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Vivere in comunione costante con l’eros.

Vivere in comunione costante con l’eros è, a mio avviso, uno dei due modi privilegiati di stare in contatto con se stessi.

L’altro modo è (come ho avuto modo di argomentare in una precedente riflessione) quello di vivere in presenza costante con l’idea o, meglio, con l’esperienza stessa della morte.

Entrambi possono, quindi, misurare i livelli di consapevolezza tout court di una persona.

Ma cosa vuol dire per me “vivere in comunione con l’eros”?

Non certo – chiariamolo subito – fare all’amore dalla mattina alla sera.

E neanche desiderare di farlo continuamente, quasi compulsivamente.

Non si può, infatti, come è ovvio, fare all’amore sempre, ogni volta che lo vogliamo, o di continuo!

Anche se – sia detto per inciso – in certi giorni è bello poterlo fare in maniera del tutto rilassata, concedendosi tutto il tempo che si desidera, come se non si avesse null’altro da fare, come se il mondo si fermasse e l’unica occupazione a noi richiesta in quel momento  fosse quella e solo quella.

Non è giusto (e neanche possibile) avere in testa una sola idea fissa: quella del sesso.

La nostra vita è, infatti, impegnata (e per fortuna!) in tante cose, tanti aspetti, che non si possono certo trascurare perché presi da una specie di monomania, come sarebbe quella di pensare al sesso e di volerlo fare (o, almeno, desiderare di farlo) dalla mattina alla sera.

D’altra parte, poi, l’eros – anche questo va chiarito bene- non è il sesso. O, meglio, l’eros ha a che fare col sesso, ma non si riduce ad esso. Non va confuso o identificato con esso.

L’eros è un’energia, altrimenti chiamata libido, una spinta vitale complessa, che si esprime nella sua forma più semplice ed elementare, potremmo quindi anche dire primaria, nell’atto sessuale. Ma non si esaurisce con l’atto sessuale.

E’ un’energia che sarebbe innaturale non esprimere di tanto in tanto anche nell’atto sessuale (almeno fin quando se ne ha il desiderio e si ha la prestanza fisica per realizzarlo), ma non necessariamente ha bisogno per esprimersi dell’atto sessuale.

L’eros è anche, anzi soprattutto, un’energia necessaria, indispensabile, per una sana e felice vita interiore.

E’ un’energia, quindi, con la quale sarebbe necessario stare in contatto, in comunione continui, anche quando non si fa materialmente sesso.

L’eros allora è (o, meglio, può essere) una forma di sottile e costante eccitazione, effetto dell’adrenalina, più o meno intensa, che muove le nostre azioni (dalle più semplici alle più complesse) e dà loro energia, forza, gioia, entusiasmo, vitalità, creatività.

Si esprime, quindi, anche nel lavoro, nelle relazioni affettive, nella cura che dedichiamo agli altri, nell’arte, nelle attività intellettuali, nel gioco, negli svaghi…

Insomma in tutte quelle attività nelle quali normalmente sublimiamo il nostro desiderio sessuale.

Sublimare, però, non significa rimuovere, scartare. Quasi come se avessimo paura o, peggio, ripugnanza del nostro desiderio sessuale. Significa semplicemente dargli (momentaneamente) altre forme espressive. Per poi tornare a viverselo, allo stato puro, appena il tempo e le occasioni concrete ce lo consentiranno.

L’eros, insomma, potremmo anche dire, è un po’ quello che per i mistici è Dio.

I mistici sono coloro che stanno in comunione perenne col loro Dio. O, almeno, ci provano, si danno da fare per starci. Non solo quando pregano o quando stanno in meditazione. Ma sempre. Anche quando compiono le azioni più semplici ed umili. Come, ad esempio, fare la spesa o cucinare, passeggiare o conversare con qualcuno.

E’ questo quello che distingue un mistico da un normale uomo di fede, frequentatore di templi o partecipe di rituali religiosi.

La persona erotica è quella che, come i mistici con il loro Dio, sta in contatto continuo con l’eros, con la sua libido, ne tiene costantemente accesa e ardente dentro di sé la fiammella.

E come il rapporto con Dio per il mistico non si esaurisce nei momenti di preghiera e di meditazione, ma è un rapporto continuo, così il rapporto con Eros per la persona erotica non si esaurisce nei momenti in cui fa sesso, ma è un rapporto continuo.

Tutti gli esseri umani posseggono la loro quota di libido. Così come tutti (o quasi tutti) posseggono due gambe, due braccia, due mani…

Tutti gli esseri umani, dunque, sono in qualche modo in contatto con l’eros. Ma non tutti lo sono allo stesso modo.

Così come tutti gli esseri umani posseggono due gambe e due braccia, ma non tutti sono in grado di correre o lanciare un giavellotto allo stesso modo.

