardo contemplativo è uno sguardo particolare: lungo, perché si proietta lontano, ben oltre il momento presente, anche se si costruisce momento per momento; e dritto, affilato, tagliente, come una spada.

La sua caratteristica principale è la concentrazione, la capacità di mettere a fuoco la realtà (quella interiore e quella esteriore), di limitare al massimo (e sempre di più, mano a mano che cresce la sua pratica ed esperienza) la dispersione, la dissipazione, le distrazioni, di cui soffre normalmente la nostra mente.

E’ lo sguardo concentrato sul proprio desiderio fondamentale, sulla propria vocazione unica e personale, su quello che gli antichi Greci chiamavano “daimon”, che abita in ognuno di noi, anche se non è facile e non è dato a tutti incontrarlo e ascoltarne la voce, il richiamo.

E’ uno sguardo che ci dà una particolare energia vitale, perché è da esso che ci deriva la chiarezza su qual è la nostra strada, quella che siamo chiamati – per destino unico, che è solo nostro, a imboccare e percorrere.

Chi ha lo sguardo contemplativo saprà sempre, pur se magari dopo qualche più o meno lungo attimo di dubbio, incertezza, esitazione, in che direzione andare; anche quando tutto intorno a lui è scesa la nebbia e l’orizzonte non è del tutto chiaro e ben definito.

E non (tanto) perché ha fatto o fa dei ragionamenti e delle analisi intellettuali, ma perché sente, intuisce, quasi annusa, dove lo porta il suo percorso esistenziale, perché è guidato da una luce interna e misteriosa, ma ben reale.

Perché segue una specie di istinto primordiale, che poi solo istinto non è, dal momento, che è anche (e, forse, soprattutto) il risultato di un esercizio, di una pratica, appunto.

Il frutto di un’applicazione costante, eppure dolce; necessaria, eppure mai e per niente ossessiva o nevrotica.

Beato chi nella vita riuscirà a maturare uno sguardo contemplativo!

Perché avrà trovato la roccia su cui poggiare i suoi piedi, il sentiero su cui camminare saldo, pur se non sempre sicuro, la bussola che guiderà la sua esistenza, la pietra angolare che gli indicherà, momento per momento, la via da seguire.

Chi ne è sprovvisto, invece, sbanderà di continuo, sarà come una barca in balia delle onde, arrancherà spesso nel suo cammino esistenziale, senza orientamento e conforto, sarà preso dalla paura e, qualche volta, addirittura dal panico ogni volta che dovrà operare delle scelte o prendere una decisione.

Tutti siamo chiamati a coltivare, formare, far crescere in noi uno sguardo contemplativo; perché in ognuno di noi ce ne sono le potenzialità, le strutture fondamentali.

Purtroppo, però, non tutti lo attiviamo, non tutti ne diventiamo consapevoli; e così ci lasciamo sfuggire il tesoro più prezioso che la vita ci ha destinato, quello che sarebbe capace di realizzarla alla sua massima potenza.

© Giovanni Lamagna

Esperienza mistica e sentimento religioso.

L’esperienza mistica e il sentimento religioso non sono la stessa cosa.

Si può avere, infatti, una esperienza mistica, senza essere allo stesso tempo credenti o fedeli di una determinata religione.

Come, al contrario, si può essere uomini di religione, senza essere per questo dei mistici.

L’esperienza mistica è, nella sua essenza, il superamento del senso di caos e, quindi, di frammentazione e dispersione, che tutti (chi più e chi meno) ci caratterizza all’origine, quando veniamo al mondo.

E che di solito è arginato (ma solo arginato, mai radicalmente e definitivamente risolto) dall’amore, dall’affetto, dalla cura di coloro che ci accolgono al momento della nostra nascita. E che poi si occupano del nostro allevamento e della nostra crescita nel periodo (particolarmente lungo per il cucciolo uomo) in cui non siamo autonomi per il soddisfacimento dei nostri bisogni primari, elementari.

E’, quindi, arginato in primis, dai nostri genitori, laddove essi si confermano come veramente tali. Cioè non semplici trasmettitori della vita del corpo, ma anche di quella della psiche.

Quella mistica è, dunque, l’esperienza di una soddisfacente unità interiore e di una adeguata motivazione al vivere. E’ l’esperienza che la vita ha un senso, per quanto limitato, per quanto tutto interno alla vita stessa, quindi valido per noi e non necessariamente universale, anche quando non se ne trova nessun fondamento metafisico.

Il sentimento religioso, invece, più che un’esperienza è un credo, è una fede.

Ha bisogno, quindi, di un insieme (potremmo anche dire, di un sistema) organico di credenze, al quale il fedele religioso attribuisce in qualche modo un valore universale, perciò dogmatico, anche se non ne può dare nessuna dimostrazione scientifica e manco razionale.

Ecco perché, allora, si può essere dei mistici, senza essere allo stesso tempo credenti o fedeli di una determinata religione.

Come, al contrario, si può essere uomini di religione, senza essere per questo dei mistici.

Anche se, devo ammettere, si può essere allo stesso tempo mistici e religiosi. Anzi, dirò di più: la religione aiuta, dà una mano a diventare mistici.

Come si può intuire tra le righe di questo mio scritto, però, ciò che ha valore essenziale per me è l’esperienza mistica, non l’esperienza religiosa. La prima (azzarderei) è indispensabile al buen vivir. La seconda no. Della seconda si può fare a meno, se si vuole vivere bene. Della prima no.

Giovanni Lamagna