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L’attimo presente.

Facciamo fatica a vivere nell’attimo presente perché siamo interiormente (anche quando non consciamente) convinti che ci siano alcune azioni che sono nobili e importanti e altre che lo sono meno.

Per cui ci concentriamo in quelle che reputiamo nobili e importanti (e quindi ci piacciono di più) e trascuriamo, snobbiamo, quelle che non riteniamo tali (e quindi ci piacciono di meno).

© Giovanni Lamagna

I due movimenti fondamentali della vita spirituale.

Gli “esercizi spirituali”, di cui parla Pierre Hadot (“Esercizi spirituali e filosofia antica” 2005; Piccola Biblioteca Einaudi), sono fondamentalmente due:

1) quello di allenarsi a vivere costantemente nell’attimo presente, vincendo la tentazione di rifugiarsi nel ricordo nostalgico del passato o di alienarsi in progetti avveniristici per il futuro;

2) quello di viversi come una piccola, piccolissima parte del Tutto dell’Universo e, quindi, del Tutto costituito dalla comunità umana, senza farsi travolgere dall’angoscia che ciò potrebbe comportare, ma anzi godendo del “sentimento oceanico” che a questa esperienza può essere collegato.

Come ebbe a sperimentare felicemente Giacomo Leopardi quando scrisse una delle sue poesie più belle, “L’infinito”, che si conclude con queste parole meravigliose: “Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.”.

Ora è interessante notare (e qui voglio evidenziarlo, chiosando le affermazioni di Hadot) come questi due esercizi prevedano due movimenti non solo diversi, ma addirittura contrapposti; eppure, allo stesso tempo, (misteriosamente) convergenti.

Il primo richiede, infatti, un movimento di concentrazione in sé stessi, di raccoglimento tutto interiore; come se la coscienza fosse chiamata a fermarsi e stabilizzarsi in un punto molto piccolo e ristretto, quello dell’attimo presente, dimenticando il passato e disinteressandosi al futuro.

Il secondo, invece, prevede il movimento opposto: una dilatazione, al massimo possibile, della coscienza fino ai confini estremi dell’Universo e della comunità umana.

Per chi ha vissuto un’esperienza mistico-contemplativa è del tutto chiaro, perché sperimentato e quindi verificato empiricamente, che questi due movimenti solo apparentemente sono opposti, mentre in realtà coincidono, fanno parte della stessa disposizione spirituale.

Sono i due movimenti/atteggiamenti che contraddistinguono l’homo religiosus.

Laddove con il termine “religiosus” non si intende solo (e neanche necessariamente) l’uomo di fede (in un’entità o in una dimensione trascendente).

Quanto piuttosto l’uomo che ha realizzato dentro di sé l’unione (il “religare”, appunto) delle diverse parti di cui si compone la sua psiche.

Parti, che, in una prima fase della sua vita (quella prespirituale) ogni uomo tende a vivere (in una maniera più o meno acuta) come separate, scisse, frammentate, a volte addirittura schizzate, cioè in conflitto l’una con le altre.

E che solo grazie alla vita spirituale, tramite appunto quelli che Hadot definisce “esercizi spirituali”, possono essere ricomposte in unità, per quanto relativa, per quanto precaria, provvisoria e, in ogni caso, sempre perfettibile.

Altrimenti sono destinate a rimanere fatalmente separate, scomposte, malate di una scissione che, col tempo, potrebbe addirittura cronicizzarsi e persino aggravarsi, accentuarsi.

© Giovanni Lamagna

Ordinario/straordinario, banale/sacro.

Noi non abbiamo alternative a quella di vivere nell’attimo presente, che è, in genere, tranne rare eccezioni, assolutamente ordinario, quasi sempre addirittura banale.

Allo stesso tempo abbiamo però la possibilità di trasformare questo momento del tutto ordinario in un qualcosa di assolutamente straordinario.

Come?

Vivendo l’attimo presente come se esso fosse il primo e allo stesso tempo l’ultimo della nostra vita; come se fosse quindi un momento sacro.