Ci sono coloro che curano e coltivano il contatto con l’eros, così come gli atleti si allenano nella corsa o nel lancio del giavellotto. Queste sono le persone erotiche.

E coloro che si accontentano di fare ogni tanto sesso, ma non curano e coltivano il contatto con il loro eros. Costoro non hanno nulla di erotico.

Non è facile per la persona erotica mantenersi in unione costante e continua con Eros. La cosa richiede esercizio, cura, impegno, concentrazione, disciplina.

Le stesse qualità (guarda caso!) che sono richieste al mistico per mantenersi in unione costante e continua con il suo Dio. E all’atleta per mantenersi nella forma fisica giusta per affrontare le gare.

Giovanni Lamagna

Due modi di intendere e di vivere le vacanze.

9 agosto 2016

Due modi di intendere e di vivere le vacanze.

La vacanza può essere intesa in due modi molto diversi, anzi opposti.

Può essere concepita e vissuta come un’evasione dalla vita ordinaria. Come puro divertimento. In vacanza faccio tutto ciò che non riesco a fare durante la vita ordinaria, quella che vivo durante il resto dell’anno. Appunto, divergo dalla vita ordinaria: mi diverto! Non cerco né assecondo (anzi li sfuggo, li evado) pensieri pesanti, difficili, faticosi: penso solo a distrarmi. Che è un verbo quasi sinonimo di divertirmi.

Il ritorno da questo tipo di vacanza è molto faticoso. E’ il ritorno alla realtà, dalla quale per un periodo più o meno lungo ho cercato di evadere.

Questo tipo di vacanza può portarmi ad odiare ancora più di quanto non mi accada normalmente la mia realtà ordinaria, quella di tutti i giorni o quella che prevale per la maggior parte dell’anno.

Viene perciò da chiedersi se conviene vivere la vacanza in questo modo.

L’altro modo di intendere e di vivere la vacanza è quello che suggeriva spesso papa Montini, papa Paolo VI, durante gli anni del suo pontificato (1963-1978). Vivere la vacanza come una sorta di periodo privilegiato per cercare il contatto con Dio.

A voler tradurre le sue parole in termini laici (più adatti al pensiero di chi non ha fede in un Dio trascendente): vivere la vacanza come una sorta di periodo privilegiato per cercare il contatto con se stessi o, come amo dire io, con l’Altro da sé. Per entrare in se stessi e non per evadere da sé. Un periodo privilegiato per pensare e non per evadere i pensieri. Per concentrarsi e non per distrarsi. Per godere del silenzio e del contatto con la natura. Più che del chiasso e del contatto con le folle.

Vivere, insomma, le vacanze come una sorta di “esercizi spirituali”, a voler usare un’espressione forte, oggi non particolarmente di moda.

Credo che questo secondo modo di vivere le vacanze sia di gran lunga migliore del primo. Non solo perché ci fa crescere spiritualmente. Cosa che ad alcuni può importare molto poco. Ma perché lungi dal rappresentare una cesura netta dalla vita ordinaria, quella alla quale dovremo tornare prima o poi, quando le vacanze saranno finite, ci allena ad affrontarla e ci rende più forti per sopportarne i pesi e le fatiche. Ci fa, insomma, “esercitare i muscoli”, come fanno i calciatori nel periodo di preparazione estiva, prima dell’inizio del campionato.

Giovanni Lamagna

L’iperattivismo e la scarsa propensione a cogliere il rapporto tra essere e dover essere.

14 agosto 2015

L’iperattivismo e la scarsa propensione a cogliere il rapporto tra essere e dover essere.

Ci sono due comportamenti o modi di essere molto diffusi, che (a mio avviso almeno) costituiscono un preciso limite della condizione umana prevalente e che meritano perciò una riflessione.

Il primo riguarda il rapporto tra “essere” e “dover essere”. Il secondo una tendenza all’attività (che in alcuni casi diventa persino iperattivismo) che copre un vuoto di senso o una incapacità (o non volontà) di entrare in contatto con se stessi.

Credo che tra i due atteggiamenti ci sia un profondo nesso, anzi che in qualche modo questi due atteggiamenti rappresentino le due facce di una stessa medaglia.

E veniamo alla prima questione, quella che ho definito del rapporto tra “essere” e “dover essere”.

E’ per me scontato che tutti gli uomini, anche i più superficiali, arruffoni e insensibili, in qualche modo si rifacciano ad una morale, cioè ad un quadro di valori cui fanno riferimento nelle loro azioni.

Quindi la dialettica “essere/dover essere” è presente in misura diversa (ma in una qualche misura comunque) in ogni essere umano, forse anche in quelli che siamo soliti definire “bruti” (o quasi bruti).

