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In quali ambiti e modi si realizza la vita dell’uomo?

“Aristotele distingue tre modalità di vita (bioi) dell’uomo libero: la vita che aspira al piacere (hedoné) la vita che compie azioni belle e nobili nella polis (bios politikòs) e la vita che si dedica all’esame contemplativo della verità (bios teoretikos)” (Byung-Chul Han; “Il profumo del tempo”; pag. 100).

Io – si parva licet – la vedo in maniera un po’ diversa da Aristotele.

Anche per me tre sono gli ambiti nei quali può realizzarsi l’uomo libero, ma non sono esattamente quelli indicati dallo Stagirita. I tre ambiti per me sono, molto più semplicemente, il buono, il bello e il vero.

L’uomo libero è innanzitutto colui che si dedica alla ricerca del buono, cioè del giusto, e poi lo mette in pratica. Non solo nella sua vita privata, ma anche in quella pubblica, nella vita della polis (politica).

Perché l’uomo libero, per sua intrinseca natura, non è un individuo isolato dagli altri, ma è politikòn zôon (animale politico), come giustamente lo definisce Aristotele, strutturalmente connesso agli altri suoi simili.

L’uomo libero è poi l’uomo che cerca il bello e lo realizza nelle sue opere, nelle sue azioni, sia nella sua vita privata che in quella pubblica.

Non è necessariamente un artista. Anzi quasi mai lo è. Non a tutti, anzi a pochissimi, è dato di possedere il talento di un Dante, un Michelangelo, un Raffaello, uno Shakespeare, un Beethoven o un Mozart.

Ma a tutti gli uomini è data la possibilità di fare della propria vita una “bella opera”, quasi come se fosse un’opera d’arte.

L’uomo libero, infine, è l’uomo impegnato nella ricerca della verità, che, se è autentica, non è mai solo una ricerca teorica, in quanto l’uomo che cerca la verità, cioè la sapienza, a questa cercherà poi di conformare la sua vita.

In questo senso l’uomo che cerca il “buono” (cioè l’uomo morale) e l’uomo che cerca il “vero” (il filosofo, l’amante della sapienza) e perfino l’uomo che cerca il “bello” (l’artista di sé) sono la stessa cosa, coincidono.

La ricerca del buono, del bello e del vero sono come tre versanti della scalata alla stessa montagna.

Tutte e tre, anche se con modalità molto diverse, portano allo stesso risultato: l’elevazione dell’essere umano, la sua realizzazione.

Tutte e tre quindi in qualche modo rappresentano un itinerario che a che fare con quello del mistico, ovviamente nell’accezione laica e non religiosa (se non in senso lato) del termine.

Giovanni Lamagna

Svuotare la mente e liberarla dai desideri?

Per me – al contrario di quello che sostiene la cultura un tempo egemone nel lontano Oriente – non si tratta di “svuotare la mente, liberarla dal desiderio…”, come ci ricorda ancora oggi Byung-Chul Han nel suo “Il profumo del tempo” (pag. 69).

Io ritengo, infatti, che sia impossibile svuotare la mente dai suoi pensieri. Anche volendolo.

Cercare di farlo, quindi, come ci suggeriscono gli orientali, è un tentativo vano.

La mente, infatti, è i suoi pensieri. Per eliminare i pensieri bisognerebbe eliminare la mente. Cosa impossibile! Perché l’uomo è non solo mente, ma anche mente, non solo pensieri, ma anche pensieri.

Per eliminare mente e pensieri bisognerebbe dunque eliminare l’uomo stesso, uccidendolo o costringendolo a suicidarsi.

L’uomo può, tutt’al più, far fluttuare i pensieri, non inseguirli per metterli immediatamente in una sequenza logica, come di solito è abituato a fare in nome del primato della ragione su tutte le altre dimensioni della psiche.

Può farli galleggiare liberamente come palloncini che si librano nell’aria, in un gioco di libere associazioni, che generano altri pensieri e, soprattutto, emozioni, sentimenti, intuizioni, nuove visioni prospettiche.

E questo può essere sicuramente un modo creativo di utilizzare la mente e i pensieri: è l’esperienza della contemplazione, dell’arte e quella della psicoanalisi.

E, però, mai e poi mai l’uomo potrà liberarsi totalmente dei pensieri, svuotare totalmente la mente, come pretenderebbe un certo pensiero orientale.

…………………….

Ancora di più è vano, anzi è insano, liberare la mente dai desideri.

Il desiderio, infatti, – lungi dall’essere un male, fonte addirittura dell’infelicità umana, come sostiene un certo pensiero orientale, ad esempio il buddhismo – è forza vitale, è energia, è sangue che scorre nelle vene della vita psichica.

Spegnerlo avrebbe come effetto quello di togliere linfa alla vita stessa.

Si tratta, semmai, di coordinare i desideri, spesso contraddittori tra loro, di incanalarli, per non disperdere in mille rivoli la loro energia, di dare loro una direzione unitaria, laddove essi affiorano in noi il più delle volte senza un progetto coerente.

E si tratta soprattutto di aver coscienza del limite, quella che Lacan chiama “legge della castrazione” e, prima di lui, Freud aveva definito “principio della realtà”.

Non tutti i nostri desideri, infatti, potranno avere immediata soddisfazione, non tutti i nostri desideri potranno essere pienamente realizzati.