Nella consapevolezza che ogni momento della nostra vita, anche il più routinario, ha il suo valore e la sua preziosità, perché unico e irripetibile.

© Giovanni Lamagna

Perché i più rinunciano a realizzare il loro potenziale.

3 aprile 2016

Perché i più rinunciano a realizzare il loro potenziale.

La psicologia umanistica e quella transpersonale sostengono (e, a mio avviso, con molta ragione) che la maggior parte delle persone realizza al massimo il 30% del proprio potenziale umano.

E questo perché preferisce “dormire” (in senso metaforico, ovviamente) o, nella migliore delle ipotesi, campare in uno stato di mezza veglia o mezzo sonno.

Che si manifesta in mille forme. Qui ne indico solo alcune, quelle che mi sembrano le più eclatanti e diffuse:

– una scarsa concentrazione e attenzione alla realtà (tanto è vero che almeno una parte degli incidenti – ad esempio, le cadute – di cui siamo vittima possono essere attribuiti a questo modo di vivere);

– una inclinazione a razionalizzare, a vivere in una dimensione prevalentemente o puramente mentale, intellettuale;

– una incapacità ad emozionarsi;

– all’opposto, una tendenza ad essere succubi delle emozioni, incapaci di controllarle e di gestirle;

– il ricorso alle droghe, da quelle più leggere a quelle più pesanti;

– il sottoutilizzo del proprio senso critico, l’accontentarsi di sposare idee prese in prestito dai mass media o, peggio, il ricorso agli stereotipi e ai luoghi comuni;

– lo scarso senso civico;

– il disinteresse a partecipare alla convivenza civile attraverso un impegno politico attivo.

Viene da chiedersi: perché? perché la maggior parte degli esseri umani propende a vivere così? (Dire “sceglie” di vivere così sarebbe un ossimoro, contraddittorio con la premessa da cui sono partito).

Perché propende a vivere così, dal momento che in questo modo si perde – con tutta evidenza – il meglio?

Un po’ come succederebbe a un viaggiatore che restasse per tutto il tempo del viaggio a dormire nell’albergo dove ha trovato alloggio o camminasse per le strade e i luoghi che andasse a visitare con gli occhi socchiusi, non del tutto aperti.

Ci deve essere una risposta a questa domanda. Che cosa spiega un tale atteggiamento?

L’unica risposta che riesco a trovare è che la realtà fa paura, vedere le cose come stanno provoca ansia e, in qualche caso, perfino angoscia.

Avere consapevolezza (per fare solo un esempio, quello più estremo) che la nostra vita, per quanto bella e soddisfacente, si concluderà inevitabilmente, prima o poi, con la morte, può ingenerare perfino terrore e, quindi, fuga da tale consapevolezza, rimozione di questo pensiero.

Inoltre stare sempre concentrati, vivere cioè pienamente l’attimo presente, comporta una fatica, uno sforzo, almeno all’inizio, quando non si è abituati a farlo.

Ecco allora che, per difendersi dalla paura, dall’ansia e dall’angoscia, per evitare lo sforzo dell’impegno e vincere la pigrizia, si preferisce campare in uno stato di incoscienza o di semi-coscienza, in una condizione di indolente torpore.

Ovviamente in questo modo ci si protegge (forse) dalla paura, dall’ansia e dall’angoscia (anche se queste poi spesso si manifestano in altre forme e per altre vie: insoddisfazione, noia, disgusto, nausea, mancanza di empatia, incapacità di entrare in relazione profonda con gli altri, apatia, rinuncia all’eros, astenia o, perfino, impotenza sessuale, depressione più o meno profonda).

Allo stesso modo si evitano sforzi e fatiche (anche se, poi, paradossalmente spesso si è stanchi lo stesso).

Ma, nello stesso momento e in pari grado, ci si impedisce di godere appieno di tutte le cose belle della vita o, meglio, delle cose migliori della vita.

Che richiedono, per essere apprezzate, lo sguardo vigile, l’orecchio attento, la mente sveglia, l’animo aperto, un impegno attivo e costante, anche se faticoso.

Giovanni Lamagna