E però ci sono persone che si vedono agire nel quotidiano, nei singoli comportamenti concreti, come se questa dimensione non esistesse. Agiscono cioè d’impulso, quasi di istinto, senza chiedersi minimamente “ma questa determinata cosa che sto facendo la potrei fare anche in una maniera diversa? in una maniera migliore? esiste un’altra possibilità di agire o quella che sto mettendo in atto in questo momento è l’unica possibile, anzi la migliore possibile?”

Parto dal presupposto che queste persone non ammazzerebbero mai nessuno, non ruberebbero mai manco uno spillo, non tradirebbero la moglie o il marito neanche col pensiero, non mentirebbero mai (in maniera grave, cioè facendo danni a qualcuno).

Voglio dire che sulle grandi opzioni etiche (sulle quali tutta l’umanità, almeno in un determinato contesto storico/culturale ha raggiunto un accordo per così dire unanime) non commetterebbero mai colpe (o “peccati”) gravi.

E però, nonostante ciò, queste persone (che poi sono la maggior parte delle persone) danno l’impressione di non tenere in vista, tenere presente una norma di comportamento che vada al di là del semplice impulso, quello che viene loro più naturale e che suggerisce, quasi in automatico, il loro comportamento.

L’impressione è che queste persone ci tengano ad apparire (anzi ad essere) persone eticamente corrette (anzi, perfino, irreprensibili) ma che non si pongano mai e per niente il problema di affinare, migliorare, elevare la qualità delle loro azioni. Che, insomma, non si pongano (per niente o quasi per niente) il problema della crescita, della evoluzione della loro persona.

Si accontentano di obbedire a delle norme di carattere molto generale e universale (il codice etico prevalente nella società nella quale vivono e sono inserite), ma non si pongono il problema di interiorizzarle, di personalizzarle (e quindi di praticarle poi con un sempre maggiore rigore e una sempre più forte coerenza) o, al limite, di trasgredirle, qualora ne ravvisassero l’inconsistenza o il non fondamento etico/razionale.

La norma è, dunque, per loro qualcosa di estrinseco, di appreso attraverso i modelli educativi, mai messi in discussione. E’ il Super Ego, per usare un’espressione di Freud.

La norma (per queste persone) non fa parte dell’Ego (per usare un altro termine freudiano), non è cioè la norma che si dà l’individuo stesso, certo anche tenendo conto dell’educazione ricevuta, certo tenendo conto della realtà nella quale si trova ad operare, ma, in ultima analisi, sempre in base a sue (più o meno) autonome, personali e libere valutazioni.

Con l’intenzione consapevole e decisa di aderire sempre di più ad un modello di persona ideale, a un suo Ideale dell’Io (per usare un’altra espressione psicoanalitica), su cui uniformare i propri comportamenti e il proprio stile di vita.

Insomma sono persone che non vivono in contatto profondo con se stesse o meglio con l’Altro da Sé, quasi un maestro interiore, che orienti e guidi le loro azioni e le loro scelte.

Ripeto non sto parlando qui di persone immorali o che commettono azioni o vivano secondo modelli di comportamento addirittura contro natura. Sto parlando di persone che vivono all’interno di un quadro eticamente irreprensibile (almeno nelle sue linee generali) e che però non hanno (avuto) dei Maestri (per lo meno non saprebbero indicarli) e non si sono costruite dentro di sé un modello di Uomo o di Donna Ideale, con cui dialogare costantemente (nel loro foro interiore) e a cui chiedere continuamente consiglio e orientamento, da seguire poi il più possibile, momento per momento, nello spirito di una crescita ed elevazione continua del proprio modo di vivere.

Queste persone (ripeto: eticamente non riprovevoli, anzi in alcuni casi persino encomiabili) vivono quasi sempre “fuori”, in una dimensione prevalentemente esteriore o pratica. Trascurano completamente (o quasi) la dimensione del “dentro”, quella interiore, della meditazione e della contemplazione.

Hanno bisogno per questo di stare sempre in attività. Per loro lo “stare fermi” è una perdita di tempo, una noia, qualcosa che li fa sentire come “nudi”, senza bussola e orientamento; o, addirittura, una cosa moralmente indegna, negativa.

In alcuni casi l’attivismo di queste persone diventa iperattivismo. Una malattia speculare alla pigrizia e all’accidia.

Per loro ogni scelta è scontata e non ha bisogno di eccessiva riflessione, soprattutto se riguarda la dimensione intimistica dell’agire (a voler usare un ossimoro), ad esempio le relazioni interpersonali.

Credo (spero) sia diventato chiaro, da queste poche e semplici riflessioni, perché l’iperattivismo e la scarsa propensione a valutare la dialettica tra essere e dover essere siano in qualche modo speculari, vadano di pari passo e d’accordo, siano le due facce di una stessa medaglia.

Giovanni Lamagna