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Spunti di riflessione sulla nozione “capacità di intendere e di volere”.

A partire dalle vicende di Angelo Izzo, il mostro del Circeo e di Ferrazzano, e di Alessia Pifferi, la madre che ha fatto morire di stenti la figlia di un anno e mezzo, lasciandola sola per sei giorni.

Qualche pomeriggio fa ho visto su Canale 9 un documentario su Angelo Izzo, il famigerato assassino (molti lo hanno definito “mostro”) del Circeo, in provincia di Latina, e di Ferrazzano, in provincia di Campobasso.

Vi si raccontavano fatti che, seppure molto noti, non finiscono mai di provocare orrore, tanto sono stati feroci, e profondamente turbare, tanto erano e sono inspiegabili alla luce della ragione umana; di quella che consideriamo la “ragione umana”.

E, però – a distanza di tempo da quei fatti, che già (come un po’ tutti, credo) conoscevo abbastanza bene – la cosa che più mi ha colpito (ancora una volta) è constatare da quanta confusione, incertezza, labilità, vaghezza sono avvolti concetti, quali “colpa”, “reato”, “responsabilità”, “malattia mentale”, “normalità”, “follia”, “capacità di intendere e di volere”, “pericolosità sociale”, “pena”, “carcere”, “recupero sociale del condannato a una pena carceraria”, “pentimento”, “redenzione”, “libertà vigilata”, “diritto della comunità ad essere tutelata”.

E, forse (anzi sicuramente), ne ho dimenticato ancora qualcuno.

Nel merito di essi (o di alcuni di essi) vorrei sintetizzare qui brevemente il mio punto di vista.

Nessuno (credo), meno che mai io, mette in discussione che la pena debba avere un valore redentivo oltre che punitivo – anzi più redentivo che punitivo – di chi ha commesso un reato, un qualsiasi reato, anche il più grave ed efferato, come lo furono indubbiamente quelli compiuti da Angelo Izzo.

Una società civile, progredita, ma io direi anche semplicemente umana, non si regge sul criterio della vendetta, sul metro dell’ “occhio per occhio, dente perdente”.

Una società civile, umana, non si pone sullo stesso livello di uno dei suoi membri che esce, si mette fuori dal consorzio umano, perché si abbassa ai livelli della bestia e in certi casi, addirittura, della bestia feroce.

Una società civile resta umana anche di fronte alle peggiori brutalità, anche di fronte al mostro, cioè a colui che si degrada a un livello subumano o disumano.

E, però, questo premesso, credo anche che una società nel suo complesso abbia il diritto di difendersi, di tutelarsi di fronte a quei suoi componenti, che hanno già dimostrato o anche solo sono sospetti (seriamente, fondatamente sospetti) di pericolosità sociale, cioè di poter arrecare danno al corpo sociale o a sue singole parti.

In questo senso i concetti di detenzione o di libertà limitata e molto vigilata non sono per niente in contraddizione con quelli di cura e di recupero sociale.

Di cura, nel caso delle malattie mentali; ovviamente non nei manicomi di famigerata memoria, ma in strutture (meglio, case) appositamente strutturate e organizzate.

Di recupero sociale, nel caso di reati, specie nel caso di reati particolarmente efferati, come lo furono indubbiamente quelli del Circeo e quelli di Ferrazzano.

Altro capitolo in cui vedo regna molta confusione è quello relativo al rapporto tra la malattia mentale, la capacità di intendere e di volere, la conseguente responsabilità penale e il tipo di condanna inflitta nel caso di reato, specie nel caso di omicidio.

A me sembra che in questo campo esercitino le loro professioni dei veri e propri improvvisatori, a volte manifestamente incompetenti; o che addirittura alcune professionalità (quella dei giudici, ad esempio) si arroghino esse stesse competenze o quantomeno valutazioni che non dovrebbero spettare a loro.

Chi può, ad esempio, valutare la “capacità di intendere e di volere” in uno specifico momento, quello in cui si compie un delitto?

Non certo i giudici, che non ne hanno le competenze!

Ma solo dei seri e esperti professionisti della psiche, dotati di accertate capacità diagnostiche, possibilmente, meglio, se in consulto tra di loro; e il loro parere dovrebbe risultare vincolante per i giudici e per le eventuali giurie popolari.

Inoltre, si può sganciare la nozione “capacità di intendere e di volere” (categoria estremamente vaga e generica) da quella di “malattia mentale”, quand’anche questa si manifestasse nella “semplice” (???) forma di “disturbo grave della personalità”?

E se, come nella maggior parte dei casi (a mio avviso, in maniera indubitabile in quelli di cui si parlava nel documentario), non si può separare la prima dalla seconda, che senso ha condannare allora all’ergastolo una persona come Angelo Izzo?

Anzi, metterla in prigione e buttare la chiave, come suggeriva e si augurava – candidamente e nello stesso tempo cinicamente – un giornalista nel documentario di cui sto riferendo?