Ma, se quanto sopra è vero, è altrettanto vero che solo attraverso i desideri noi possiamo scoprire prima e trovare la forza poi di realizzare il nostro daimon, cioè il destino per il quale un giorno siamo venuti al mondo.

Aveva ancora una volta ragione, dunque, Lacan a sostenere che il peccato maggiore per ognuno di noi è quello di tradire “il proprio desiderio”. Altro che liberare la mente dai desideri!

Perché senza desideri la nostra vita è destinata tristemente a spegnersi. Come sanno bene i depressi, per i quali nessun desiderio ha valore, nessun desiderio anima e dà senso alla loro vita.

Per cui essi vivono (fisicamente) ma come se fossero morti (psichicamente).

Giovanni Lamagna

Recensione del libro “Il profumo del tempo” di Byung – Chul Han.

Il libro di Byung – Chul Han “Il profumo del tempo” (editore Vita e Pensiero) è una interessante e utile meditazione su ciò che è diventato il tempo per l’uomo a partire dalla modernità fino alla nostra contemporaneità.

In modo particolare sull’accelerazione che esso ha via, via subito in maniera sempre più vistosa, anche per l’invenzione di macchine che hanno sostituito sempre più l’azione dell’uomo, rendendola sempre più veloce, fino a dettarne i tempi.

Fino a che, come è diventato manifesto ai nostri giorni, non è più l’uomo padrone del suo tempo, ma è il tempo che si impone all’uomo come suo padrone, che costringe l’uomo ad andare ai suoi ritmi sempre più vorticosi.

Questa velocizzazione del tempo va di pari passo con una perdita di senso e di valore: del tempo stesso, ma anche dell’intera esistenza e delle cose di cui l’uomo viene in possesso.

Qui Byung-Chul Han fa una interessante analisi, a partire dalla domanda: è l’accelerazione sfrenata del tempo che porta alla perdita di senso e valore o è questa seconda che causa la prima?

Per Byung-Chul Han è la perdita del senso dell’esistenza che innesca un processo di velocizzazione estrema, quasi che l’uomo, smarrito (di fronte alla scomparsa, anzi alla morte stessa di Dio) e senza ragioni assolute (nel senso di metafisiche) per vivere, volesse stordirsi, ubriacarsi per continuare a vivere.

Io credo che questa tesi sia francamente esagerata: penso piuttosto che l’un fattore provochi l’altro e viceversa e che entrambi si rafforzino a vicenda.

Lo smarrimento dell’uomo di fronte alla morte di Dio provoca la sua esigenza di ubriacatura e velocizzazione estrema dell’esistenza.

Ma questa, a sua volta, rende impossibile all’uomo, incapace di fermarsi e di “indugiare sulle cose” (per usare un’espressione di Byung-Chul Han), di trovare un senso nelle cose.

Nella sua riflessione/meditazione Byug-Chul Han incontra molti pensatori e si confronta con loro. In modo particolare Aristotele, Agostino, Gregorio Magno, Tommaso d’Aquino, Marx, Heidegger, Proust, Arendt, Bauman.

Particolarmente interessante trovo la polemica che egli sviluppa con Marx e la Arendt a proposito di vita attiva e vita contemplativa, di homo laborans e homo meditans.

Come sappiamo, la Arendt esalta la vita attiva rispetto alla vita contemplativa, così come Marx esaltò l’homo laborans in quanto creatore di se stesso.

Per contro Byung-Chul Han afferma la necessità di una vita contemplativa che si affianchi alla vita attiva (tesi a suo tempo già sostenuta da Gregorio Magno) e sia capace di darle senso e significato.

La frase che ne riassume il pensiero mi sembra la seguente: “La vita contemplativa senza azione è cieca. La vita activa senza contemplazione è vuota” (pag, 129)

A Marx Byung-Chul Han contesta l’unilateralità del suo concetto di liberazione del lavoratore. Pe Marx la liberazione del lavoratore sembra consistere essenzialmente (se non proprio esclusivamente) nella riappropriazione del prodotto del suo lavoro. E, quindi, nella sua emancipazione dallo sfruttamento del capitalista.

Per Byung-Chul Han la liberazione dell’homo laborans non può consistere solo in quello che sosteneva Marx. Perché il lavoratore, una volta liberatosi dal giogo capitalista, corre il rischio di diventare schiavo del suo stesso lavoro (oltre che del prodotto del suo lavoro, in quanto consumatore acritico).

Per Byun-Chul Han ci sarà vera e piena liberazione dell’homo laborans quando egli sarà capace di recuperare la dimensione della scholé (tempo libero, contrapposto all’a-scolia, cioè il tempo occupato dal lavoro)e del bios theoretikos di Aristotele; e quella dell’otium (contrapposto al negotium, cioè il  nec-otium) degli antichi romani.

Quando l’otium non sarà più inteso come una semplice pausa/riposo rispetto all’attività ritenuta anche da Marx fondamentale e centrale del lavoro (che detta anche i tempi dell’intera esistenza dell’uomo), ma sarà, anzi, l’attività principale, quella che lo rende propriamente uomo, in quanto tempo dedicato alla sua attività più specificamente umana: quella teorica, del pensiero, della contemplatio veritatis.

Giovanni Lamagna