P. S.

Tali giudizi mi sono tornati alla mente – e trovano per me ulteriori ragioni di conferma – quando ho appreso la sentenza (emessa appena qualche giorno fa) di condanna all’ergastolo di Alessia Pifferi, la madre accusata per l’omicidio della figlia Diana di un anno e mezzo, lasciata a casa da sola per sei giorni e morta perciò di stenti.

Anche in questo caso una perizia psichiatrica (eseguita nel corso del processo dallo “specialista” Elvezio Pirfo) aveva accertato che l’infanticida era capace di intendere e volere al momento dei fatti.

Come se una donna, “cresciuta in assoluto isolamento morale e culturale”; che da piccola aveva subito abusi, era stata vittima di violenza, non era andata a scuola, afflitta da un deficit cognitivo, vissuta senza un lavoro, in condizioni di estrema indigenza, che, non sapendo di essere incinta, quando viene il momento partorisce in un bagno, possa essere considerata “normale” e, quindi, “capace di intendere e volere” mentre commette un delitto.

Mi chiedo: ma dove lo hanno pescato i giudici del tribunale di Milano, che hanno condannato all’ergastolo la signora Alessia Pifferi, questo esimio signor Elvezio Pirfo?

Hanno mica scambiato per uno specialista in perizie psichiatriche il primo passante che hanno incrociato sotto al Palazzo di Giustizia di Milano?

© Giovanni Lamagna

Il fondamento dei valori

Senza la metafisica viene a mancare il fondamento esterno dei valori.

Ma i valori non perdono per questo ogni fondamento.

Perché resta loro un fondamento interno.

Posto non più in un altro mondo (metafisico), ma (potremmo dire) in questo mondo (fisico).

Che cosa, infatti, trattiene la mia mano (potenzialmente assassina), quando sono preso dall’ira, che (quasi) mi acceca?

C’è, indubbiamente, un qualcosa, qui in questo mondo visibile (non in un presunto mondo invisibile), che ferma la mia mano prima di compiere il delitto (anche se per un solo attimo) pensato.

Che la ferma, anche se non credo (più) in un Dio che me lo comanda.

© Giovanni Lamagna

Sul perdono

16 giugno 2015

Sul perdono.

Nel libro “Elogio dell’ombra”, Jorge Luis Borges rivisita la storia di Caino e Abele. Così scrive Borges:

Abele e Caino s’incontrarono dopo la morte di Abele.

Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti.

I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono.

Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno.

Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il suo nome.

Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca chiese che gli fosse perdonato il suo delitto.

Abele rispose: “Tu hai ucciso me, o io ho ucciso te? Non ricordo più: stiamo qui insieme come prima”.

“Ora so che mi hai perdonato davvero”, disse Caino, “perché dimenticare è perdonare. Anch’io cercherò di scordare”.

Abele disse lentamente: “È così. Finché dura il rimorso dura la colpa”.

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Questo testo di Borges mi stimola a riflettere sul significato del sostantivo “perdono” e del verbo “perdonare”.

Sappiamo tutti che cos’è il perdono. E’ l’atto o il sentimento con i quali io trascendo il mio livore, il mio rancore e, dunque, la mia aggressività. Naturali, spontanei, istintivi, nei confronti di qualcuno da cui ho subito un torto.

Il perdono è, dunque, un movimento di trasformazione, di elaborazione dei miei sentimenti “negativi”. Dopo aver perdonato, torno ad essere (in un certo senso) la persona che ero prima di ricevere il torto, come se quel torto non mi fosse mai stato fatto.

Da persona aggressiva e piena di livore torno ad essere in pace. Con me stessa e con la persona da cui ho subito il torto.

Il perdono è un atto e allo stesso tempo un sentimento tipicamente umano: gli animali non ne sono capaci. Richiede, infatti, la capacità di superare l’istinto, di elaborarlo e di trasformarlo nel suo contrario. In un certo senso è un sentimento e un atto contro natura; o che supera, trascende la natura.

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Questo è il perdono dal punto di vista del comportamento e degli stati d’animo che questa parola esprime.

Ma perché, per significare questo comportamento e questo stato d’animo, usiamo proprio questa parola?

Per dare una risposta a questa domanda, credo che (come sempre di fronte a domande simili) ci può aiutare l’etimologia.

Il sostantivo “perdono” e il verbo “perdonare” sono composti entrambi da un prefisso (“per”) e da una successiva parola (“dono”, nel caso del sostantivo, e “donare”, nel caso del verbo).

Questo risponde, a mio avviso, alla domanda che ci siamo posti.

Il “perdono” e il “perdonare” sono quell’atto e quell’azione che ci mettono nelle condizioni di poter continuare, anzi di poter riprendere a donare, cioè ad amare.

Prima di compiere l’atto e di provare il sentimento del perdono, il livore, il rancore, l’astio, l’aggressività per il torto subito ci impediscono di “donare” e, quindi, di amare.

Il flusso del “dono” tra me e la persona che mi ha fatto un torto si è interrotto.

La trasformazione dell’odio in amore (col perdono) ci consente di riprendere la nostra capacità di donare. Di ristabilire il flusso interrotto.

Il perdono è, dunque, “per il dono”, per rendere possibile di nuovo il dono. Cioè di nuovo l’amore.

Giovanni Lamagna